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Eppure (ovvero: mobbàsta)

martedì, 27 Giugno 2006

<<Qui è tutto come intensificato, questione di scala probabilmente, di rapporti interni. La forma dei rumori e di questi pensieri (ma erano poi la stessa cosa) mi è parsa per un momento più vera del vero, però non si può più rifare con le parole>>.

[Luigi Meneghello, Libera nos a Malo, 1963]

La quinta – e ultima – volta che sto a guardarla prima di lasciare che mi porti via senza farle più domande inutili è… un elenco.

E’ una mattina di metà maggio, sono tornata a casa da qualche giorno e sto aspettando il C1R alla fermata della Rotonda di San Nicola la Strada per andare all’università. In spalla ho una borsa che pesa un accidenti, la pensilina della fermata si è trasformata in un forno di ferro arrugginito sotto il sole, l’asfalto scotta e ad aspettare il pullmanblù ci siamo io, una corpulenta signora con un passeggino nel quale non si capisce se ci sia un pupo o meno, due rom piuttosto in avanti con gli anni che stanno seduti sul muretto fumando una sigaretta dietro l’altra senza parlare, e un ragazzo tunisino che lavora al semaforo del centro commerciale un chilometro più avanti, che conosco per via di un simpatico episodio di qualche mese fa in cui ci capitò di scambiare due parole e scoprire che entrambi si parlava il francese. Ci salutiamo, chiacchieriamo un po’ del caldo, dei libri che ho con me, di suo figlio che ha sette anni e sta in Tunisia e al quale piacciono ancora, dice lui, le fiabe. Come se non riuscisse a spiegarselo. Le chiacchiere vengono però interrotte dall’arrivo del suo autobus, e io non ho il tempo di chiedergli quali fiabe piacciano al suo bimbo. Tchao, e bbòna jurnata!
Io, invece, ne ho ancora per un po’. Il mio è in ritardo già di un quarto d’ora e, conoscendo la linea, devo concludere che è saltata la corsa. ‘ccidenti. Sotto la pensilina non si resiste, sotto il sole ancora meno, ma se mi allontano per spostarmi sotto gli alberi della Rotonda rischio di mancare l’autobus, cosa che non posso permettermi. Resto dove sono, allora, e con la calotta cranica ormai in fiamme penso a quanto mi sembrano lontani nello spazio e nel tempo il Tagliamento, quella strana primavera che fa sssssss, e quel paio di pedali che dovevo tenere en soferénsa. Eppure, non è passata nemmeno una settimana. Eppure, com’è diverso il mondo di qui e . Eppure guarda qua, in effetti il verde è un po’ diverso. Eppure a terra, ai lati delle strade, qua c’è polvere e là c’erano pallini di polline di pioppo. Eppure, i papaveri sono gli stessi. E le lucertole pure…

… sulle lucertole tiro fuori dalla borsa il quadernino blu e la penna, in un gesto quasi automatico. L’elenco viene giù da solo.

Primavera

Che è pure brutto, eppure… eppure dice esattamente quello che intendo. Niente di più, né di meno. Per una volta. Pure che stong’ schiattann’ ‘e càur’, e che l’esistenza del ciunoerre è diventata una specie di atto di fede. Che in fondo, sul fondo di tutta questa giornata che deve ancora iniziare c’è l’immagine della linea d’un orizzonte, il rumore di un battito d’ali e quello della marea. E che alcune cose le capisco solo quando sto qua e là. Perché intorno a quella linea tirata con il righello danzano due strade, che divergono l’una dall’altra e pure di tanto in tanto si incrociano, si sfiorano, si toccano, si intrecciano e poi di nuovo si allontanano, pur senza mai abbandonare del tutto la linea che – come dire? – le sostiene, forse, e che le salva dal non significare niente (per me), allo stesso modo in cui il bastone di Hermes salvò i serpenti del Caduceo dal divorarsi a vicenda e distruggersi. Solo che, come disse lui, non so se si può rifare con le parole.

Graziemille (compl. di term.: il biciclettaro). Oppure: ciao, elicottero!

sabato, 17 Giugno 2006

La quarta volta, invece, è fatta. Lei spalanca le braccia, belle carnose e paffute, e io imbocco l’abbraccio come un’auto in corsa la galleria della tangenziale tra Fuorigrotta e Agnano – nelle domeniche d’inverno, però, quando è deserta e il tramonto sui Campi Flegrei è una sola, enorme, densa colata di oro zecchino.

