Articoli marcati con tag ‘solipsismi’

B33

venerdì, 25 Giugno 2021

C’è vento dopo il temporale di stanotte, e pochi umani in sala d’aspetto. Una luce prepotente, un televisore acceso sui reflussi gastroesofagei morali del mondo di fuori, e intorno voci sommesse che parlano di sonno che non arriva, di mercato, di bambini. Si sente un qualche conduttore di programmi mattutini parlare di miracoli, di mano divina, di essere circondati di amore da lassù, mentre in sala, in egual misura, sopra le mascherine si vedono occhi che si inumidiscono o che roteano dopo un vistoso no della testa.

Ho sonno, ho bisogno di dormire anch’io, signora, stamattina devo fare questa flebo che l’altra volta mi ha allettata per tre giorni e spostato di una tacchetta la soglia di ciò che sembra importante, non so in quale direzione. Star bene. In piedi, in forze anche solo per lavare i piatti, per fare due passi in giardino… oro. Una scintilla quotidiana, adesso, si è accesa a illuminare ogni gesto, in contrasto col buio di quando manca.
Passerà anche questa, lo so, e non mi fa più tanta paura come prima, e pure nel frattempo temo, temo e faccio del mio meglio per arginare la preoccupazione. Avverto anche un grande senso di mancanz… o essere manchevole, forse, verso Lui che mi sta accanto e per il quale dovrei… non lo so cosa dovrei, ma mi sembra di essere sempre in difetto. E’ che questa malattia prolifera effettivamente in tutte le direzioni, si infila anche sotto le lenzuola, e le metastasi che ho nelle ossa me le ritrovo anche nello scheletro stesso della vita a due, a quattro, e fuori.
Un’altra forma di paura, dopo quella strettamente legata alla sopravvivenza: ce la farò a dare una vita quanto più possibile normale a chi condivide con me questo pezzo di strada?

Plot twist

venerdì, 4 Giugno 2021

Cosa farò di questo spazio?
Sono mesi che lo guardo vibrare il suo vuoto, con la vaghezza di un desiderio sempre nello stomaco: tornare, rientrare, ri-lanciare parole qui, dentro, sotto, ché ora il Segno ribolle nello spazio a margine delle attese, delle sale che abito mentre aspetto la prossima visita, il prossimo esame, il prossimo liquido di contrasto.
La malattia è entrata nella mia vita, sì. E’ cancro, carcinoma, metastasi, di tutto un po’. In verità, chissà da quanto tempo c’era e non lo sapevo, la contenevo nel silenzio, eppure. Diciamo che adesso è entrata anche nel linguaggio perché so che esiste, come tipicamente accade all’umana specie in luogo di qualsiasi passaggio di livello logico: non solo ho paura, ma so di provare paura, perché ho dato un nome al pericolo.

Diventerà un diario della malattia, questo spazio?
Tanto non c’è più nessuno qui, mi dico spesso. Mi sento quasi quasi al sicuro, in questo indirizzo che un giorno penso di lasciare ai bimbi per dire loro: mi troverete lì, se vorrete.
E’ anche che ho bisogno di un posto dove versare, insieme alle parole, il terrore e i tremori che mi inseguono ovunque, al di là della soglia del razionale, al di là del fatto che probabilmente c’è una via di guarigione da tutto questo, che sono in ottime mani, che gli esami sono buoni, che fisicamente sto anche bene e sto continuando la mia vita di sempre, anzi forse la sto anche migliorando.
Ne verrò fuori in qualche modo, dico sempre a tutti, è un po’ anche un training autogeno mentre sotto ribolle un magma che non sempre riesco a controllare… così ho scoperto che mi fa bene trovarmi un fiume, un lago, anche solo un canale dall’acqua vivace, sedermi e lasciar andare via nella corrente quello che non riesco a spiegare. I muscoli se ne vanno per fatti loro, a momenti non so più se sto singhiozzando o vomitando, ma immancabile arriva poi il momento in cui sento qualcosa che si spezza, e il fracasso di frantumi grossi mi sveglia d’improvviso e mi ritrovo la faccia gonfia, gli arti sfiniti e le spalle più leggere.

