E’ una giornata splendida: vento di tramontana estivo, sole, odore di temporale appena passato. Se trovo l’infermiera Ivana nella stanza di ricerca per il prelievo, poi, le prime parole della giornata sono leggere e gioiose, e sistemano il sapore di tutta la mattinata. Faccio il prelievo, mi piantano la cannula per la TAC di mezzogiorno, vado in sala tamponi Covid e dietro di me sento dire buongiorno in un accento talmente familiare che quasi aggredisco la ragazza alla quale appartiene: Ercolano, marito militare, un bimbo di cinque anni, vive qui da sette. Lei è senza capelli, fa le terapie che forse un giorno toccheranno anche a me. Pare ci sia quasi sempre un momento, in questo cammino, in cui si diventa magre e opache, una fase necessaria e che alla fine salva la vita, ma, appunto una fase. Quando ci penso sento le mie fibre vibrare, come se qualcosa dentro immagazzinasse questa nozione un pezzettino alla volta, quasi a volersi preparare, da un lato, e dall’altro mettere davanti al tempo presente una lente che esalta, decanta, letteralmente magnifica lo stato attuale delle cose.
Ci si incontra tra i corridoi, tutte diverse e uguali, e a ogni scambio ci si saluta con l’angolo di prospettiva spostato. Che strano. Fuori non tutti gli scambi sono così densi… o almeno, così mi pare oggi. Il contesto è la maggior parte del messaggio, qui è particolarmente evidente.
Come quella volta a febbraio: erano i primi mesi, non capivo, non sapevo, muovevo i primi passi in questo nuovo ambiente che cercavo di decifrare con in testa solo una domanda, una sola, quella che investe come un tram in faccia tutti quelli che ricevono una diagnosi come la mia (quanto mi resta da vivere?), sconvolta per essermi ammalata così giovane, e con i bambini ancora piccoli. In sala terapie, alla mia prima flebo di acido zoledronico, nella poltrona accanto alla mia sedeva lei, la signora delle orchidee, come l’aveva chiamata l’infermiera presentandomela. Già che c’ero, dovevo fare anche un’iniezione, e dopo aver tirato giù i pantaloni ci si mette poco ad attaccare bottone, no?
E allora niente, lei sessantotto anni, al quinto ciclo di chemio, con le borse del ghiaccio su mani e piedi, una stanza di fiori INCREDIBILI che mostrava fiera dallo smartphone a chiunque si trovasse a passare, che mi chiede tutto, tutto… e quanti anni hai, hai bimbi (sempre primo pensiero, in questo percorso di tumore che tocca alle femmine), e quale terapia, e che grado, e cosa c’è nella tua sacca. E io, che allora viaggiavo ancora sul filo del terrore, che ogni domanda mi riduceva in lacrime che non sapevo arginare, rispondevo secca e con la voce a un millimetro dal rompersi, finché lei mi fa: “beata te che ti sei ammalata così presto! Alla tua età ci sono ancora gli ormoni! Io ormai posso farlo fuori solo con la chemio… però io gliel’ho detto, eh, a ‘sto bastardo: o mi, o ti… ma meglio ti! E allora l’altro giorno me l’hanno anche già detto, che si è già un po’ inspigolito…”. Non si era nemmeno accorta, chiacchierando, di avermi lasciato con la bocca spalancata per non so quanto. Fortunata per essermi ammalata a quarantadue anni? COSA?
Non ci potevo credere, ma… aveva ragione. Prendo solo pillole che tagliano via al tumore il carburante di cui si nutre, che nel mio caso è fatto al 90% di ormoni. Nel frattempo, vivo normalmente, faccio una visita ogni ventotto giorni e altri esami ogni tanto. Lavoro, faccio la mia vita di sempre, cammino sette chilometri al giorno con i miei piedi, e… sto bene, cazzo, STO BENE.
Quando l’infermiera è venuta a togliermi la cannula per poi liberare la poltrona per la paziente successiva, quasi quasi non volevo andare. Avrei voluto sedermi con lei ancora un po’, perché lo scossone era stato forte e mi si era spostato improvvisamente l’asse di tutto. Ce la posso fare veramente, allora. E intanto, che bellezza stare in piedi.