Sono le due del pomeriggio del tre maggio, ho pranzato presto perché così, mi dico, vado a fare un giretto in bici visto che lui è al lavoro, io sono da sola, tra qualche giorno riparto e non me ne tiene di studiare perché la giornata fuori è bella, calda e asciutta. Chiama, insomma, e c’ho ‘sto nodo nelle viscere di cui mi devo dimenticare per un po’, giusto il tempo di riprendere un po’ di energie.

[Viscere, eh, vi-sce-re. ‘Sta parola non piace a nessuno, ma che cazzo, eppure ce le abbiamo tutti, le viscere… o i visceri, ché so’ maschi pure da me – ma che c’avranno, che non va, ‘sti benedetti stentìni? Se non la finisci ti metto ‘e st’ntin’ a tracolla, diceva Susi quando la facevamo arrabbiare, e io ridevo per ore]

Allora mi piglio una bottiglia d’acqua, la ficco nella bisaccia insieme a una felpa, ché non si sa mai, e mi avvio… sì, ma dove? Non ci ho ancora pensato. Boh, mo’ me ne vado per via Nuova di Corva, che dove finisce fuori Pordenone non l’ho ancora visto mai. Che poi a un certo punto non è più via Nuova di Corva ma la statale 251, e all’improvviso aumentano macchine e mezzi pesanti, non ha più la spalla e le carrozzerie altrui rischiano mi farmi la ceretta ad ogni sorpasso. Dieci minuti che sono in cammino e già mi sento un ‘ntecchia in pericolo? Andiamo bene.
In direzione di Tiezzo, dopo l’emmezzeta e una luuuuuunga curva che mi fa jettà ‘o sang’ per quanto vicino mi sfrecciano le auto di passaggio, supero il ponte su un fiume che credo sia ancora il Noncello ma che qui c’ha un letto che non gli riconosco, tutto marrone, che sembra scavato nell’argilla. Subito dopo il ponte scorgo un’indicazione per Fiume Veneto che indica, per l’appunto, una piccola strada laterale che sembra sparire nella campagna… l’istinto di conservazione la vince, e svicolo in tutta fretta e tutto a mancina, come dicevano gli antichi, per questo Vallon (come lo chiama un cartello) che attraversa la frazione di Corva.

[e dove poteva finire mai, in effetti, una strada che si chiama via Nuova di Corva?]

Sorrido. E’ deserta, la via, e attraversa un lungo tratto di campagna dove ai lati della strada ci sono campi lasciati a maggese e altri messi a grano e mais, e piccoli canali in cui gracidano forte rane che non si vedono. Incrocio ad un certo punto un cavalcavia della Pontebbana, e dopo poco entro nel centro abitato di Fiume Veneto. In lontananza, alla mia sinistra, vedo il cinema dove ogni tanto andiamo, e l’enorme traliccio dell’alta tensione che gli sta accanto. Nel centro passo un ponte su un fiume che non so come si chiama e mi fermo al rosso di un semaforo approfittando per scegliere quale strada prendere. Tra le varie, mi lascio convincere senza un particolare motivo dalla freccia San Vito al T. 12.
Scatta il verde, e riprendo a pedalare. Il motivo c’è, naturalmente, ma io ho la testa troppo vuota, in questo momento, per accorgermene, ridotto com’è a niente più che un’eco, che arriva… boh, ma che ne so da dove arriva?

[Tagliamento, Tagliamento, acqua, Tagliamento, fiumetagliamento, acqua, acqua, fiume, Tagliamento… che poi non lo so, non lo so… non è vero che non lo so, quasi mai è vero che non lo so, quando parlo di qualcosa che mi sta dentro, e però quando dico non lo so è che in realtà intendo: non lo so dire, perdonami se non lo so dire.]

Santiddio, se vado avanti così oggi mi ci faccio un nodo scorsoio, co’ ‘e st’ntini, come li chiamava Susi, così, che per capire come lo diceva anche la e devi elidere, sennò non si sente bene quando lo leggi. E allora, dico, che per togliermi dalla testa certe cose devo pedalare. Pedala, scema. Pedala. Muoviti.

C’aveva ragione il biciclettaro, cazzo, che ‘sta strada è fatta, sì, di un po’ de soferénsa, e cavolo se non gli voglio bene, adesso, a quel tizio con la faccia quadrata, per avermi dato questo, questa strada, tutti questi chilometri e tutta questa terra da percorrere, che è la sua ma me l’ha regalata sorridendo il giorno in cui mi ha indicato sulla mappa le piste, le strade dove poter portare a soffrire questa bici che c’ha il cambio che si inceppa – e insieme alla bici anche il mio cuore, i miei polmoni, le mie gambe e la mia testa che pure si inceppano, qualche volta, e nel passare da un terreno all’altro o una pendenza all’altra non rispondono più ai comandi.