Elogio del tempo medio – che non è vero che non c’è più.

martedì, 18 Settembre 2012

 

 

La mezza stagione non è una sequenza di temperature, né di eventi atmosferici, né di medie stagionali. La mezza stagione è una luce, e niente più. E’ il peso di quel tempo arancione che trascina il sole più in basso, e sotto il quale le cose mutano prendendo sagome più oblique e mostrando il fianco, le pieghe, le punte e le rotondità prima appiattite dal bianco accecante dell’estate. Anche l’aria, nei polmoni, si fa più spessa, con gli odori che virano verso il sentore appena alcolico e caldo di una maturazione avvenuta, passata, che risveglia dietro la nuca una silente voglia di scorta, di credenza piena, di parole vecchie ma ancora intatte come una tovaglia della nonna. La prima torta di mele della stagione a venire, il profumo delle noci nell’impasto e il primo freddo al mattino, i caffè che si allungano, una bimba che ancora non parla ma canta, e ride passeggiando nelle foglie secche lungo il ciglio dei marciapiedi per la prima volta nella sua esistenza. La mezza stagione, sì: frusc-frusc, come dice lei. E un sole riflesso che, in qualche modo misterioso che sa lui, dice di più di quello fuori dalla finestra.

Sì.

martedì, 8 Maggio 2012

Wish I was old
and a little sentimental.

The more you like it, the more it hurts: why stop now?

*

Quanti anni ci ho messo a capire che in fondo non c’era niente di sbagliato? Un’adolescenza e mezza vita adulta, grosso modo. Questo è un altro dei tuoi innamoramenti, mi dicevi ogni volta, e sotto la pelle di queste parole la domanda: insomma, ma ti decidi a crescere?
No. La risposta era no, ma io conservavo una relazione troppo importante con te e troppo poco importante con me stessa per non mettere in dubbio la mia visione delle cose. Avrei forse dovuto accorgermi che stavamo già crescendo, allora, ma semplicemente in due direzioni diverse. Tu stavi facendoti la scorza, mentre io stavo abbandonando a piccoli pezzi quella che avevo tentato – senza alcun successo – di costruirmi fino a quel momento. Tu la strada andavi facendotela, io la mia la stavo prendendo. Sono due cose assai diverse. Io ho fatto una scelta morbida, alla fine, quella cioè di restare molle e flessibile e vaga e sognante, mentre tu ne facevi una per certi versi contraria, fatta di chiarezza, praticità e determinazione. Naturalmente, nel mondo e nel tempo in cui viviamo, al tuo tipo di deriva viene di norma assegnata un’etichetta più adulta, quindi da ammirare. E infatti ti ho sempre dato ascolto come a nessun altro, ho sofferto dei tuoi giudizi negativi anche quando me li comunicavi con i sorrisi che non mi hai mai risparmiato, e io ridevo di rimando anche se l’intestino mi strideva di quella strana vergogna che si sente da bambini quando mamma e papà ti sgridano davanti agli altri. La cosa buffa, in quei momenti, era che i genitori e gli altri coincidevano in un unico punto, cioè tu, per cui non c’era via d’uscita. Allora dubitavo. Sempre e solo di me. E non so per quanto ho lottato contro le cose che di me non ti piacevano: solo perché me lo dicevi tu, che non andava bene, allora doveva esserci qualcosa che non andava. Oggettivamente. Per forza. Lei capisce tutto, lei non si sbaglia.

Un’ironia enorme.

