Articoli marcati con tag ‘stati di densione’

Voce del verbo: nel continuo mi (ri)(con)figuro. [sogg. sott.: I pers. sing.]

martedì, 22 Maggio 2012

Somewhere in there there is light
Somewhere in there there is someone who wants to shout.
Somewhere under all that garbage,
Somewhere under all that nonsense,
Somewhere under all that fear,
Somewhere under all that best form of defence,
There’s you.

*

Lascio aperto, se non altro per una questione di luce interiore. Non parlo con nessuno, non parlo di nessuno, ho solo sete di ridondanze e relazioni. Uso matite e non penne, cancello, riscrivo mille volte, cerco costole, colonne vertebrali e metameri, sequenze, immagini uguali che ripetendosi testimoniano di stati diversi nel tempo. Strutture dalle quali emergono storie, poiché le somiglianze sono comunque più antiche delle differenze: tratti di binari abbandonati, strade interrotte, case vuote, terreni lasciati incolti, così sono le parole e le voci di cui tento di seguire le tracce. Di tanto in tanto, nei segni e nei sogni tornano dalle sponde dei miei tempi più remoti volti che mi guardano muti, senza emettere suono ma che non hanno ancora il pallore del passaggio: lineamenti rigidi ma scolpiti nel legno piuttosto che nella roccia, espressioni che non dicono, ferme da mezza vita fa in stato vegetativo. Altre volte arriva una voce nuova a spingermi in un angolo, soltanto parlandomi, sapendo che non mi ritrarrò subito. Sono voci dal sorriso obliquo e un tocco caldo che invece tempo non conosce, io credo sempre che siano una minaccia e invece poi scopro, durante il giorno, che venivano a proteggermi da un male più grande, da un buio più profondo che si nascondeva giusto dietro le spalle dello sguardo che volevo fuggire, appena dentro la tensione del ventre che così disperatamente desideravo liberare, appena sotto il pelo dell’acqua dove mi affannavo per riemergere. Come quella volta che per parlarmi ti sei dovuto chinare su di me, dalla tua infinita altezza fino alla mia minuscola figura in un gesto che è stato un viaggio lungo un cielo intero, una discesa lenta e attesa, che aveva il suo giusto peso.
Occuparsi, trascurare, accorgersi e negligere, attendere e disattendere, sono incessanti le oscillazioni tra quel che facciamo e quel che potremmo, tra quel che sentiamo e quello che ci sfugge, tra quel che scegliamo di dire e di tacere. E’ tutto così chiaro, nelle profondità delle immagini, che tutto quel che resta sono solo giri e rigiri di frittata, altre facce di una stessa cosa che non potrà fare a meno di ripresentarsi – solo, nel tempo, un po’ più cotta, un po’ più indigesta, fino a che non si sia completamente bruciata, ormai del tutto immangiabile.
Allora ti prego, gigante, torna di nuovo a parlarmi dalle tue altezze immense, e scendendo smuovi ancora le nuvole e l’aria intorno: lo spavento si porterà via le spighe e i papaveri, va bene, ma almeno per qualche tempo si potrà respirare di nuovo.

*

Tornato a casa nel pomeriggio, mi distesi stanco morto sopra un duro giaciglio, aspettando il sonno lungamente agognato. Esso non venne; caddi invece in una specie di dormiveglia, nel quale ebbi improvvisamente la sensazione di sprofondare in una forte corrente d’acqua. II suo romorío mi determinò ben presto come un suono musicale, e precisamente l’accordo di mi bemolle maggiore, dissolto in arpeggi continuamente ondeggianti; questi arpeggi si configurarono in forme melodiche sempre piú mosse, ma senza mai uscire dalla triade pura di mi bemolle maggiore, che con la sua continuità pareva prestare una significazione infinita all’elemento in cui io sprofondavo.

Ti con zero.

giovedì, 26 Maggio 2011

E ora?

Condens’azioni

domenica, 3 Aprile 2011

There's something in the air that greets me,
There's something in the air,
I don't know where I belong, or where does it go from here.

See my dreams: they're not like anyone's.

[Nick Holmes, 2005]

*

Allora stasera hai deciso di appoggiare in qualche modo il tuo peso sui nervi che stanno sopra la testa del femore – ti ringrazio – in modo da farmi perdere temporaneamente l'uso della gamba sinistra, e nel frattempo mi rendo conto che ti sto parlando, sì, sto parlando proprio con te, che sei ma ancora non ci sei. E io che sorridevo a quelle che mi dicevano "io ci parlo continuamente, fin dal giorno in cui ho saputo che c'era". Quanto sovraccarico emotivo, mi dicevo, un po' afflitta da tutto il gran rumore che ruota intorno alla pro-creazione, il più delle volte considerandolo fuori luogo, inutile, niente più che una sega mentale dovuta a tutta una serie di condizionamenti culturali che da parte mia credevo di aver rigettato un agosto di ormai tanto tempo fa. Ma si vede che questo dia-logare è una cosa che arriva, prima o dopo, ed è bene che me ne faccia una ragione. Quel che vedo e sento, però, è che la gestazione, l'attuazione di una creatura, procede su diversi binari, è un treno i cui vagoni viaggiano non in fila ma l'uno accanto all'altro, parallelamente, con un'andatura che è davvero difficile associare a qualcosa d'altro. Non so.

E il linguaggio, poi.