Ma.
Che.
Spettacolo.
E’.
Camminare.
Articoli marcati con tag ‘stati di densione’
B9
giovedì, 1 Luglio 2021B33
venerdì, 25 Giugno 2021
C’è vento dopo il temporale di stanotte, e pochi umani in sala d’aspetto. Una luce prepotente, un televisore acceso sui reflussi gastroesofagei morali del mondo di fuori, e intorno voci sommesse che parlano di sonno che non arriva, di mercato, di bambini. Si sente un qualche conduttore di programmi mattutini parlare di miracoli, di mano divina, di essere circondati di amore da lassù, mentre in sala, in egual misura, sopra le mascherine si vedono occhi che si inumidiscono o che roteano dopo un vistoso no della testa.
Ho sonno, ho bisogno di dormire anch’io, signora, stamattina devo fare questa flebo che l’altra volta mi ha allettata per tre giorni e spostato di una tacchetta la soglia di ciò che sembra importante, non so in quale direzione. Star bene. In piedi, in forze anche solo per lavare i piatti, per fare due passi in giardino… oro. Una scintilla quotidiana, adesso, si è accesa a illuminare ogni gesto, in contrasto col buio di quando manca.
Passerà anche questa, lo so, e non mi fa più tanta paura come prima, e pure nel frattempo temo, temo e faccio del mio meglio per arginare la preoccupazione. Avverto anche un grande senso di mancanz… o essere manchevole, forse, verso Lui che mi sta accanto e per il quale dovrei… non lo so cosa dovrei, ma mi sembra di essere sempre in difetto. E’ che questa malattia prolifera effettivamente in tutte le direzioni, si infila anche sotto le lenzuola, e le metastasi che ho nelle ossa me le ritrovo anche nello scheletro stesso della vita a due, a quattro, e fuori.
Un’altra forma di paura, dopo quella strettamente legata alla sopravvivenza: ce la farò a dare una vita quanto più possibile normale a chi condivide con me questo pezzo di strada?
Plot twist
venerdì, 4 Giugno 2021Cosa farò di questo spazio?
Sono mesi che lo guardo vibrare il suo vuoto, con la vaghezza di un desiderio sempre nello stomaco: tornare, rientrare, ri-lanciare parole qui, dentro, sotto, ché ora il Segno ribolle nello spazio a margine delle attese, delle sale che abito mentre aspetto la prossima visita, il prossimo esame, il prossimo liquido di contrasto.
La malattia è entrata nella mia vita, sì. E’ cancro, carcinoma, metastasi, di tutto un po’. In verità, chissà da quanto tempo c’era e non lo sapevo, la contenevo nel silenzio, eppure. Diciamo che adesso è entrata anche nel linguaggio perché so che esiste, come tipicamente accade all’umana specie in luogo di qualsiasi passaggio di livello logico: non solo ho paura, ma so di provare paura, perché ho dato un nome al pericolo.
Diventerà un diario della malattia, questo spazio?
Tanto non c’è più nessuno qui, mi dico spesso. Mi sento quasi quasi al sicuro, in questo indirizzo che un giorno penso di lasciare ai bimbi per dire loro: mi troverete lì, se vorrete.
E’ anche che ho bisogno di un posto dove versare, insieme alle parole, il terrore e i tremori che mi inseguono ovunque, al di là della soglia del razionale, al di là del fatto che probabilmente c’è una via di guarigione da tutto questo, che sono in ottime mani, che gli esami sono buoni, che fisicamente sto anche bene e sto continuando la mia vita di sempre, anzi forse la sto anche migliorando.