Perché era proprio allora che stavo iniziando a crescere, al contrario. Perché, al contrario, la risposta non era no.
Sì. Questa era la vera risposta.
Sì, io mi innamoro. Sì, le mie amicizie sono degli amori. E sì, mi innamoro anche di cose. E diciamo anche che le cose di cui mi innamoro sono le sole che riesco a portare a termine, o a portare avanti nel tempo. Sì, mi innamoro continuamente di cose e persone, anche perché quando non mi innamoro resto indifferente. Perché se non mi innamoro non provo alcun desiderio: di toccare, di ascoltare, di annusare, di abbracciare, di approfondire, di capire.

Quindi era vero, avevi visto giusto anche in questo caso. Quello che non ti è mai riuscito di vedere, però, era che i miei innamoramenti non erano semplici infatuazioni, ma amori veri e propri che sì, a volte facevano il loro corso e, finendo, mi spezzavano il cuore. Tu credevi che mi stessi rifiutando di crescere, quando invece stavo solo imparando il mio modo di essere. Ho detto di sì un po’ a tutto e a tutti, nella mia vita, è vero, e ogni volta mi sono messa in gioco. Ho amato, sempre, e molte volte ho perduto, nella tua ottica, ma per me è sempre stato il contrario. Ogni volta ne è valsa la pena, ogni santissima volta.

E poi: hai sempre creduto che mi innamorassi solo dei miei amici maschi.
Ecco, questa tua piccola malizia è stata sempre la cosa che forse mi ha punto più spesso, negli anni.
Perché non ti sei mai accorta che i nostri modi di essere sono in certi aspetti così diversi che solo la profondità di un sentimento senza nome avrebbe potuto tenerci insieme fino ad oggi. Se ancora oggi riesco a darti ascolto e a volerti bene, è solo perché di quei miei innamoramenti fai parte anche tu. E non potrebbe essere altrimenti.

E infatti sì, è vero. Mi innamoro, mi sono sempre innamorata, e non posso farne a meno. Non c’era niente di sbagliato, niente che andasse cambiato, nonostante gli errori, il dolore, la cecità e tutto il resto.

Sì, insomma. Mille volte sì.

*
Ma era tutto sbagliato, naturalmente. Il mezzo, il tempo, le parole stesse. Tutto c’entra sempre con tutto, e questa era solo la scintilla di una miccia ben più lunga, che finalmente ha trovato la via verso la deflagrazione. Benedetto sia l’errore, sempre ben detto.

Sessanta all’ora? Minuti. Giorni. Anni. Fa.

lunedì, 1 Agosto 2011

– … really.
– No, I don't.
– But yes, you do! You talk about it like it was, I don't know… a lost planet. You do really sound like the Doctor telling stories 'bout Gallifrey.

*

E niente, poi succedono due cose insignificanti. Tipo: questo spilungone con gli occhi blu e le orecchie decisamente fuori scala, che parla di sé in terza persona e nella sua lingua madre, che in sogno viene a farti quest'appunto… e che, a ottocentoepassa chilometri dal punto del pozzo-paese in cui ora vivi, un vecchio scooter color mulignana viene dato via per pochi soldi, per fare spazio in garage. Era lì a prendere polvere da anni, ormai. Da quando sei andata via qui non lo usava più nessuno. Lì per lì hai detto "avete fatto benissimo"… poi un paio di giorni dopo ti torna in mente e non riesci a smettere di pensarci per un po'.