[Da Fiume a Bannìa, passi sóto el campanìl e poi ti me piega a sinistra. Xe un par de chilometri, ti te trova un incrocio grande – ma grande – e te prendi a destra, e da lì in poi xe tuta strada dritta e pista ciclabile, no te rompi i bài nissuni, no te trovi nianca una macchina… solo poco prima de San Vito finisce, ma ormai te gavarà rivà se te vol vedere il paese… sennò, te torni ‘n drìo]

Ma io ci vado, a San vito, non ci torno indietro, ecco. Il cielo è di un blu surreale, oggi, c’è vento e si sta una meraviglia, no che non ci torno. Eh, ma com’è bella ‘sta campagna, però… e ‘sta  primavera… così diversa dalla mia… da dove la piglieranno tutta quest’erba, tutto questo ondeggiare al vento, così soffice, così… erboso. E’ così erbosa, ecco, la primavera, qui… proprio così morbida, come la parola erbosa che c’ha tutta la primavera firulana dentro… e e r che sono gli steli sottili, b e o che sono il morbidume, e s che è il rumore che il vento fa su tutta quest’erba… sssssssssssss….. ssssssssss….

A casa mia, invece, la primavera è un’altra, è di un’allegria più prepotente, ché quando il caldo prosciuga l’aria…

[prosciuga, eh, qui asciuga e a casa mia prosciuga]

… le strade si fanno polverose e le ginestre esplodono, e – da invisibili chiome di nudi ramoscelli  verdognoli o marroni che erano fino a un mese prima – all’improvviso sulle colline fanno scoppiare la guerra di primavera, ché si mettono tutte a tirar fuori fiori con detonazioni da bomba a mano, eh, bombe a mano di giallo che scoppiano ovunque, e negli angoli liberi lasciati da quel giallo qualcosa d’altro ci prova pure, a fiorire, e gli arbusti di macchia, che so, quelli che le nonne da noi chiamano ‘e ‘mbrellini pure spuntano da tutte le parti insieme ai rovi e al forasacco, che è un casino e nel giro di un mese di primavera non ci si capisce più niente. Che poi, visto che è di macchia, è spinosa la primavera di casa mia, perché sono le piante pioniere le prime ad accorgersi del sole, loro che per inclinazione naturale sono così eliofile, e sì che sembrano delle sciantose che fanno a gara a chi si mette prima il vestitino cchiù bbello, mentre invece stanno solo cantando la sveglia per quelli più lenti che stanno dentro il bosco e che, più anziani, ci mettono più tempo a carburare. Sono i primi scoppi del motore del risveglio della macchia mediterranea, loro, gli arbusti, quelli sprùcidi, che hanno le spine solo perché sono più bassi e devono difendersi in qualche modo, ma che in realtà sono la fanteria di un esercito che si sveglia per rimboccarsi le maniche e andare all’assalto della stagione calda che gli permetterà di sopravvivere – sempre che la Stagione Calda non faccia la stronza più del dovuto.

Ecco che cos’era, che di questa primavera non capivo. Ecco.
Erba, in luogo di spine. Questa è gentile, quell’altra è sfacciata. Questa xe calma, chell’ è nu burdell’. E sono belle uguale. E anzi, quella friulana mi cura quest’anno con il balsamo del suo silenzio, ed è un silenzio senza il quale forse non saprei come affrontare la festa, il casino della primavera di casa mia. Ho il tempo di pedalare e stare in silenzio, in mezzo a quest’erba senza spigoli, tutta tarassaco e polline di pioppo, a recuperare energie e parole per quando sarà il momento di tornare alla polvere, alle bombe a mano di giallo e all’asfalto che ti scotta i piedi anche attraverso le suole delle scarpe. E pedala, mo’, che siamo quasi arrivati. Quello laggiù non è il campanile il San Vito al Tagliamento? Pedala, su.

Poche macchine, molti mezzi pesanti. L’ultimo tratto pare piano ma non lo è e, cavolo, sudo i liquidi corporei fino all’ultima molecola. Ma sono arrivata…

[... mh, ovèro? E dove? Era veramente qua che volevi venire?]