Ne verrò fuori in qualche modo, dico sempre a tutti, è un po’ anche un training autogeno mentre sotto ribolle un magma che non sempre riesco a controllare… così ho scoperto che mi fa bene trovarmi un fiume, un lago, anche solo un canale dall’acqua vivace, sedermi e lasciar andare via nella corrente quello che non riesco a spiegare. I muscoli se ne vanno per fatti loro, a momenti non so più se sto singhiozzando o vomitando, ma immancabile arriva poi il momento in cui sento qualcosa che si spezza, e il fracasso di frantumi grossi mi sveglia d’improvviso e mi ritrovo la faccia gonfia, gli arti sfiniti e le spalle più leggere.
Resilient evil
sabato, 1 Settembre 2018Muoviti.
In ogni direzione, sguscia tra questo e quello, tra una confidenza e un malumore, tra un pensiero e un caffè, tra un appuntamento e un desiderio danza, poi ferma, lì nel mezzo, per il tempo necessario a lasciar ungere sul grasso dei tuoi fianchi gli inutili attriti, fino a che, ben oliati, non si perdano nel silenzio di un ultimo giro. Che stanchezza la scontentezza, soprattutto quella di chi la coltiva con inconsapevole passione. Dov’è il punto di dissipazione?
Noisy pink bubbles / Signal to noise
lunedì, 6 Giugno 2016And you, make all my words go away.
And you, take all my time.
But you, make all the hurt go away
and all I can say it it’s day after day, all I know.
*
Pop!
Chi siete? La lingua non mi aiuta, la clorexidina mi sta mandando a puttane il senso del gusto, soprattutto nel parlare.
Succede che non capisco cosa ci sia da capire in queste bolle di rumore che le voci umane sono diventate in questi ultimi anni, che esplodono a caso, senza ritmo, eccheccazzo, chi se lo immaginava che persino le bolle di sapone potessero fare tanto casino? Se leggi ad alta voce non sai come andare a capo, è tutta una sequela di comesonobello, dovesonostato, cosahomangiato, dichisonoamico, rumore bianco sempre uguale che mescolandosi all’uguale degli altri si riproduce interminabile per sequenze di attimi che in un momento diventano decenni, è la timeline di un pensiero che ha rifiutato il circolo del ciclo per potersi sentire finalmente appagato dalla sua stessa violenta ripetitività, sempre avanti, sempre mai visto, uao, tenuto in vita dai tanti piccoli pop!, infiniti orgasmini rosa di novità, rumore di una frazione di secondo che oh, guarda, mi hai svoltato la giornata.
Pop!
Così mi levo un dente, e col corpo che reagisce alla perdita di un pezzo me ne vado per idee, cammino per strada e ascolto ma non mi viene in mente niente, poi giro l’angolo e il caso mi fa incontrare Sonia, con quel bellissimo pancione le avevano detto che non doveva essere, e per quello stesso pancione due mesi di preoccupazioni orribili sulle spalle, sola, che cerca di tenere duro mentre le settimane passano e le notizie non arrivano, o arrivano confuse, brutte, imprecise, col fegato che cade a pezzi e altri due bimbi per i quali dover continuare a tenersi in piedi, e poi ecco, una telefonata, quella telefonata, il genetista che dice è tutto a posto, signora, è tutto a posto, e lei che esplode, deflagra, e io che faccio appena in tempo ad abbracciarla e a tenerla, e a piangere insieme a lei, un’estranea per la quale mi viene in mente adesso tutto, che è esplosa in un’armonia di singhiozzi da diaframma rotto che arrivano fino alle montagne e che nemmeno la buonanima di Nusrat Fateh Ali Khan, cazzo. E mentre la sua musica richiama dal silenzio altri canti e altre armonia,
Pop!
dal bar di fronte emerge la concitazione di due tizi sulla quarantina che conversano di quello che hanno letto sulla timeline di qualcun altro, commentando, supponendo eventi, sentimenti, ragioni, quasi divinando questo solco della moderna chiromanzia che per ottenere i suoi responsi non ha nemmeno più bisogno che la mano in esame sia fisicamente presente. Allora ritorno a Sonia, alla musica del suo pianto e mi ci aggrappo, mentre andiamo al bar e insieme ci aggrappiamo a un bicchiere d’acqua fresca che gentilmente lava via l’ondata di piena dell’emozione ma mantiene il segnale a livelli di purezza inaudita, cancellando col cristallo un paio di sorsate tutto il rumore intorno e il disgusto per esso che provo da quando me ne sono staccata.
