Articoli marcati con tag ‘post-it’

(con)dens’azioni

sabato, 21 Luglio 2007

 Che poi ti distrai un attimo ed è estate veramente, ormai, e molte cose, anzi tutte le cose maturano nel calore. C’è il grano, poi il fieno, e l’afrore della pelle sotto il sole a picco. Se ti concentri, riesci persino a diventare densa, mentre guidi – te, la tua macchina e i due che sono con te – dentro una nube di polvere marrone, dentro la ferita aperta nella carne viva di una collina di tufo giallo. Ma è una cosa che non si vede e non fa niente, visto che la tua voce non sta mai al posto giusto al momento giusto. Però riesci a dire – quasi gridare – attraverso il parabrezza al mezzo che vi precede sulla salita, senza paura: ma dove cazzo stai andando, eh? Che quasi quasi vorresti farglieli pagare tutti a lui, i boschi di castagni malati che vi circondano. Hai indugiato per un momento e ti sei sporta dal finestrino a guardare meglio, a un certo punto, mentre i tuoi compagni non capivano cosa stavi fissando, perché pensavi (speravi!) di non averli visti, tutti quei cancri aperti su tutte quelle colonne che stanno lì a reggere il cielo e la terra al loro posto. E invece no. Ci sono, eccome. Tre anni al massimo, quindi, e poi… ma come cazzo ci è arrivato quel fungo fin qui, me lo spiegate, ché non ci deve stare qua, non ancora almeno, eh, come cazzo ci è arrivato, e dove cazzo stai andando, eh, tu, lì davanti, dove cazzo vai?

– Ma se mandano a fuoco qui… siamo in pieno bosco… l’incendio sarebbe tremendo…
Essaiquantosenefottono.

Dice così, tutt’unaparola. Un pugno di ventidue lettere.

Allarghi gli occhi, e lo vedi che ha ragione, e te lo dici: ma di che ti stupisci. Siete dentro una ferita infetta, e ti stupisci che dentro questa ferita ci sia nascosto un cancro? (un altro?)
Pensa, accidenti a te, pensa. Quante volte dovrai passare ancora per questo stupore? Madonna quante sono. Già tutte malate. Forse il fuoco… sarebbe meglio.

*

 Certi giorni va così. Ti guida la tua terra a questi pensieri veri, potenti, limpidi.
Limpidi. Čìstye. Čìstye, kak sleza. Limpidi come una lacrima. E se esiste una lingua in cui le cose limpide sono così… allora pur valgono la pena, questi pensieri, queste parole, queste lacrime, che uno li pianga, li dica, li pensi o meno. Mysli kak slëzy.

Ieri a piedi scalzi, pensi, oggi invece e chi ci mette piede lì, ma nemmenosemmipagano.
Allora le parole si fanno solide come chianètte dint’ ‘a panza, e sorridi con soddisfazione quando ti accorgi che la Voce che hai di fronte non sta cercando in alcun modo di tranquillizzarti. Senza esagerare, perché non c’è nessun bisogno di esagerare per capire. Almeno, non in questo senso. Quelli che cercano di tranquillizzarti, di tranquillizzare, anzi, ti fanno andare in bestia. Allora accogli la chianètta, che fa male e va bene. Così va bene.