… be’, uhm…boh. Entro dalla porta occidentale della città, passando per la via del Tramonto, e dopo un paio di svolte supero le mura e mi ritrovo sotto il campanile di Piazza del Popolo. Ci sono già stata altre volte, ma questa è la prima che ci arrivo così, con il vento nelle orecchie e il naso all’insù. Sono le tre e un quarto, secondo l’autorevole campanile, e sento che non ho ancora smaltito la pasta e ceci che con tanto amore mi sono preparata a pranzo. Che faccio adesso? Poiché il sole picchia forte, mi fermo su un lato della strada in ombra un poco più avanti per raffreddarmi un po’ e bere. Fin qui avrò fatto sì e no una trentina di chilometri, e non è che abbia esattamente idea di quale strada abbia fatto: le indicazioni del biciclettaro me le ricordavo, ma per la posizione sulla mappa non ci metterei la mano sul fuoco. Penso che mi ci vorrebbe una cartina, allora, anche perché il paese si chiama sì San Vito al Tagliamento, ma il fiume non si vede da nessuna parte. Là c’è un tabaccaio, entro a vedere e trovo delle mappe abbastanza  dettagliate della zona. Ne compro una e faccio per aprirla, ma poi mi accorgo che il negoziante sta sbirciando con un sorriso la bici che ho lasciato accanto all’ingresso… senza pensarci su, allora, lascio stare la cartina e gli chiedo: "scusi, non è che saprebbe dirmi come si arriva al fiume, da qui?".

"Oooooooh, signorina", mi fa illuminandosi tutto, "eh be’, glielo stavo per chiedere io se non le servissero indicazioni, ma certo, ma certo che lo so… guardi, esce dalle mura, qui a destra, e segue la strada che inizia qui di fronte fino al campanile del santuario. Poi trova le indicazioni per Rosa di San Vito, le segue, dovrà quindi a un certo punto girare a destra… saranno un paio di chilometri, poi non lasci più la strada e vedrà che si ritrova direttamente in acqua!".
Ride, lui, e rido anch’io. Non ho mai capito perché, ma qui a chiedere informazioni sempre così si finisce, con grandi sorrisi e tanti graziemille e buonaggiornata, roba che uno quasi quasi si sente un po’ meno forestiero, certe volte. Boh.
Comunque, seguo pari pari le indicazioni del tabaccaio e arrivo alla fine di Rosa di San Vito… che, enorme santuario a parte, è una frazioncina piccola piccola, poche case e una sola strada che a un certo punto sale un po’ e poi finisce: all’incrocio di due sentieri sterrati l’asfalto di interrompe e il cartello "riserva fluviale Tagliamento" mi avvisa che il Tagliamento è anche mio e che se mi comporto bene con lui, lui si comporterà bene con me.
Be’, mi sembra sensato. Solo che adesso non so quale dei due sentieri prendere. Sono lì che sto per prendere la cartina quando da dietro la curva di una delle due stradine sbucano due ragazzi in sella a dei cavalli di una bellezza sconcertante, due bai che quando mi passano accanto mi fanno sentire piccola piccola come un verme delle pere. Mi faccio coraggio, e chiedo ai ragazzi come si arriva all’argine del fiume.

[lo vedi che era da un’altra parte che volevi andare?]

Mi dicono di seguire la strada da cui sono venuti loro, e mi ci ritroverò dopo poco. Saluto, ringrazio e loro mi augurano una buona pedalata. Buona pedalata? Ma non ero arrivata? Non ci dovevo cadere, dentro il fiume, dopo Rosa di San Vito? Uhm.
Poi giro la curva, e capisco. Buona pedalata, e certo… se neanche si vede dove finisce, la strada!

Vabbuo’, ma ormai sono arrivata fin qui… che faccio, torno indietro?

[… acqua, Tagliamento, fiumetagliamento, acqua, acqua, fiume, Tagliamento…]

Uhm. No. Se torno me ne pento, già lo so. Andiamo, va, quanto mai potrà mai essere lunga in fin dei conti?

Eh. Boh. Non lo so, quanto è lunga, ma pedalo per una buona mezz’ora e passo campi, campi e ancora campi, poi due cave di ghiaia e una pista di volo per aeromodelli prima di arrivare ad un incrocio con un sentiero che si infila dentro un muro di alberi. Poiché mi sono scocciata di andare dritto e mi sa che il fiume è vicino, giro a destra e chissenefrega. La curva è stretta, e per un attimo sotto gli alberi si fa buio… poi passo un ponticello con il fondo in ferro e la stradina finisce, alzo gli occhi ed ecco, sì, adesso sì che sono arrivata.

Ci sono, alla fine. Era qui, era qui.

[Che cosa, era qui?]

 Niente, niente, era qui che c’era il fiume, ed è qui che sto io, adesso. Tutto qui, tutto qui.
Tutto.
Qui.