Send out the signals – deep and loud.
Sì, perché tanto non fa niente.
Il rumore non fa. Niente.
Non crea. Non distrugge.
Disturba, forse, ma non fa.
And in this place, can you reassure me
with a touch, a smile – while the cradle’s burning?
Pop!
Me ne vado per idee, e nel niente mi torna in mente tutto. Il tempo di un incontro casuale e quattro chiacchiere: una sentenza di morte, poi una di vita, e sotto il sole il rumore sottile dell’internet che parla ma non dice.
E che non fa niente.
Receive and transmit.
L’aria ha cantato, cazzo.
E dopo tanto tempo, nel contatto con un altro, ho detto io.
E non fa niente.
Non mi fa niente.
Il rumore che genera paralisi e silenzi non mi fa niente.
So ancora toccare, parlare, ascoltare. Ricevere e trasmettere.
Non era finita.
You know that’s it.
La voce guarisce.
Grazie, Sonia.
Articol’azioni
martedì, 24 Febbraio 2015E’ inutile che ci prendiamo in giro, dai, ché nel polso della situazione c’è tutta la debolezza di un atto di forza riuscito male. Nel prendere piede c’è il peso di una pianta che non calza, che non calcia, che non cresce e non ramifica. Nella curva a gomito c’è l’evento imprevedibile e per questo imperdibile (non puoi scegliere di evitarlo!), in tre dita di vino la probabilità dell’aceto, nella destrezza il sinistro in potenza, l’indecenza degl’incidenti provocati con l’abilità della mano con cui scrivi – ma non tutti, per carità, va bene: per quanto i sinistri si ritrovino in maggioranza al volante diventando così i principali agenti del pericolo costante, la costanza è al contrario qualcosa cui bisogna ad-destrarsi. Un casino in tutti i sensi di marcia, insomma.
Il ginocchio è invece luogo di contrizione, prostrazione e disperazione, sì, ma solo davanti a quel sadico despota di dio. Perché a guardare i bambini, che in ginocchio imparano l’enormità della gioia del movimento e passano poi sulle rotule la maggior parte del loro tempo esplorando, scoprendo e mettendo insieme il grande e il piccolo, il tutto e il niente – che non esiste, vabbe’ – non si direbbe mica. Che sia nel ginocchio il sesto senso tanto favoleggiato, il gin’occhio, punto di vista privilegiato, piede-stallo dell’equilibrio delle penne e delle matite, finché gli adulti non arrivano ad imporre il limite massimo verso il basso della sedia?
*
At the failing of the day she heard her father always say: “Remember, it’s only the start”.
Waving
venerdì, 11 Ottobre 2013Sei una falce, tagliente, crescente ma cresciuta di un niente. Falci a falcate larghe, spesse, sconnesse, dentro un’ubriachezza di stomaco che ti fa continuamente desiderare d’essere altrove, possibilmente momentaneamente assente, si prega di richiamare più tardi – anche se poi sei a casa. E’ una solitudine di cristallo, quella della Luna, sì, che si snoda nel tempo sopra la coltre di nuvole inquiete dell’autunno. Sole, ma ‘ndo’ cavolo sei? – ti chiedi nel sogno del mattino in cui sei lì, per strada, che aiuti a partorire una donna con la pancia viola melanzana che grida disperata al suo piccolo, ormai fuori e col cordone ombelicale lungo un chilometro, “la vuoi smettere di fare le fusa, perdio?”.
Sole, ma ‘ndo’ cavolo sei? Qui non ci si capisce niente e splendere da sole è una fatica immensa, in certi momenti, specialmente di giorno. Proprio adesso doveva venirti in mente di andare a dar luce da un’altra parte?
*
Turn up the noise
and see if you can maintain your poise.
Edge out the door
And feel it as you swim back to the shore.