Però, pensi ora, proprio quel mezzo, proprio quel motorino, in una fetta di mondo in cui la parola scooter era arrivata solo a macchia di leopardo e anzi, in un tempo di quell'angolo di mondo in cui la parola scooter non era ancora proprio arrivata. No, perché ecco, all'improvviso è tornato tutto, lentamente, come una marea, ma inarrestabile. Una madeleine gigantesca, che stava nascosta dentro una parola, e un'immagine: minchia, lo Zip! Che qualcuno chiamava 'a carcioffola. Le due ruote che sono state il tuo primo vero mezzo di locomozione in quel recesso del pozzo in cui la bici in strada no, proprio no, e che sono state la tua prima vera indipendenza e libertà. Dal '95 a… quando sarà stata l'ultima volta? Un anno fa? Due, non di più. Dal '95 a due anni fa… fanno quattordici anni. Quasi metà della tua esistenza. E così, tutto è tornato indietro: la scuola, i mille modi che vi inventavate per bloccargli entrambe le ruote con una sola catena – perché se ve lo rubavano non se ne poteva mica comprare un altro – e la proprietà condivisa con gli amici di sempre. Perché non era solo tuo, ma anche di tuo fratello, e di K., e di tutti gli amici di strada di quegli anni che se non passavi a prenderli tu non si usciva mica. E no. Era un bene comune. E poi le prime volte dal benzinaio, e il sentirsi un po' grandi nel dire "il pieno, grazie", che era cinquemila lire di super e ci si andava avanti tutta la settimana, e gli interminabili giri d'estate su quel sellino che era una tortura cinese andarci in due ma col casco ancora si poteva, e quindi via, senza volerlo nemmeno fare apposta, a scoprire quello che di bello vi era rimasto tra una cava e l'altra, su quelle colline che erano il mondo intero, a cercare le terrazze più belle a San Leucio, a Puccianiello o sulla panoramica per Casertavecchia, quei punti spettacolari da cui guardare la città fino a Napoli e fino al mare, chiedendosi con Maria che ne sarà di noi, e quella volta con Ketty fino su a Durazzano, da incoscienti, senza dire niente ai genitori, con addosso il brivido della fuga e dell'avventura anche se erano solo quindici chilometri, sfidando tutti i divieti e le proibizioni parentali solo per andarvene a prendere ombra e albicocche in un giardino antico e segreto. E poi i primi amori che volavano a sessanta all'ora come se avessero avuto le ali, e le litigate colla buonanima del portiere del parco della zia perché te lo lasciassero tenere dentro, e le corse al giardino del nonno per lasciarlo al sicuro e poi correre di volata alla stazione a prendere il treno per andare all'università, e i lunghi abbracci degli amici, perché il solo modo per viaggiare in due sul quel coso era diventare l'uno lo zainetto dell'altro, e i primi brividi che ti entravano fin dentro la schiena quando per caso potevi dare un passaggio al ragazzo che ti piaceva, con tutti i peli che ti si drizzavano sulla pelle, e le fughe sulla Collina, o ai Ponti della Valle, e i colori del tufo e gli odori delle stagioni, delle ginestre, delle cave e dell'origano… e poi anche lui, l'amore della vita, quando lo andavi a prendere alla Reggia e ve ne andavate in giro con lui ancora in divisa. Ma quanta, quanta vita c'era in quella profondità del pozzo-paese? E perché ora, improvvisamente, che un altro pezzetto di quella vita se ne va – solo un motorino – ti appaiono come racconti della vita di qualcun altro e insieme indiscutibilmente vicini, ancora incollati al nocciolo stesso di tutto quello che sei oggi? E dunque?