Non c’è anima viva, e all’improvviso sono felice come una bimba, mi tolgo le scarpe, faccio qualche passo nell’acqua gelida, poi torno, passeggio sul greto, su un tratto di fango trovo le tracce di qualcuno che era forse allegro come lo sono io adesso e il dio-fiume, dice lui, fa dispetti a chi ne vìola il greto e mi sfila una scarpa lasciandomi per qualche secondo in bilico su un piede solo, mentre tento di non scivolare e recuperarla dalla poltiglia in cui si è arenata. Alla fine mi calmo, mi siedo vicino all’acqua e ci resto. Sono sulla sponda destra, e alla mia sinistra, in lontananza, si vedono passare treni su un ponte della ferrovia che attraversa il fiume e su, in alto si sente passare ogni tanto un elicottero. Sono i Mangusta del 49° di di Casarsa…

[Well at least this time you were right, and you had the good sense to give up, yeah, when others there might of hung in, so just nobody touch me. I know what I’m doing. (…) There’s another one flying tonight, and I hope it don’t make it… I know what we’re doing…]

… e allora quello lì è il Ponte della Delizia. Uh, ho recuperato un punto di riferimento. So dove sono, adesso. Se so dove sono ci posso anche restare, allora. Resto, mi dico, ecco, mo’ mi sto proprio qua.

[seeeee, vabbuo’…]

Be’, almeno per un poco, visto che sono arrivata fin qui. Ciao elicottero!

[Hello helicopter!]

Mi distendo, e offro la schiena al massacro delle pietre del greto in cambio dell’ospitalità. Poi ne prendo qualcuna da portare a casa, ce ne sono di molto belle… una la porto a lei e le chiedo se me la dipinge… queste le porto a lui che per primo mi ha parlato del Tagliamento… questa che sembra una piccola luna piena me la tengo. Però… sono un po’ stanca. Sono stanca, ecco, gli dico al fiume.

Hai pedalato troppo, forse.

Ma non fuori… dentro, dico.

E sarà l’inverno appena passato, allora.

Può essere.

Gli inverni sono sempre lunghi, e freddi, e qualche volta difficili. E voi siete un po’ così.

Già.

Senti, ma sei venuta fin qui solo per dire che sei stanca?

Be’… sì.

E allora?

No, è che devo prendere una decisione. Solo che non ci riesco, e mi sa che è proprio perché sono troppo stanca.

Ah, ho capito. Va be’, fatti un bagno, allora.

Eh?

Fatti un bagno. Lasciala qua.

La stanchezza, non la decisione.

Ah.

Eh. Però resta qua vicino, ché più in là l’acqua è troppo fredda e la corrente troppo forte.

… ma tu sei sicuro che è una buona idea?

Non c’ho la prova scritta, se è questo che vuoi sapere. Però fate così da millenni, voi.

Dici che quattro ore bastano per digerire una pasta e ceci?

Ti vuoi ritrovare a mare, di’ la verità…

Vabbuo’, ho capito.

Meno male.

Grazie.

Prego.

Oh, ma te l’hanno mai detto che sei antipatico?

E’ un complimento, vero?

Va be’, allora io…

Accomodati.

Grazie.

E prego. Poi però levati di torno. Parli troppo, tu. Proprio qua che non ce n’è bisogno.

[OSI, Hello helicopter!, 2003]

Machennesò (sogg. sott.: primavera)

lunedì, 5 Giugno 2006

La terza volta che la incontro non è che un attimo. Ed è una cosa che non ho mai visto prima in tutta la mia vita.
 Succede in un primo maggio inondato di un sole che finalmente scotta, scotta, e di nuovo a Sacile. Dove lo stesso sole sembra aver scottato e messo in fuga ogni forma di vita animale. Come intrusi, sudati e troppo vivi arriviamo in un paese che ha il respiro dilatato – se respira – del ritmo delle prime cicale della stagione, che però già sembrano stanche per come friniscono lente, lente, lente…
C’è un piccolo parco verde, in paese, incastrato in una curva della Livenza, che non avevamo mai visto prima. Ci finiamo per caso, pedalando piano e in silenzio, ché la nostra voce e il ticchettìo della catena sulle corone suonano improvvisamente come un fracasso, proprio così, come f e r e c e a e s e o troppo forti, fuori posto, quasi maleducati, nemmeno si stia correndo il rischio di svegliare qualcuno, qualcosa, ma che ne so.
Zitti zitti scivoliamo sulle strade, allora, prendendo vicoli a caso, finché non passiamo un ponte dopo il quale si apre un lago verde, di erbaacquasalici, tutto mischiato, tutto mischiato ché non si capisce dove finisca una cosa e inizi l’altra – e perché poi dovrebbero essere separate, in fin dei conti.
Poi, è un attimo. Faccio un passo verso la riva, dove lo spazio è trafitto da lance di luce che fendono le chiome dei salici, e vedo uno, due, poi dieci, poi una nebulosa di minuscoli batuffoli bianchi che danzano leggeri sull’acqua. Alzo lo sguardo – ché prima mi guardavo i piedi per non incappare in qualche punto fangoso – e tutta l’aria ne è piena, tutta, e qui davanti non scorre più un fiume di acqua verde, bensì di piccoli pollini che vengono giù fitti come neve, come grandine però leggera, come ovatta o che ne so, ma no, ma no, vengono giù come pollini e basta, come solo i pollini di decine e decine di salici che decidono di mettersi a piangere tutti insieme nello stesso momento possono venir giù e basta, e basta.
E cadono, poi, non è che sono così leggeri da restare sospesi per molto, sull’acqua e nell’aria si appoggiano e poi scivolano, e vanno verso il basso, bianchi ma neanche tanto, e ad ondate vanno, e calano, si posano, e fanno il fiume opaco, una striscia opaca in mezzo ad un verde che scintilla di sole in un trionfo di gravità.