(continua)
Voce del verbo: indìce (sogg. sott. terza pers. sing.).
lunedì, 15 Luglio 2013Hoard
Collect
File
Index.
Catalogue
Preserve
Amass
Index.
*
Ci sono le nuvole tonde e grigie, e lunghe festuche di luce che le pungono sulla pancia infilandosi sotto il cielo da ovest. C’è il ramo di un roseto sfuggito alla potatura che si protende oltre il giardino in cui è nato, fuori, sulla strada, ondeggiando sulle teste dei passanti e tirando il capo verso l’alto con tutte le sue forze, in cerca della luce che gli serve per quegli ultimi boccioli prima che li trovino il primo gelo o le mani degli uomini.
Ci sono poi le filastrocche
e nello
stesso punto
si trovano
una partenza imminente,
una fame da placare,
piccole mani da stringere,
dolori lontani
che vanno
che tornano
a ritmo di marea.
E poi
contrazioni del senso da sorvegliare,
desideri da ancorare alla bitta,
zucchine, carote e patate da bollire,
nuove consistenze da imparare,
equilibri da trovare,
caffè da bere,
abbracci
da
rincorrere:
madovecazzoandate?
Dopo vengono,
improvvise,
le cadute da accogliere con gioia,
gl’incarti di plastica che diventano fantasmagorie di suoni e colori;
dopo ancora, vertebre che si schiacciano
da distendere con riposo e pazienza,
obiettivi da pulire
obiettività da abbandonare,
procedendo di tre in tre,
perché un-tza-tza è la danza
del linguaggio che frantuma
la pazienza e le distanze.
C’è poi da nascondersi,
da occultare
e giocare a nascondino;
e tenebre diurne,
orrendi chiarori notturni,
pensieri pesanti
e versi avvelenati
[(…) Non ho vissuto la vita di nessuno,
nemmeno la mia:
chi non ha anima
non ha vita. (…)]
da masticare e inghiottire
uno a uno
che poi si annodano
a una voce che si avvita al suo vuoto
coagulandosi
giù
giù
nell’intestino
in sogni densi
di mani che macellano bambini
dietro un bancone scintillante
sgozzandoli dolcemente
finché non li prende un sonno
impossibile da guardare
e che alla fine incartano
per venderlo a un tanto al chilo.
[I’m a collector and I’ve always been misunderstood.]
Fermata non richiesta (10/?) – Sono stato solido.
venerdì, 26 Ottobre 2012E’ il 6 settembre 2008, e il signor Edoardo ha settantasette anni, la mano destra deformata da sessant’anni sulle macchine e con una voce roca che sa di segatura fine racconta di come gli fanno strano i ragazzi di oggi che a sedici anni “che devono fa’? so’ ragazzi…” li giustificano i genitori, ma lui dice: “eh, uagliuni. Io a sedici anni mi sono aperto la falegnameria per conto mio, dopo la quinta elementare mi sono messo a imparare un mestiere, era il dopoguerra, e noi nel dopoguerra eravamo poveri. Noi non c’avevamo terre, perché in famiglia mia tutti falegnami, artigiani e commercianti, e mio padre nel Quaranta teneva sessantamila lire, che ci potevi comprare tipo otto appartamenti. Dopo la guerra, invece, valevano cento quintali di farina, così papà li liquidò, come si dice, perché non tenevamo niente da mangiare. Ho imparato il mestiere da mio padre e da mio nonno, e a vent’anni mi sono comprata quella macchina laggiù, che costava trecentocinquantamila lire. Io non avevo un soldo, mi ci volle una colletta di quattro famiglie di parenti per mettere insieme la cifra. Poi negli anni ho restituito tutto. Per fortuna è andata bene”.