E niente. E' che oggi sono qui, in questo punto del pozzo-paese così lontano, diverso eppure un po' uguale a quello in cui sono nata e cresciuta. Sono qui, dopo tutti quegli anni trascorsi in sella a quel motorino sognando di andare via, e c'è questo strano senso. Di scollamento. E oggi c'è questo piccolo essere umano tutto nuovo, venuto da me e da quel ragazzo che allora viaggiava con me su quel sellino, e… cosa saprà, lei, di tutto questo? A quel mondo farà probabilmente visita solo di tanto in tanto, e i luoghi che saranno cari alla sua memoria di adulta come quelli lo sono per me apparterranno probabilmente a quest'altro lato della mia traversata del pozzo-paese. Ma come sarà? Lei non saprà di tufo e ginestre, né dei luoghi che ho vissuto e amato nonostante tutto, con forze e intestino, perché così è laggiù, si ama e si odia ogni cosa senza sconti, perché la terra, la madre da cui si nasce non si può scegliere, e non a tutti va di culo, e allora si vive tutto, tutto e senza mezzi termini. Questa piccola non saprà né vedrà granché dell'adolescenza dolorosa e straordinaria della sua mamma, e chissà se io saprò mai portarle testimonianza di quel mondo così vivo e vivido dentro di me, pieno di odori e musica buona, e voci e presenze che non ci sono più, pur vivendo ancora nei recessi più remoti del mio linguaggio.
Cosa sarà di tutto questo, nel futuro che verrà? E' davvero successo, tutto quello che è successo? Abbiamo davvero volato a sessanta all'ora nel tempo e nello spazio, sognando un altrove che ci stesse meno stretto, e poi siamo davvero andati via, uno dopo l'altro, mentre il mondo che abbiamo così intensamente vissuto cambiava, andava avanti lasciando frettolosamente il posto ad altro, e di ciò che ci apparteneva non è rimasto granché fuori, ma solo dentro, nelle gambe con le quali abbiamo aizàto in cuòllo? Sono davvero accaduti la scuola, gli amori, i libri, le morti, le voci e quel paesaggio, proprio quello? E se sì, come faremo a mostrare ai nostri figli il nostro mondo, che è anche il loro perché da quello siamo venuti noi e quelli prima di noi? Come lo racconterò, lontano com'è nel tempo e nello spazio, quel mondo rumoroso e colorato che in qualche modo vorrei farle conoscere, se non altro per dirle un domani ecco, esiste una cosa che si chiama scelta, e perché e percome. Ma cosa le racconterò? Questa è la scuola dove tua mamma ha studiato, questo è l'acquedotto dove ha trascorso intere estati ad ascoltare le cave brillare, le cave da cui è venuta la pietra che è servita per fare il cemento che ha fatto andare il mondo avanti, e dal pizzo di quel colle guardava allargarsi i buchi delle discariche, e arrivare i gabbiani, pensando che forse non era ancora il caso di andarsene, che bisognava prendersi il tempo di capire e provare a fare qualcosa, prima, e da lì la mamma e zia Maria e zia Emma discorrevano dell'amore, la vita e le vacche senza arrivare mai a una ceppa di niente, e lì facevano i calzoni buonissimi, e sotto quel portone la tua mamma ha dato il primo bacio, e lassù, all'altro estremo della cinta di colline, verso Capua, lassù, sulla cima dove c'è quel palo che arrugginisce, la tua mamma ha incontrato per la prima volta il suo futuro e solo allora ha capito che era arrivato il momento di togliere le tende, e poi lì è cresciuta con suo nonno, il tuo bisnonno, che era una persona spettacolare anche se parlava pochissimo, e se n'è andato troppo presto ma per fortuna ha fatto appena in tempo a insegnare alla mamma certe cose che non avrebbe potuto imparare da nessun altro al mondo.
E tutto questo non c'è più. Qualcosa, andando via, s'è rotto, s'è interrotto e non potrà mai più essere riparato.

Vuoi tornare –  a volte ti domandi nei momenti in cui questo strappo nella tela del tempo e dello spazio si fa più doloroso. Forse tornare ti aiuterebbe a sanare questa specie di ferita non condivisibile di non-condivisione che ti porti dietro, che ti porti dentro? E no. Perché il mondo è andato avanti prima di tutto per te, cancellando molti dei punti per te più importanti di quel paesaggio che era memoria, continuità e… casa. Tornando a casa non troveresti – come non la trovi già da tempo – quella che hai chiamato casa, né le presenze che l'hanno resa tale. Tutto di quel paesaggio è cambiato, e invecchiato, certo, ma ogni anno sembra che a invecchiare sia il volto di un estraneo, un estraneo sempre più straniato, straniante e stranito. Un estraneo diverso, ogni anno che passa, mentre le città crescono e il cemento continua a colare, a far andare il mondo avanti.