*

 Attraversi questi tempi di ipertrofia delle parole che ti pigliano allo stomaco così, cercando a tua volta di non far male a nessuno. E chissà fino a quando ci riuscirai. Fin’ora ti è andata (quasi) bene, e intanto… inventi. Prendi a prestito parole di altre Voci, fai pasticci non irrimediabili, le lasci risuonare, ancora e ancora, cancelli, riscrivi continuamente, ti muovi profondo, spesso troppo e quando non ce n’è bisogno, e mai che ti riesca di capire quando è il momento di sorvolare. Sempre così. Scrivi a fiumi e poi te ne penti, poi ci ritorni, vai indietro, chiedi scusa, procedi di nuovo, se trovi un punto dove cammini bene vai anche spedita e poi inciampi, ti volti a guardarti le spalle e puntualmente vai a sbattere. E cazzo.
E gli dici, in capa a te: no, mo’ ora tu mi spieghi perché io ho sempre questo enorme bisogno di spiegare. E anche a lei: me lo spieghi anche tu? Spiegatemi a che serve spiegare. Sarà un fatto di ali, dice lui, ridendoti in faccia, in sogno. Eh. Ma vavatténne, va’.
 E’ che tu di fratture sei piena. Come tutti, sei una cosa intera con la capacità di guarire quando il caso ti lacera, con una tua coerenza interna. Ma perché hai tanto bisogno di dire questo? Perché pare che tu non riesca a fare altro? Che utilità ha per te, che utilità ha questo per loro che ti stanno intorno, a parte assistere ai tuoi tentativi d’esplorazione maldestra e in certi punti persino pericolosa? Che ti prende, che incontri nuove Voci e non la smetti più di blaterare? E che succede, soprattutto, con questi pronomi e altre cose inutili di cui non puoi in alcun modo smettere di parlare quando prima non spiccicavi una parola che fosse una, e niente veniva fuori, ma niente proprio? Perché prima non c’era niente, e adesso è un casino esagerato che certe volte non puoi distinguere le voci che stanno parlando? E perché viaggi sempre più di gran carriera su questo scivolo di pensieri indivisibili che ti si compone sotto le chiappe man mano che scivoli, sempre più veloce, verso una densità così densa da diventare a tratti quasi insostenibile? Perché succede che sempre più spesso ti sembra che tutto c’entri con tutto?

Pronomi, polmoni, tritoni, fanoni, bastioni, bastoni, portoni, coglioni, canzoni, cognomi, stagioni, azioni, sensazioni, suoni, baffoni, misurazioni, informazioni, segnalazioni, marroni, preposizioni, associazioni, congiunzioni, direzioni, scarcerazioni, liberazioni, rigenerazioni, complicazioni, malformazioni, opzioni, relazioni, palatalizzazioni, lezioni, sessioni, riunioni, questioni, prigioni, previsioni, peperoni… potresti andare avanti all’infinito, ormai, e divertirti pure. E’ estate, e insieme a tutte le cose anche le parole pendono mature nel frutteto delle Voci. Liquide come sempre, ma più dense e saporite di prima. Cosa è successo?

L’argine si è rotto, dentro, da qualche parte. L’hai già detto. Dici sempre le stesse cose.
Semplicemente: scorrono, adesso, il ristagno è finito. Fuori dall’argine, spesso e volentieri ora esagerano, esondano. E anche tu esageri, che ti ci butti dentro, nuda e intera e senza paura, a giocare e a lasciarti lavare, e infine portare via. Hai già detto anche questo.

La cosa più bella? Avere qualcuno da ringraziare, per questo, e avere il desiderio di farlo. E allora prendi, e ti metti in cammino di volta in volta verso le Voci che hanno liberato per te le acque di questo meraviglioso fiume polposo che non si vede e che più ci giochi – ancor più meravigliosamente – e meno hai idea di cosa fartene. E meno sai cosa fartene, più libero e potente scorre.

Grazie per essere venuta.
– Eh. Ma ci mancherebbe!
Eh?

E’ vero che non si capiva, perché ci mancherebbe, ma non importa. E’ vero che dici sempre cose che non c’azzeccano, e poi dopo tenti di spiegare. E’ vero che la tua voce non sta mai al posto giusto nel momento giusto. Vai per tentativi ed errori, procedi per aggiustamenti successivi, che si incastrano uno sull’altro, e poi. Provi a spiegare. Le parole, le ali, la tovaglia, qualcosa.

E dopo? Che farai?
– Mi piglio il brevetto.
Checcosa?
– Eh.
Ma sei pazza!
– Boh.
Come boh?
– E’ solo che è quello che voglio fare.
Sì, ma
– Ma?
Manon hai paura?
– Ma jamm’, ja’, paura di che?
Eh! Odio quando fai così… uno che ti deve dire?
– E che vuoi dire, nunn’aggio capito?
Niente.
– Ecco.
Eh. Ma poi me lo fai fare un giro?

Un giro. Allora ecco che spiegare… si deve. Qualcosa, in qualche modo. Anche senza parole, qualche volta. Speri solo, nella corrente, di non urtare nessuno… o, se urti, di non ferire. In questa densità, provar giochi di resistenza, di parole di carne di affetto. Non affettare, tagliare, lacerare, ma solo toccare. Toccarsi, raggiungersi. Almeno provare, intanto. In tanto. In tanta abbondanza. Con tanto contento. Perché tanto, sempre un recipiente resti.