Eccome, se è andata bene. Ci mostra i pezzi di cui va più orgoglioso, tre stipi a due ante, e sul fronte delle ante pare un sogno: paesi del Molise ritratti in minuti mosaici di legno. Ci incantiamo davanti al più bello di tutti, uno spettacolo di tremilaseicento pezzi di tutte le sfumature del legno esistenti, un paese incastrato su una montagna investito dalla luce del tramonto, sovrastato da un cielo rosso sangue. Ci dice “questo l’abbiamo fatto io e mio figlio, tre mesi di lavoro. Volevo anche farci delle belle nuvole su quel cielo, ma dopo tanti mesi a lavorarci dalla mattina alla sera mi so’ sfasteriato. Ah, ma tanto finché sta qua… prima o poi lo faccio, e ci metto due nuvole qua e qua, che passano in questa direzione e sono colorate dal tramonto”.
Anche ora, che è estate e si lavora poco, un paio d’ore in falegnameria se le fa tutti i giorni, dice, “sennò passo una cattiva giornata. E’ che ho guadagnato bene e la vita alla fine mi è girata bene, ma io sono rimasto sempre lo stesso!”.
Indica gli abiti da lavoro, una camicia porpora rattoppata e chiazzata di segatura e un paio di jeans che usurati è dire poco. “Per avermi visto col vestito, una volta su in chiesa qua a Castelpetroso, il parroco mi è venuto dietro per strada urlando Edua’, finalmente te vedo vestuto!… vedete, signuri’, come se vestirsi fosse solo quello che te metti ‘o juorno d’a festa cummannàta. Ma io non li capisco, a questi”. Siamo ancora davanti agli stipi, e quando riconosco i paesi sulle ante si illumina tutto e parte a raccontare di come lavorare non sia più gratificante come prima, specialmente in Molise: “non è per dire, ma la gente è ignorante e per ignoranza offende. L’altro giorno è venuto uno che ha detto mh, bellino questo, ma non ci vuole niente a pittarne uno uguale. Pittare. Non s’era manco accorto che era di legno, il disegno”. E continua guardando la sua officina: “l’artigianato è finito, lo vedete, i mobili che durano una vita nessuno li vuole più, è un guaio enorme. Nel periodo che m’è andata proprio bene-bene avevo una ventina di dipendenti, però non era gente che gli piaceva il lavoro, era gente che voleva solo i soldi, allora io ci mettevo mesi e anni per insegnare ma il lavoro non usciva mai come dicevo, mai un lavoro come dio comanda. Ho cominciato a mandare via quelli che non mi piaceva come faticavano, gli altri se ne sono andati da soli quando s’è capito che dovevano lavorare come dicevo io. Finché non siamo rimasti solo io e mio figlio. Guardate che la gente non tiene più rispetto per niente, tanto meno per il mestiere. Ma dico io… se non ti piace, ma che cazz’ ‘o viene a ffa’? Perdonate, eh”.
Ci mostra, infine, il pezzo a cui sta lavorando ora, un quadro con Gesù risorto che offre se stesso bambino, e racconta di quanto ci abbia litigato, con quel Gesù, per un occhio che gli aveva dovuto rifare sei volte prima che venisse come lo voleva lui. Prima che ce ne andiamo fa il diavolo a quattro per offrirci il caffè al bar, e racconta ancora: “ho sempre fatto una vita indipendente, ho lavorato con gente di tutt’Italia, ma la mancanza di rispetto che c’hanno qua negli ultimi anni non l’ho mai trovata da nessuna parte. Mi fanno restaurare mobili di metà Ottocento e poi vogliono pagare quattrocento euro tre mesi di lavoro. Io ho sempre fatto una vita indipendente, capite, lo so come lavorano dalle altre parti, ho girato l’Italia sopra e sotto, e quello che a volte fanno qua da altre parti la piglierebbero come un’offesa. Ma che valore tiene il tempo di una persona, dico io, nessuno? A me tre mesi della mia vita non me li ridà indietro nessuno, manco il lavoro pagato il giusto, figuriamoci le maniere di certa gente. Io lo facevo per la famiglia mia, ma ormai è finita qua. Adesso faccio quello che mi pare, il lavoro che dico io solamente”, e dal bar indica verso l’officina che è lì a pochi metri, e dalla quale si scorge la cornice di un portone che sta appoggiata di fianco su un tavolo che non ne ho mai visto uno così grande. “Guardatelo mo’, e se venite alla vernata poi vi faccio vedere che ne facciamo uscire”, mi risponde quando gli dico che mi piacerebbe vederli lavorare, lui e suo figlio.