Alla fine mi è semplicemente dispiaciuto che sia andata via, 'a carcioffola, senza averle nemmeno potuto dire ciao. Fare un ultimo giro a sessanta all'ora sulle colline. Mi rendo conto solo ora che, dopo aver passato mezza esistenza a cercare di tagliarla fuori dalle foto di tutti i posti in cui mi ha portato, ora vorrei averne almeno un'immagine decente. E invece no: una delle uniche due che mi ritrovo è per sbaglio, in una delle tante stazioni impresenziate che mi ha aiutato a scovare. Come anche l'altra, capitata per caso con Emma accanto quella volta che eravamo salite a San Leucio per fare le foto per la ricerca scolastica. Insomma, qualcosa. Almeno per dirle grazie. Anche se, dopo tutto.
 

Per qualche strana ragione

sabato, 20 Novembre 2010

credevi che alcune cose della vita a te non sarebbero mai toccate;
non avresti mai pensato che un giorno avresti potuto sentire la mancanza di tua madre;
ti tocca passeggiare sui binari di questo Paese, contare chilometri e stazioni che c'erano o che presto non saranno più, e suscitare più di una perplessità negli altri per questo;
resti indietro con le parole e le cose da fare, fuori e dentro, ma ormai non sempre questo ti sembra sbagliato;
non potevi immaginare quanto sonno e sogni potessero diventare preziosi;
andare e tornare sono segni che non hanno mutato il loro senso, in questi anni, pur avendo acquistato dimensioni diverse a seconda del verso in cui vengono camminati;
senti la mancanza di persone che non hai mai visto, di tanto in tanto, proprio come quando eri bambina;
la pioggia, quando dura settimane, ti fa ancora sentire la mancanza del luogo in cui sei nata e cresciuta;
non riesci ancora a capacitarti della bellezza del luogo in cui abiti, e del modo in cui lo abiti;
ancora ti chiedi, spesso anche in un'altra lingua: perché no?

Ķalb al Άķrab

venerdì, 6 Agosto 2010

Eccola lì, la supergigante rossa più bella, l’amore di una vita. La doppia che non si risolve, immersa in un ambiente che si chiama associazione – corpi luminosi che intrattengono legami gravitazionali deboli ma indissolubili: c’è mai stato niente di più bello per esprimere l’amicizia degli strati più sottili di tutto quello dentro cui viviamo? Sembra niente, ma dove sei cresciuta non si vedeva. Il tuo cielo spaziava su due punti cardinali e mezzo, nord e est (un segno premonitore?), e mezzo ovest. Poi c’era il sud, e a sud c’era Napoli, che, si sa, non ammette rivali. Potevi vedere la Spalla del Gigante reggere il cielo invernale, ma non il cuore pulsante della bestia che lo aveva ucciso, il gigante, la rossa gemella agli antipodi del cielo e delle stagioni. L’hai cercata per anni in quel mare lattiginoso, giallastro e opaco d’inquinamento luminoso e adesso, dopo tanto tempo, una sera esci a sederti sotto il tuo primo cielo d’agosto da quando sei arrivata in questo angolo di mondo, una meteora la taglia in due e d’improvviso ti rendi conto che è lì, il Rivale di Marte, sopra l’attraversamento pedonale, fiero, indifferente persino ai lampioni che qui non riescono ad avere ragione di lui. Una linea di luce unisce due punti lontanissimi, nel tempo e nello spazio, e questa strana, obliqua, intensissima forma d’amore riprende il suo corso di sempre, aggrappandosi con una forza inaudita e inestinta al cerchio dell’eclittica. Ti sorprendi a sorridere quando punti un dito sul nero del cielo tracciando con gli occhi ancora una volta il suo corso, ché no, non hai dimenticato nessuna delle stazioni per le quali passa il binario d’oro sul quale viaggiano il Sole e il suo convoglio di fuoco. Quando hai sgranato tutto il rosario delle tredici stazioni, ecco, sei tornata alla Grande Bestia rossa dal cuore che batte senza nessuna regolarità. Sopra quel segnale, sopra quel segno. Sì, ecco: mo’ prendo lo scandaglio e ti attraverso, finalmente.