E, di nuovo, quella sensazione. Che fa girare la testa, e che spaventa.

Non mi basterebbe tutto il tempo del mondo, mi ascolto dire ancora una volta ad alta voce. No, non mi basterebbe.

aspita, che monotona.

-continua-

Nonlosò (sogg. sott.: primavera)

martedì, 23 Maggio 2006

And we both know that no one’s going to win

when the walls come crashing in.

Tic. Tic-tic, tic. Tic-tic-tic.

 La seconda volta è lei a venirmi incontro, gentile, con piccoli gesti, brevi, lievi e traditori. Stiamo pedalando insieme, lui e io, verso Sacile, è domenica mattina, la Pontebbana è più che deserta, la testa mi si è riempita del fruscìo dell’aria che strofina le orecchie in corsa mentre sono tutta presa e tesa ad ascoltare ogni spasmo della corona anteriore, che è quella che ultimamente sempre più spesso singhiozza, sferraglia, chiede aiuto. Sono lì che gioco con i rapporti più lunghi, quando tic, tic, tic… tic… ma non è la catena che sfiora il carrello a ridosso della penultima marcia, come avevo frettolosamente pensato all’inizio. E cosa, allora? Sempre quello. ‘ccidenti.

 Verso Fontanafredda, sulla strada compare un cancello… grande, di ferro battuto, ai cui lati c’è niente più che un accenno di muro di cinta, in pietra. Sembra piovuto lì dal cielo, così, a fare la guardia all’enorme campo che si stende, si apre al di là della strada in tutte le direzioni visibili, verde e quieto, e la sola cosa a far pensare che abbia un passato sono la ruggine che lo ricopre e la stradina sterrata che inizia alle sue spalle, attraversa il campo e si interrompe dopo poco senza portare apparentemente da nessuna parte. ‘St’aria è così asciutta, mi dico, quando lo sguardo mi cade su una macchia bianca sul ciglio della strada, alla mia destra, che non faccio però in tempo a mettere a fuoco ("su, mo’ vai ad annaffiare le aiuole ché nonna ci aspetta a tavola…").

– "Ue’, che mormori?"
– "Mh?"
– "Stavi dicendo qualcosa"
– "No… cioè… no, va be’, non me ne sono accorta… ero sovrappensiero forse…"
– "A cosa pensavi?"
– "Non lo so… al nonno, credo…"
– "Come mai…?"
– "Non lo so".

Sorride, mentre continuiamo a pedalare. E’ bello, un sorriso in risposta a un non lo so: fa sentire un po’ scemi, penso, eppure profondamente rispettati. Dopo Fontanafredda le case si fanno più rade e la strada tutta incroci, semafori, canali. E qualche bar. Il sole scalda, il vento si lascia fendere.
Arriviamo a Sacile che è quasi mezzogiorno, e all’ingresso del paese si scorgono colori, gente, il bianco di qualche tendone da mercato. Non lo sapevamo, ma oggi c’è la Sagra dei Osei e le strade sono tutte un cinguettare, squittire, scintillare di bicchieri di vino che al sole lanciano riflessi pagliaviolaverdi su fettine di pane e formaggi e salumi… ci sono voci, di uomini e bambini, altre biciclette, braccia nude che godono delle prime giornate calde della stagione, e d’un tratto mi accorgo che i muscoli della faccia mi si sono disposti a comporre un sorriso senza passare a chiedere il permesso alla sede centrale. Lì dietro, al cervelletto, devono essersi ammutinati e aver preso una qualche iniziativa, perché non riesco a smettere. Tic. Tic.