“L’importante è conservare la testa”, ci fa alla fine. “Io ho avuto abbastanza, e sto bene accuscì”.
– E vabbe’, tenete quest’arte nelle mani, e che vi serve più? Sapete fare delle cose meravigliose!
– Signuri’, non dite così. La gente tiene in testa un sacco di cose stupide: i titoli, le lauree, e poi ci passano in testa a noi che non abbiamo studiato. A me questo mi pare assurdo, perché se poi andiamo a vedere un laureato tante cose non le sa fare. Ma io non dico che uno è meglio e uno è peggio, è solo che loro sanno fare delle cose e l’artigiano ne sa fare altre. Io so fare quello che so fare, e quello che so fare lo so fare bene. Tutto qua.
– Guardate che io quello che vedo qua l’ho solo nella chiesa di Sant’Anna dei Lombardi a Napoli, non so se avete presente…
– E non lo so, io all’inizio ero falegname di mobili, porte e portoni, poi a un certo punto mi sono messo a guardare certi mosaici di legno del ‘500 e del ‘600 che stavano sull’enciclopedia dell’arte di mio figlio, che studiava architettura ma poi ha smesso. Mi parevano disegni e non ci potevo pensare che erano fatti di legno… però se erano fatti di legno forse potevo provare anche io, pensavo. Ho provato a ricopiarne qualcuno, e così ho cominciato.
– Ecco, aiutatemi a dire. Avete fatto e fate cose meravigliose.
– Vabbe’, voi non mi capite. Volevo dire che, se gli piace, lo può fare chiunque.
– Se lo dite voi, don Edua’…
Alziamo le mani in segno di resa, e lui si fa una bella risata.
– Comunque tornate a trovarmi, mi fate tanto piacere.
– Prossima volta che passiamo siamo qua.
– Allora salutatemi Pordenone. E’ una bella zona, ci sono stato quattro o cinque volte per dei lavori…
– Davvero? E che lavori avete fatto?
– Ma niente, cose andate esposte in qualche palazzo che non mi ricordo come si chiama.
– …
– Eh, fate quella faccia ma guardate che non scherzo mica, quando dico che ho girato.
– No, è che… vabbe’, lasciate sta’.
– Comunque non vi dimenticate, mo’ che trasite a Pordenone, di dire “saluti da Eduardo il falegname di Castelpetroso!”.
– Sarà fatto.
– Stateve bbuono!
– Pure voi.
– Ce putite juca’ tutto chello che tenite.
(continua)
Dopo tutto
martedì, 24 Luglio 2012Forse è meglio che quella lettera non sia mai arrivata.
Forse è meglio essere andati ad annoiarsi al mare.
Forse è meglio essersi sentiti dire che è ora di re-imparare il silenzio.
Forse è meglio mettersi ad aspettare la pioggia e annotare, nel frattempo, il piccolo, l’infimo e il particolare.
Forse è meglio fare l’elenco di tutte le cose che desidero dirle, quando sarà più grande.
Forse è meglio rimettere in moto la memoria, e ricominciare a studiare.
Forse è meglio continuare a non convincersi di un bel niente, e a lasciare sul muro il segnale “SCAVI APERTI”.
Forse è meglio restare qui, in sereno dispatrio, e tenere duro di testa e di parole, e insistere, insistere, insistere ad abitare l’acqua edificabile delle parole-mondo.
Forse è meglio non andarsene e difendere il diritto di rintanarsi, di non farsi trovare, di essere lasciati in pace.
Forse è meglio provare ancora il desiderio di scrivere, qualunque cosa questo possa significare.
Forse è meglio prendere la Settimana Enigmistica e rimettersi ad unire i puntini.
Ché tanto, morto un tutto, se ne fa un altro.