Mut’azioni

venerdì, 25 Giugno 2010

Pensa a tutti quelli che, quando gli vibra la pancia, non hanno le parole per dirlo.

*

Scavare musica e aria in cerca di parole, e sperare che non sia successo di nuovo. E se poi è successo? Allora tornare nel buco, prendersi la responsabilità e sparire. Sparire di pancia, di cuore e di polmoni, sparire con tutte le proprie frattaglie fuori, altrove, anche se poi sparire è solo un’illusione, finché si è vivi, anche dopo la metamorfosi continua, non c’è modo che sia altrimenti, poiché ciò che abbiamo comunicato con la nostra presenza a questo mondo prosegue il suo cammino, lontano da noi, che lo vogliamo o no. E muoversi col ritmo della polvere, con le parole che si posano una alla volta sulla vita finché non la avvolgono, finché non formano una patina sulle cose fino a farle vecchie. Dunque, sì, farsi parolapolvere e posarsi, ché quando lo strato s’è posato, ecco che si vede che quello di cui parlano è invecchiato, o forse solo semplicemente vissuto.

E riprendersi di tanto in tanto un pronome, quello più terrificante, e dire:

Ma allora cos’era, stanotte?

Ci sono di questi momenti, in cui l’anima – sveglia – vaga mentre il corpo, stanco, vorrebbe riposare. Ma non c’è verso, tutto viene trascinato via. Volevo parlare, ma di cosa? Del verso? Anche. Dell’esperienza della soglia. Dell’essere soglia, dell’attraversare la soglia, dell’essere attraversata in quanto soglia, e dell’essere un verso del senso perso, che in quanto verso gli è negata anche la direzione.

Cosa vuoi che io desideri, quindi?

Ti guardo entrarmi addosso, ma quello che desidero non entra, non c’entra. Io voglio essere discussa, ché discutibile lo sono sempre stata. Voglio procedere ed essere processata, voglio accedere e accadere, essere accaduta, accessa e accessibile senza divieti, voglio decedere e decadere, essere decaduta senza per forza dovermi rialzare, deceduta senza essere derestituita, al massimo potrei accettare di essere destituita, non essendo io né reggente né in carica, tutt’al più carica, sebbene senza peso, e sicuramente senza spesa. Se una parola si attacca ai muri di casa tua, e ci resta. Allora è vero che il senso c’era, anche se non aveva direzione, anche se era perso, in volo sopra il tessuto di luci della città che ci scorreva sotto mentre tutto quello che volevo dire non sapeva da che parte esplodere. Quella volta che ho preso il treno per Nettuno – Nettuno! –  e mi sono addormentata sul blu dei tuoi occhi che mi aspettavano da qualche parte nel cosmo… dov’ero, quella volta?

Dove vuoi che io torni, allora?

Ho camminato fino all’aria dei miei boschi perché questo era il momento: al confine con l’estate, con ancora il piumone sul letto, i capelli appena tagliati, i baccelli sulle ginestre gonfi e pelosi, pronti a esplodere nel vento, come me quella volta. Allora sono andata nel cuore del bosco a vedere l’albero morto da sempre, ancora coperto dai vermi che lo hanno svestito della corteccia. C’era la terra alla quale ho chiesto aprimi, ti prego, perché mi mostrasse le forme dei suoi sensi e dei suoi significati, perché mi ricoprisse di formiche e mi desse i colori del suo corpo sì da poterli portare via con me all’altro capo del pozzo che nessuno più ha desiderio di scendere o risalire, e mi ricoprisse infine di lumache, di ghiande e dei ricordi della vecchia che non c’è più e nel cui letto avrei dormito quella sera. Aprimi, ti prego, perché mi desse la forza, come le lucciole, di continuare a sfavillare anche nella pancia dei predatori quando sono ormai prese, prigioniere di una sacca gastrica che pure non riesce a spegnerle. E ancora aprimi, ti prego, perché mi nascondesse il cielo lasciandomelo immaginare, portandomi al sonno al ritmo lento e nervoso dello sfregare della penna sul foglio, che dipana le linee senza regolarità della soglia del sogno dentro il quale c’è quell’alba che ho visto infinite volte, ma solo con i polpastrelli, perché io le parole per dire quella vibrazione non le ho mai, mai, mai avute.