[I’m the man in your closet, I’m the ghost beneath your bed

I’m buried in the thoughts that sting the back of your head…]

Una folata di vento che sa di terra grassa e aratura mi investe mentre, in un vicoletto del centro storico dove le rondini sfrecciano in un elegante avanti-e-‘n-drìo tra i loro nidi sotto i tetti e il fiume poco distante, sto scegliendo qualche libro usato su una bancarella ("i buchi devi farli tutti alla stessa distanza… se crescono troppo vicine poi se sturzéllano, s’abbòccano e poi cadono…"), e sulle sue ali arriva qualcosa che conosco, dolce, dolce…

[… and you’re gone… and everybody knows you’re gone…]

…così dolce che fa quasi male. Arriva, è un’onda, è l’onda, l’onda di tutte le stagioni che passano e sempre ritornano, arriva, è dolce e feroce e mi sorprende così, senza difese mentre mi rivedo, li rivedo, rivedo tutto e mi rendo conto che questo inverno lungo e difficile è passato, è passato, è finito, la luce è tornata anche se tutto è cambiato, tante cose sono andate e altre sono venute, fuori e dentro, e anche se non c’è odore di mare nell’aria non fa niente, questa primavera non è uguale a quelle che ho vissuto fino a ora eppure non importa, qualcosa c’è che pure arriva, a onde, a onde, c’è ‘st’odore di terra che è lo stesso di quando piantavamo il mais, e allora qui o là non fa differenza, le forme sono diverse ma i colori sono gli stessi, e tutto torna ugualmente, insieme a vocisuonieunacanzone…

[… nothing’s changed, it stays the same…]

… in sella a due bici che scivolano sulle strade sospinte dalla stessa corrente, che sostano per il pranzo accanto ad un tavolaccio di legno, sotto un campanile, all’ombra di un ombrellone bianco, mentre lui sorride, sorride, perché sa che sto ricordando e questa primavera mi sta aprendo come un fiore mentre la strada si allunga, non finisce e pure non resta mai la stessa, attraversa primavere e stagioni altre e non c’è niente altro da fare se non andare, ché ‘sta strada ci sono giorni che si fa acqua, e corrente, e non c’è motivo – perché non c’è quasi mai motivo – di resisterle, ma perché mai si dovrebbe poi? Non lo so.
E punto.
Punto.
Fermo.
Oh.

[… and you’ll stay gone when nothing else has changed….]

Non lo so. Prima era stato un sorriso, adesso è un punto che, dopo un altro nonlosò, mi risveglia da pensieri che non so più se sono visioni o parole o cos’altro. Mi ritrovo con un libro in mano, ingiallito di tempo e di abbandono, che compro senza nemmeno leggerne il titolo. Resterà qualcosa tra queste pagine macchiate e già lette da qualcun altro, forse? – forse, forse, penso, e già mi rivedo a guardarlo sul ripiano della libreria e a pensare: quello è il libro che avevo in mano quel giorno a Sacile quando all’improvviso – per via del vento pieno di odoricolorirondini – nell’abbraccio di una stagione diversa mi sono sentita, per una volta, a casa.

[Gone… and you’ll stay gone… while everything remains.]

[Gazpacho, Ghost, 2003]

continua

Anchesé

lunedì, 15 Maggio 2006

  E’ sulla strada di questa soferénsa prescritta dal sapiente biciclettaro con orecchio da musico a quest’ignaro ciclo strìaco da poco acquistato di seconda mano da una signora in dolce attesa che prevede di non farne più uso, che vado incontro alla primavera di quest’anno, che poi è la mia prima primavera friulana in assoluto. "Aprile non è un mese per tutte le stagioni", diceva del resto qualcuno, bisognerà pur prenderne atto in qualche modo. L’indicativo presente andrà bene, suppongo… purché sia a pedali, però. Su due ruote non sarebbe la stessa cosa. No… i pedali, ci vogliono.