(e ppesante, pure)

Cartolina

martedì, 17 Luglio 2007

Se non la smetti di fumare sostanze atte a stupire, comincerai a vedere cassonetti per la raccolta differenziata nel casertano.

Manuel Calavera

*

Agente di Viaggio
Manuel Calavera
DDM – Filiale n°974
Trieste, Italia

Caro signor Manuele,
come vede i pusher qui sono così bravi che non solo piazzano quelli nuovi di pacca dopo aver bruciato quelli vecchi, ma li fanno venire anche in foto! Stupefacente davvero, no?

Mi stia bene!

Saluti e baci dalla Strada dalla sua affezionatissima

L.

Del sogno del senso del dono. E due. Anzi, tre. Parole nove.

venerdì, 13 Luglio 2007

(Post-it diviso per tre, di-versi, tenaci e lontani, che anche se non si conoscono hanno in comune qualcosa che sta in questi versi.)


<< Dormono tutte le cause chiuse nei loro chiusi
e le teste mozze degli Archetipi a terra stanno >>.

Cusì ze sta dito in alto da quei che sa.
E noàltri cosa faremo?
Noàltri che no savémo lèzar né scrìvar
cosa diremo?
Balbetarémo nòve parole?
Chi ne darà i nòvi segni?
A B C D E…
come li metarémo insieme de no’vo?

No vegnarà nesùn a salvàrne de fòra via.
Ne tocarà a noàltri rangiàrse
rebaltàndose zo
rampegàndose su
de sto potzo dea vita.
Par vegnérghene fòra
da noàltri soli
par capir e capìrse.

<<In fiori della solitudine>>
quei che scrive i poeti
nesùn li agiutarà a sercàrli.

No in preti de le Ciéze
no in preti dei Studi
né quei del Governo
che oramài ze za a caza
ma in pòri cani
che se arabàta
noàltri li trovarémo.

E zveiarémo le Cause che dorme
par conto nostro e de tuti
e invidarémo le teste tagiàde
sui so còli driti
e ghe diremo a una a una
a una a una
PARLA.

[Ernesto Calzavara, da Come se,1974, traduzione dell’autore*]

[* << Dormono tutte le cause chiuse nei loro chiusi/ e le teste mozze degli Archetipi a terra stanno >>./ Così è stato detto in alto da quelli che sanno./ E noi cosa faremo? / Noi che non sappiamo leggere né scrivere/ cosa diremo?/ Balbetteremo parole nuove?/ Chi ci darà i nuovi segni? / A B C D E…/ come li metteremo di nuovo insieme?// Da fuori non verrà nessuno a salvarci./ Toccherà a noi arrangiarci/ capitombolando/ arrampicandoci/ per in muri lisci/ di questo pozzo della vita./ Per venircene fuori/ da soli/ per capire e capirci.// << In fiori della solitudine >>/ quelli che scrivono i poeti/ nessuno li aiuterà a cercarli.// Non in preti delle Chiese/ non in preti delle Università/ né quelli del Governo/ che ormai sono già a casa/ ma in poveri cani/ che si arrabattano/ noialtri li troveremo.// E sveglieremo le Cause che dormono/ per conto nostro e di tutti/ e avviteremo le teste tagliate/ sui loro colli diritti/ e gli diremo a una a una/ a una a una/ PARLA.]

Del sogno del senso del dono.

martedì, 10 Luglio 2007


Al disprincipio era il verbo.
Solo dopo è che venne il delirio del verbo.
Il delirio del verbo stava nell’inizio, là dove il
bambino dice: Io ascolto il colore degli uccellini.
Il bambino non sa che il verbo ascoltare non funziona
per il colore, ma per il suono.
Allora se il bambino cambia la funzione di un verbo,
delira. E dunque.
In poesia che è voce di poeta, che è la voce del fare
nascite –
Il verbo deve delirare.

*

No descomeço era o verbo.
Só depois é que veio o delírio do verbo.
O delírio do verbo estava no começo, lá onde a
criança diz: Eu escuto a cor dos passarinhos.
A criança não sabe que o verbo escutar não funciona
para cor, mas para som.
Então se a criança muda a função de um verbo, ele
delira. E pois.
Em poesia que é voz de poeta, que é a voz de fazer
nascimentos –
O verbo tem que pegar delírio.