*

Perché io sono io, e perché non sei tu?
Perché sono qui, e perché non sono lì?
Quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?
La vita sotto il sole è forse solo un sogno?
Non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo
quello che vedo, sento e odoro?
C’è veramente il male e gente veramente cattiva?

Come può essere che io, che sono io,
non c’ero prima di diventare,
e che, una volta, io, che sono io,
non sarò più quello che sono
?

Linea 36

mercoledì, 7 Ottobre 2009

Che cosa accadeva? Non accadeva niente in realtà, tranne che il sole si preparava a sorgere.

*

Metto insieme lettere deserte dal deserto delle lettere, eppure di scriverti non mi è mai passata la voglia, anche dopo tutto questo tempo. Da dietro questi finestrini volevo dirti di quanto ancora mi piace fermarmi a prendere il cappuccino, al mattino presto, ovunque mi capiti di trovarmi. Come ieri a Gaiarine, dove mi sono detta: mi fermo al terzo che incontro, e così mi sono ritrovata in un bar tutto arancione, davanti ad una betoniera di schiuma fumante e due fette di pane di zucca col miele, mentre fuori il sole faceva fatica a diventare giallo risalendo a stento la foschia. Volevo dirti di come questa piccola Italia profonda continui a riempirmi di sorprese, e raccontarti di come ho cominciato a vedere solo adesso tutta un’armata di autobus, per esempio, ai quali prima non avevo mai fatto caso pur avendoli avuti sempre davanti agli occhi, ovunque qui in città. Sì, allora volevo parlarti proprio di questo, delle corriere e dell’esercito di presenze che le abitano, e di come questo popolo che ci vive e ci lavora sopra a volte sembri la proiezione su gomma della ferrovia che ho conosciuto nei luoghi da cui sono venuta: certo, qui si viaggia su – e in – tempi totalmente diversi, ma anche questa dimensione, per quanto parallela, è fatta di tutti gli accenti d’Italia, di sfoghi di pressione e minuti contati, curve, rettilinei e deuteroapprendimento. Mh. Stamattina poi uno dei piccoli, l’ultimo dal quale me lo sarei mai aspettato, mi ha colto di sorpresa correndomi incontro nel piazzale, abbracciandomi e urlando MI MANCHIII!, mentre l’autista artista – il primo, quello che non si scorda mai – salutava dall’alto del suo trono ammortizzato con un sorriso largo così. Pareva niente di che, quando ci stavo sopra, quel piccolo ma efficiente ingranaggio che avevamo messo in essere, e invece ecco che all’improvviso ne valeva la pena, che ne vale sempre la pena. E’ un deserto di tenerezza, quel piazzale, e parla una lingua tutta sua, desertica anch’essa, arida e morbida come il paesaggio dell’Erg. E c’erano stazioni… no, fermate, e orari, e un viaggio che si fa insieme, sul filo di una linea.

Quanto basta, dirai tu. Quanto basta per non averne abbastanza, almeno.

Delle forme del pudore: la goccia di vetro

giovedì, 17 Settembre 2009

Tu eri una goccia di vetro
ma io avevo mani da badile.
Non ci siamo mai salutati su quella collina
dove l’aria e il vento che avevi dentro
sono tornati nel blu
insieme a tutto il resto.