Some dance to remember, some dance to forget.
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Dall’altra parte del pozzo, dall’altra parte del mondo i nodi della vita erano stretti come dita che trovano la pelle di qualcuno a lungo cercato, a lungo desiderato fino a essere dimenticato. I nodi della vita erano – e sono ancora – trasparenti, limpidi come lo sguardo vuoto di chi guarda senza vedere e che, mentre tu sei lì che ci anneghi dentro, è rivolto verso di te ma non è te che vede, bensì solo un desiderio… magari antico, magari mai vinto. E ce n’erano altri ancora più stretti, stretti che non si potevano sopportare, come la voce che cantava con un grido la canzone che aveva scritto per te. Certi nodi, poi, erano e sono ancora stretti come quei momenti in cui la gioia colpisce con la violenza delle lacrime, pesanti e lontani come il tonfo delle àncore di ferro sul fondo di sabbia del recipiente del mondo.
Mentre fuori la borragine e le ginestre. Mentre dentro le distanze: Roma, Milano, Pordenone, Londra. A Napoli solo due ancora, ma entro l’anno via anche loro. E sbaglia chi va dicendo che chi resta si sente un fallito, e che quelli che se ne sono andati fanno ‘e masti… è da anni, ormai, che succede il contrario. Chi se ne va abbandona il campo con un boccone amaro di senso di ingiustizia e di vigliaccheria incastrato nella gola, mentre chi resta lo dice a testa alta: "io ci provo". Su questo non si dovrebbero raccontare palle, per lo meno.
E dopo, solo dopo pensare al dopo. Ritrovarsi per salutarsi, per sapere chi sarà il prossimo a partire, ridere per star bene e poi mettere il ricordo in valigia, bere e cantare di terre di confine, in otto ma con una voce sola, come sempre, e con nient’altro che una birra celebrare i morti e i vivi, le vite che sono state – perché lo sappiamo anche noi, che i morti vogliono solo continuare a dormire, chiunque essi siano – quelle che sono e quelle che stanno per essere. Gente di matrimoni e funerali, siamo, di abbracci carnali e di risate grasse. E dopo, senza pensare al dopo, condividere un buon sapore e il profumo della stagione che cambia a notte fonda, per strada, senza colpa né vergogna, gridarsi male parole e storie cretine per ridere, solo per ridere, senza che questo significhi null’altro che ridere, limpidi e semplici come se fossimo rimasti sempre in giro sulle stesse strade, come se non avessimo mai parlato altre lingue oltre quella in cui siamo nati, che pure ritroviamo intatta e nostra proprio quando la vita ci porta nel cuore di altre lingue-mondo sorelle.
E battere il tempo coi palmi delle mani su un tavolo di legno facendo saltellare i bicchieri, e portarlo anche per il gruppo che suona sul palco mentre l’umanità intorno storce il naso e si chiede cosa avranno tanto da sbattersi, quelli là, cos’abbiano da fare tanto chiasso e ridere fino a scomporsi la faccia e a sentirsi male.
Mentre fuori la borragine intimidisce e le ginestre si sguàiano – ma quante sono le voci del verbo fiorire? – abbracciarsi ancora una volta, e due, e dieci ancora, dire e sentirsi dire quantoseibbello, maiotivogliotroppobbene, strunzemme’, mabbella pruàsa ca nun si’ ato, e prendersi le mani, le guance, i nasi, e tirarsi zecchinètti sulle orecchie, schioccarsi baci e mùzzechi, perché così è, così è sempre stato e così sarà ancora, che siamo cinghiali in branco che per giocare si prendono a capàte, mangiano insieme patate e ciliegie, e per farlo potrebbero pure ammazzare. Perché solo questo significa: costruire, con il tempo e la pazienza, un ponte di parole senza lati oscuri… non parole a una sola dimensione, per carità, bensì con tutte le dimensioni a portata di sguardo, per lo meno, ché nulla resti al buio, non detto e non visto, in agguato e pronto a creare quei doppi vincoli che strozzano il linguaggio e la gioia di stare insieme fino a farli morire. Perché il cancro del non detto lo abbiamo già conosciuto, noi. Ora, guariti dagli anni e dalla tenacia delle parole-cose, siamo così, senza più colpa né vergogna, e così restiamo, senza prendere troppo sul serio nulla e senza chiedere altro se non ciò che siamo nel momento in cui siamo insieme: un infinito presente a voce alta, che di tanto in tanto si dà una stretta come un nodo e poi fiorisce – specialmente a primavera, mentre fuori la borragine e le ginestre.