[Manoel de Barros, O livro das ignorãças, 1993, nella traduzione di E. Sanches]

(grazie, Damen)

Manco mal che da Malo non ci si libera.

mercoledì, 27 Giugno 2007


Din don don – le campane del Masòn,
le sonava tanto forte – le butàva zò le porte.
Ma le porte xe de fero – volta la carta ghe xe un capélo.
Un capélo pien de piova – volta la carta ghe xe ‘na rosa.
Una rosa che sà da bòn – volta la carta ghe xe un limon.
Un limon bòn da magnare – volta la carta ghe xe el mare.
El mare e la marina – volta la carta ghe xe ‘na galina.
‘na galina che fà cocodé – volta la carta ghe xe un re.
Un re con due sergenti – volta la carta ghe xe du’ denti.
Du’ denti e masselaro – volta la carta che xe un peràro.
Un peràro che fa bei piri – volta la carta ghe xe i sbiri.
I sbiri che ciapa tuti – volta la carta xe i puti.
I puti che zuga la bala – volta la carta che xe ‘na cavala.
‘na cavala che trà de culo – volta la carta che xe un mulo.
Un mulo che trà de cao – volta la carta che xe un pào.
Un pao…

[ – Cossa xe un pao?
  – Un tacchino! ]

… un pao col bèco rosso – volta la carta ghe xe un pòsso.
Un pòsso pien de aqua – volta la carta ghe xe ‘na gata.
‘na gata che fa i gatèi – volta la carta ghe xe du’ putei.
Du’ putèi che fa ostaria – volta la carta, la xe finìa.

*

Meneghello: … che fa ostarìa lo capisci tu ti?
Paolini: sì. Ma la xe finìa.
Meneghello: La xe finìa, sì. Volta la carta… la xe finìa.

[da I ritratti – Luigi Meneghello, di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini, 2002]

(E’ un saluto, ecco. Condiviso, però.)

Λύσις (un effetto collaterale)

martedì, 26 Giugno 2007

Tu

Una parola basta e mi strappi dei gridi,
mi toccherai, uscirà pronto il sangue,
mi guarderai, sarò subito cieco.
Sei affanno, agguato, zuffa
appena che respiri.
Se mi arrocco in difesa
nell’inverno, negli anni,
al petto conto i colpi di un passero impazzito
che sbatte ai vetri per uscire incontro.

[Erri De Luca, da Opera sull’acqua e altre poesie, 2002]