Nel tempo, l'entità della tua presenza nelle parole è andata progressivamente crescendo in modo del tutto proporzionale alla tua crescita dentro le mie viscere: all'inizio niente, eri una traccia onirica di quelle che al mattino lasciano solo una qualche lontana sensazione al risveglio ma senza che sia possibile ricordarle; più avanti eri uno di quei sogni – o incubi, ché pure ne ho fatti – che si fanno all'alba, che si ricordano a pezzi durante il giorno, all'improvviso, tipo oh, chissà perché non si chiude 'sta cazzo di zip, e poi ah, sì, giusto, è vero. E poi dopo ancora, dopo ancora hai passato la soglia della veglia e sei diventata parola. Prima una. Poi qualcuna in più. Poi a grappoli. Senza neanche rimuginarci sopra, andavi e venivi a onde di frasi qua e là, sul bagnasciuga ghiacciato di giornate invernali corte e sottili, che sono passate presto. Poi hai iniziato a farti sentire, e anche lì il inguaggio è andato di pari passo: quando eri solo un lontano fremito simil-intestinale avevo i primi sussulti di sorpresa e ti cantavo addosso, in macchina, mentre andavo al lavoro. E poi… poi sei esplosa. Nelle parole come nella pancia. E non solo nel mio, di linguaggio, ma anche in quello degli altri intorno. Più ti sentivo differenziarti dal mio organismo più nettamente ti ho visto assumere una tua forma nei significanti e nei significati che ti riguardano, e un ingombro sempre maggiore. Testimonianza ne è il fatto che sei arrivata fin qui, in questo remotissimo angolo del mio linguaggio che non mi serve per costruire relazioni ma solo per rintracciare e fissare ridondanze e ossature – in questo caso quelle generate da te, alle quali, viste le dimensioni fisiche che hai ormai assunto nel mio corpo, in questo preciso spigolo del tempo che sto trascorrendo a questo mondo, mi riesce difficile non pensare. Anche se so che ormai è questione di tempo: passeranno anch'esse, e muteranno in qualcosa d'altro, pur continuando ad avere a che fare con te.

Insomma, col tempo da sogno ti stai facendo anche tu segno, pur restando ancora l'uno e l'altro, come tutti i tuoi simili che sono venuti prima di te, e come quelli che verranno. Dalla relazione tra due cose viventi ora risulti tu, una cosa nuova che prima non c'era, che è insieme fatta delle due cose che l'anno generata e allo stesso tempo diversa da esse. Una metafora di cui ancora non si conosce il significato, forse e più precisamente. Sei. Sei e non sei più noi, o me, né sei più neanche parte di me, no, al limite mi abiti; sei sempre più altra e insieme sempre più vicina: in quest'ultimo mese della nostra buffa coabitazione non c'è più distanza a separararci, né liquida né strutturale. Siamo umane e formate, uguali in tutto e per tutto, e compresse in così poco spazio che non vediamo l'ora di separarci. Rannicchiata e a testa in giù, quando non potrai più muoverti del tutto, a un certo punto tu inizierai a farti strada e io a spingerti via. La nostra separazione sarà la prima cosa che ci permetterà di raggiungerci, alla fine.

Non sarai mia, te lo prometto, ma sarai nata. E questa, delle parole, sarà soltanto l'inizio.

Voce del verbo: gravido (sogg. sott: prima pers. sing.)

martedì, 22 Febbraio 2011

  No, non soffro di sovraccarico emotivo, non ardo dal desiderio, semmai tardo, indugio per godermelo, per dilatarlo prima di realizzarlo, amandolo nel frattempo. O ancora t'ardo, pure, ché se potessi ti darei fuoco talmente ti voglio, e nel mentre mi domando se è possibile, di tutto questo sognare, recuperare qualcosa, o de-cuplicare, sì, anche solo un segno, una ferita, ché a furia di sognarsi non si finisca per caso col ferirsi, e segnandosi farsi croci e delizie, diventare punti di gravità e lune piene, al cospetto di presenze di un certo peso e che pure, per quanto attraenti, più di tanto non riescono a tirare a sé, al più si ri-tirano – amando – nel dubbio del ma-cosa-sto-dicendo.
  Gli strati sono stronzi, non c'è niente da fare, è tutta una questione di stridori e arsure (estive e invernali), ri-ferimenti, squarci ripetutamente aperti, inferti sulla pelle delle stelle strappate al cielo, de-siderate, tirate giù dalla forza che ci tiene ancorati alla volta (quale?) celeste (e perché non rossa, non gialla?), piombati nell'aria e dis-tanti dalla terra, numerosi e scollati. Com'è bello questo momento di aumento di forza gravidazionale, in cui vivo e vegeto, umana e pianta, con il peso di essere due e una, doppia persona e doppia natura. Sprigiono, senza sentirlo, una forza che non vedo e non scelgo, ma che sceglie me incessantemente facendomi contenere, rendendomi capace delle fantasie mie e di quelle di un altro-da-me, contenente e contenuto, di nuovo segno di qualcosa che non si segna, senza religione, solo un crocevia di destini che sono venuti al mondo dentro, in-nati, che pure non sanno quando e se mai saranno.
  E mentre non so e non vedo mi faccio tempo, e scopro che non tendo più verso l'interesse, non mi interessa più interessare, essere interessata o interessante. E' lo stato interessante quello in cui invece mi immergo, ma non solo ora, bensì nel tempo, nel tondo della parentesi aperta che sono ora e che non si chiuderà se non a tempo debito (o a credito). Tra le due curve così dis-chiuse, quindi, mi aggancio a costruire legami, parentali e fra parentesi, con l'intenzione interstiziale di restarci. A tessere, senza il benché minimo interesse.