  Il primo giorno che vado a sbatterle addosso con la leggiadrìa che è propria della mia allure da pompa di benzina è un giovedì della seconda metà di aprile. Caldo. Molto caldo. Decisamente troppo, per me che stamattina ho deciso cosa indossare per uscire senza di aver messo nemmeno un dito fuori dalla finestra: pantaloni lunghi (neri), t-shirt (arancione) sepolta sotto una pesante felpa (nera) con il cappuccio. E’ che fino a ieri, pioggia e vento. Oggi c’è il sole, ma l’aria sarà forse ancora fresca.
  Seee. Ma quando mai.
"Primo giorno di sole? Muori, deficiente d’una ciclista improvvisata, così impari, la prossima volta, ad imprecare quando ti mando giù l’acqua che ti serve per sopravvivere". Oh, ma ‘sto cielo stamattina si esprime con lo stesso sarcasmo di qualcuno che conosco. Ma comunque.
Parto, e mi avvio in direzione dell’IperStanda di Porcìa (quella del barattolo di Nutella di UnaBomber, per intenderci), nei pressi della quale il biciclettaro mi ha segnalato l’inizio di una pista ciclabile che arriva fino ad Aviano, passando per Roveredo in Piano e per lunghi tratti di aperta campagna. "No te trovi nissuni e te provi la bici per ben, che là no ghe xe casino". Agli ordini.
Per arrivarci, però, devo attraversare la città da sud a nord, e poiché preferisco evitare i tratti molto trafficati, decido di passare per la zona ovest, che conosco ancora poco, prendendo una strada che ho percorso altre volte, anche se in auto e in senso contrario. Per raggiungere e poi attraversare la Pontebbana, allora, passo la zona nei dintorni del lago Burida: sono le due e in giro non c’è anima viva, zanzare e moscerini a parte… e meno male, perché con questa temperatura ho preso in viso un colorito che fa pendant con l’arancione-evidenziatore della maglietta nascosta sotto la felpa e insomma, non è che sia propriamente un bel vedere. Del resto continuo a dirmi che fra poco uscirò dal centro abitato, e che nei campi il vento mi raffredderà un poco… 
"Seeeee", sento un vocina dire da qualche parte, non so se dentro o fuori, "ma quando mai. Devo ripertertelo? Guarda, quasi quasi mi imbarazzi". Umpf.
Passata l’IperStanda, però, qualcosa in effetti cambia. Non si alza un filo di vento – nun sia maje! – ma appena le ultime propaggini della zona industriale di Borgonuovo finiscono alle mie spalle è un mondo di aria, terra, sole e silenzio quello che mi si apre sotto gli occhi. E poi… quell’odore… umido… grasso… tiepido… tic, fa qualcosa nello stomaco. Tic, fa qualcosa, nella  gola. Tic, fa qualcosa dietro la nuca. Tic. Tic. Tic, tic, tic.
Scintille. E’ ‘st’odore che fa scintille sotto la pelle, troppo vicino alla valvola di sfogo delle riserve della Memoria del naso e delle dita. Mi fermo ai margini di un campo, prima di entrare a Roveredo, cercando di ignorare l’incombente pericolo. Mi raffreddo, tolgo la felpa, faccio un risvolto al pantalone fin sotto il ginocchio. Sembro una lavandaia, adesso, ma almeno il caldo mi opprime un po’ meno. Da qualche parte, lontano, si lamenta una tortora e un trattore ronza, al lavoro. Anche qui non passa, non si vede e non si sente anima viva. Mi sdraio sull’erba ad ascoltare, in quello che ho intorno, qualcosa che non ricordo più quand’è stata l’ultima volta che. E il sole brucia, sulla pelle delle braccia e delle ginocchia che vedono il sole per la prima volta in sei mesi, e ha un profumo che conosco anche se, anche se… anchese… anchesé…

Riparto, dopo un po’, quando la calotta cranica mi è diventata calda come un ferro da stiro, e mi fermo a Roveredo a chiedere un bicchier d’acqua in un bar, che poi mi fanno pagare. Ci resto male, torno in sella e penso di arrivare fino ad Aviano a guardare i decolli delle missioni pomeridiane, ma dalla cima del Col Grande si fanno strada veloci verso la pianura grossi nuvoloni che minacciano tempesta.
Poiché l’esperienza mi insegna che dai temporali di maestrale è meglio stare alla larga, potendo, decido di tornare verso casa… mentre in men che non si dica il vento si alza rabbioso e un muro grigio inghiotte il sole e riempie la campagna di un’aria pesante e carica di elettricità. Volo via verso casa che il temporale è appena arrivato ai piedi delle montagne… questa volta sono salva, anche se quell’odore non ha avuto il tempo di, anche se non sono riuscita a ricordare quando è stato che.
Le rondini mi portano via i pensieri ad ogni incertezza, ad ogni pausa, ad ogni punto di sospensione che mi lascio scappare. Non riesco (la bici ha detto che poi) più a finirne (quanto mi) nemmeno (già so’ dieci) uno (e vavatténne!).

Ma che… eppure non mi pare.
Ma allora è primavera, forse.
E’ aprile?
E’ aprile, sì. Anche se.
Tic, tic. Tic-tic-tic.
‘ccidenti.

– continua –

Eucatastrofe

venerdì, 25 Novembre 2005

NEVICA !