*

Ti vedi e ti rivedi in una foto che qualcuno ti ha scattato quando non sapevi, non guardavi, facevi altro. Nemmeno riesci a capire perché la guardi con tanta meraviglia. Sei tu, quella? Ma davvero?
L’occhio dell’altro così ti vede, così ci vede, immersi in qualcosa, un’azione che ci occupa tutti interi, con in testa un pensiero che non si vede, fatto di parolesuonicoseodori? Vedi lì l’intero che sei e pensi boh, ma come si può stare così, nudi e interi, sotto il cielo, a fare quello che ci piace? Come si fa? Si fa che succede, ecco, e così non è che ci si possa fare qualcosa. E tu, sempre così presa dalla preoccupazione di quello che si può dire e quello che non si può (massipuò?) vedi solo ora quanto è facile essere scoperti senza scoprirsi, e darsi, e dirsi, alla faccia delle fratture che ci separano da quello che dovrebbe essere l’esterno, e invece è solo uno sguardo che ci sfiora e ci fa entrare e si lascia abitare e ci accoglie, e ci coglie così, nudi interi intenti, e non ci farà del male, perché diciamolo pure: di te, di noi, in fondo chissenefrega? Ma non è solo questo. E’ quello sguardo spoglio di giudizio, che sorprende e invade, è quel mostrare e basta, ‘sto movimento circolare che è scambio di sguardi – "guarda, ti vedo" – condivisione – con-di-visione, con-divisione –  che ti accarezza con un gesto generoso degli occhi, mostrandoti il frammento Chimistadifronte e d(on)andoti la sensazione che non ci sia nulla da temere. Nulla da temere. Guarda, ti dice, nun te mettere appaùra, tanto quello che vedo è nient’altro che questo. E tu, che eri venuta su con la convinzione che a stare negli occhi degli altri c’era sempre qualcosa di cui aver paura, mo’ resti così, senza parole, perché in effetti, ecco, vedi che veramente non c’è niente… da temere… e forse non c’è mai stato. Mai. Sei davvero tu, quella? Sei davvero quello, tu? Sì. E sì. Ma così è come ti vedi tu. Così è come anche tu ti vedi. Senza aggettivi. Così, in quel gesto di ostensione pura che si riserva a chi fa parte della nostra stessa carne. Così, e basta. E allora… la frattura? Dov’è ‘sta benedetta frattura tra te e Chimistadifronte? E quella tra te e quella che parla in Io? Dov’è? Più che altro: c’è?
Se questo è quello che vede Chimistadifronte, no. Se così ti vede… ma quale frattura. Se così ti si vede, allora sei solo carne nuda sotto il cielo, veramente a nervi scoperti, senza chissà quale strappo tra te e Io, in niente diversa da te (ma chi?). E così succede che a guardarti in una foto ti liberi di un timore, il timore di lui e dei suoi occhi che vedono ogni cosa, ché sarebbe bello che i suoi occhi fossero un po’ quelli di tutti gli altri da te, perché di quegli altri sei stanca di avere paura, e come adesso non hai più paura dei suoi occhi vorresti non aver più paura di nessun altro paio d’occhi. Ma sai che non si può. Eppure.
Eppure la sorpresa resta. Perché lui, che il mondo lo percepisce per associazioni di colori e sensazioni, proprio lui ti libera da una paura antica, e ti fa sorridere. La cosa singolare è che lui è uno che quasi non parla, si direbbe. Senza usare la voce, ti mostra che non c’è niente da temere. E’ una gioia saperlo così lontano da ciò che hai conosciuto fino ad ora. E’ bizzarro che da un mondo così diverso possa venire un gesto che libera dalla paura, che ti mostra che là dove qualcuno ha detto frattura è vero, in effetti c’è una lacerazione, uno scarto… una soglia. Eh, forse. Una lesione, ecco. Che se pure apre una distanza tra l’intero che sei e quel pronome dentro cui non solo il tuo ma anche nessun altro intero ci passa, pure resta uno spazio, in fin dei conti, una… una… apertura. Mh. Che non solo separa, ma è anche il varco attraverso cui il fuori può versarsi nel dentro, e il dentro può penetrare il fuori, e qualcosa d’altro – una folla di immagini, un sogno, qualche segno, forse una storia? – può magari anche abitarlo, ‘sto spazio. Perché lo spazio si può abitare, la distanza no. E questo spazio che doveva essere frattura è invece il passaggio l’atto, il punto di congiunzione (la casa delle congiunzioni?) in cui tali e tanti echi si incontrano… e risuonano… e invece di spegnersi, prepotenti, fanno: mo’ mi sto qua, ché si sta larghi e c’è aria, e acqua, e terra. Non che qui qualcuno cerchi di mandarli via, s’intende.

(Allo’? E’ grave, dottore’?)

La cura contrivisa (prima dose)

lunedì, 25 Giugno 2007

San cugnî

1.
S’è soi brut e ciatîf
ch’ me doi apena al bundì
no me sopuarte
ch’e no me doi mai razon
me soi antipaticu
ch’e goze massa
me insordìs
che pa’ no cjatâme
e scjampe
che

‘e cun
tignîme

2.
Ài da stâ dentre al tiô vuoe par jôdeme

3.
A quindes an ‘e vêve i dincj rotz
Adés ài i dincj rotz
A quindes a ére mal vest
ît
Adés ‘e soi mal vest
ît
Culturalmente sempre chiel

[Federico Tavan, da Da màrches a madònes, 1994]

(vado bene, dottore’? Come me li trova oggi i timpani?)

