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Sott’acqua (lettera aperta dal Frammento Io a Chimistadifronte, comunemente detto Tu)

giovedì, 21 Settembre 2006

 Che succede? Le parole scorrono veloci, si fanno di nuovo rondini, non le afferro, o se le afferro le pesco dal fondo. Rondini come pesci. Voci con le squame e con le ali.

 E poi: ho vene come arbusti, macchie viola nelle giunture, graffi di rami di biancospino e di quel mandorlo dappertutto, le scarpe infangate da una passeggiata in un canneto assurdo che ho trovato dove non avrebbe dovuto stare. C’è aria di mare su in montagna, e sentore di camini accesi sul Golfo. Mi sposto insieme al vento (o almeno vorrei, la leggerezza è una qualità che non mi appartiene), sfioro persone suoni forme, guardo registro e taccio. ‘Sta tizia in cui abito è un disastro, ma insomma, non è che posso cambiare casa.

 E chi mi sta di fronte mi vede così per quello che sono, visto che non c’è bisogno per forza di raccontarsi per lasciarsi vedere. Raccontarsi serve a farsi intra-vedere, casomai. Allora mi porto appresso quest’aria di vuoto, o di pieno non so, di non-parola, di non-racconto, e di quest’aria scoppio in preda a pensieri troppo semplici perché possano uscire dal troppo largo imbuto della gola. Mi dispiace, qualche volta, di non avere tra le mani qualcosa che valga la pena per Chimistadifronte, perché Chimistadifronte talvolta crede che per passare del tempo insieme ci sia bisogno di. Ed è qui che il cielo si mette a vibrare – o traballare – qua sopra, che la volta stellata si tende come un arco e a me pare che a momenti una freccia grossa come il pino che sta a guardia del Teatro Grande di Pompei mi verrà scoccata dritta sulla testa. E’ per questo fatto che non capisco cosa significano tutti questi  bisogni fra me e te, a parte quello imposto dalla congiunzione, per l’appunto, per la quale io e te stiamo respirando e camminando, ognuno col suo ritmo eppure alla stessa andatura.

 Sono un catino, aperta come un recipiente, me lo dici ogni volta, un calderone di luoghi che spesso si sovrappongono al viso di Chimistadifronte componendo in trasparenza strane visioni di cui non so dire, e nemmeno scrivere. Al limite si potrebbe cantarle, se solo sapessi come fare. Tacerle, alla fine, mi sembra la cosa più sensata, sarà perché è quel che in fin dei conti mi riesce più facile. Non lo so. Non so del resto nemmeno perché mi ritrovi così spesso a pensare al silenzio che abbiamo, che hai, che ho sempre avuto. Si può avere il silenzio? Me la chiedo sempre, ‘sta cosa, vagando per questo paesaggio i cui colori – non ci posso fare niente – sono quelli delle Voci, delle Voci che stanno sempre nel mezzo, nello spazio angusto in altezza ma sterminato in larghezza delle congiunzioni. A gattoni deve camminare il linguaggio in questo paesaggio-paese, ecco perché, ecco perché.

Che tutto ‘sto giro è solo per dire: scusa.
Scusa per tutte quelle volte in cui il mio silenzio ti ha fatto credere che non ti stessi ascoltando, o che non avessi niente da dire. E’ che ho l’udito guasto, e la tua voce mi faceva eco dentro, e da quell’eco qualche volta facevo fatica a distogliere l’intera mia lingua – che senza chiedere il permesso si faceva orecchio, sicché parlare era assorbire la tua voce in pace, e niente di più.

Ma era sempre te che ascoltavo. Credimi. Ti ascoltavo così tanto che annegavo.

Che manc’a farlo apposta è una delle mie specialità, in fondo.

Sul fondo.

(annegare, non ascoltare)

Tu. Così lontana dietro quest’angolo da non riuscire a smettere di pensarti.

mercoledì, 20 Settembre 2006


Recent it seems
we must push on, we must push on.

Though we bleed
We must push on, we must push on.


[Dredg, Same Ol’ Road, 2002]

Fulmine

venerdì, 7 Luglio 2006

Ti ho visto, mentre il temporale faceva a pezzi l’alba a colpi di mazza.

Dicevi: adesso dobbiamo parlare di quello che non ti ho detto.

Poi, lo schianto che ha sfasciato il sogno.