[Necessità 1. Se sono brutto e cattivo / che mi dò a malapena il buongiorno / non mi sopporto / che non mi dò mai ragione / che mi sono antipatico / che grido troppo / mi rompo i timpani / che per non trovarmi / scappo / che / io / devo / tenermi // 2. Devo stare dentro ai tuoi occhi per vedermi // 3. A quindici anni avevo i denti rovinati / Adesso ho i denti rovinati / A quindici anni ero vestito male / Adesso sono vestito male / Culturalmente sempre lo stesso]

Tossico? Eh, tossico, tossico.

sabato, 2 Giugno 2007

In biologia non esistono ‘valori’ monotòni.

Un valore monotòno è un valore che cresce o decresce sempre. La sua curva non serpeggia, cioè non passa mai da un aumento a una diminuzione o viceversa. Sostanze, cose, strutture o successioni di esperienze desiderate che sono in un certo senso ‘buone’ per l’organismo – regimi alimentari, condizioni di vita, temperatura, divertimenti, sesso e così via – non sono mai tali che una quantità maggiore di esse sia sempre meglio che una quantità minore. Al contrario, per tutti gli oggetti e le esperienze esiste sempre una quantità con valore ottimale; al di sopra di essa la variabile diventa tossica, scendere al di sotto di quel valore significa subire una privazione.
 
 Questa caratteristica dei valori biologici non si riscontra nel denaro. Il denaro ha sempre un valore transitivo: più denaro è presumibilmente sempre meglio che meno denaro; per esempio mille e un dollaro sono preferibili a mille dollari. Per i valori biologici le cose non stanno così: più calcio non è sempre meglio che meno calcio. Vi è una quantità ottimale di calcio di cui un dato organismo può aver bisogno nella sua dieta: al di sopra di essa il calcio diventa tossico. Analogamente, per l’ossigeno che respiriamo, per i cibi o per le componenti di una dieta e probabilmente per tutti gli elementi presenti in una relazione, il troppo è nemico del bene. Si può anche soffrire per troppa psicoterapia. Una relazione senza conflitti è noiosa, una relazione con troppi conflitti è tossica: ciò che è desiderabile è una relazione con una quantità ottimale di conflitti. Perfino il denaro, considerato non in sé, ma nei suoi effetti su chi lo possiede, può forse, oltre un certo limite, risultare tossico.

In ogni caso, la filosofia del denaro, l’insieme dei presupposti secondo cui quanto più denaro si ha tanto meglio è, è del tutto antibiologica. Nondimeno, pare che questa filosofia possa essere insegnata a cose viventi.


[Gregory Bateson, Mind and Nature, a necessary Unity, 1979.
Traduzione italiana di Giuseppe Longo]

Manc’a dire che non ci avevano avvisati.

Delle vie infinite dei pronomi

giovedì, 31 Maggio 2007

[Un appunto per la siòra. Ma anche in generale, boh]

 Sta in un altro posto. Perché era lì che stavi buttando giù un commento su sua richiesta – du’ parole e qualche link su una questione che ti sta molto, molto a cuore, dovevano essere – quando a un certo punto da qualche parte qualcosa si è rotto, un argine forse, e ti sei ritrovata in piena esondazione.

 E’ un pronome, una voce che non conosci, quella. Dovrebbe essere la tua e invece è la prima volta che la senti. Ti leggi, e non ti sembri tu. Io. Insomma, quello. Soprattutto perché in realtà si tratta di cose viste, lette, ascoltate, assorbite altrove, in altri luoghi, da voci altre che ti si sono sedimentate addosso nel tempo. E tuttavia ci sei, lì dentro, non puoi negarlo in alcun modo, e quasi più in carne e ossa e gesti che qui. Che impressione.

 Ti torna in mente quella volta in cui s’era detto che gli amici che fanno da cavatappi sono una benedizione, quando il sughero incastrato nel collo di bottiglia siamo noi. Ecco. Così.

(grazie, Lu’)

21 : Shih Ho (una decisione)

martedì, 22 Maggio 2007

(…)

I had this recurring dream:
I was living another life
in another country
in another time.

As I got older the dream began to fade away,
until one day…
… there she was, tapping me on my shoulder.

She says she’s got so much to say
But she’s not telling it today.
She said "Come back when you’re alone"
but I’m not sure I want to know
‘cause maybe her road
is a one-way street.
Maybe her road…

… I’m scared of everything I am.

I’m scared of opening the can.

I’m scared of losing who I am,

think I might’ve taken all I can.

I let the genie out of the box.

[S. Hogarth, Genie, 2004]