Articoli marcati con tag ‘post a pedali’

Nonlosò (sogg. sott.: primavera)

martedì, 23 Maggio 2006

And we both know that no one’s going to win

when the walls come crashing in.

Tic. Tic-tic, tic. Tic-tic-tic.

 La seconda volta è lei a venirmi incontro, gentile, con piccoli gesti, brevi, lievi e traditori. Stiamo pedalando insieme, lui e io, verso Sacile, è domenica mattina, la Pontebbana è più che deserta, la testa mi si è riempita del fruscìo dell’aria che strofina le orecchie in corsa mentre sono tutta presa e tesa ad ascoltare ogni spasmo della corona anteriore, che è quella che ultimamente sempre più spesso singhiozza, sferraglia, chiede aiuto. Sono lì che gioco con i rapporti più lunghi, quando tic, tic, tic… tic… ma non è la catena che sfiora il carrello a ridosso della penultima marcia, come avevo frettolosamente pensato all’inizio. E cosa, allora? Sempre quello. ‘ccidenti.

 Verso Fontanafredda, sulla strada compare un cancello… grande, di ferro battuto, ai cui lati c’è niente più che un accenno di muro di cinta, in pietra. Sembra piovuto lì dal cielo, così, a fare la guardia all’enorme campo che si stende, si apre al di là della strada in tutte le direzioni visibili, verde e quieto, e la sola cosa a far pensare che abbia un passato sono la ruggine che lo ricopre e la stradina sterrata che inizia alle sue spalle, attraversa il campo e si interrompe dopo poco senza portare apparentemente da nessuna parte. ‘St’aria è così asciutta, mi dico, quando lo sguardo mi cade su una macchia bianca sul ciglio della strada, alla mia destra, che non faccio però in tempo a mettere a fuoco ("su, mo’ vai ad annaffiare le aiuole ché nonna ci aspetta a tavola…").

– "Ue’, che mormori?"
– "Mh?"
– "Stavi dicendo qualcosa"
– "No… cioè… no, va be’, non me ne sono accorta… ero sovrappensiero forse…"
– "A cosa pensavi?"
– "Non lo so… al nonno, credo…"
– "Come mai…?"
– "Non lo so".

Sorride, mentre continuiamo a pedalare. E’ bello, un sorriso in risposta a un non lo so: fa sentire un po’ scemi, penso, eppure profondamente rispettati. Dopo Fontanafredda le case si fanno più rade e la strada tutta incroci, semafori, canali. E qualche bar. Il sole scalda, il vento si lascia fendere.
Arriviamo a Sacile che è quasi mezzogiorno, e all’ingresso del paese si scorgono colori, gente, il bianco di qualche tendone da mercato. Non lo sapevamo, ma oggi c’è la Sagra dei Osei e le strade sono tutte un cinguettare, squittire, scintillare di bicchieri di vino che al sole lanciano riflessi pagliaviolaverdi su fettine di pane e formaggi e salumi… ci sono voci, di uomini e bambini, altre biciclette, braccia nude che godono delle prime giornate calde della stagione, e d’un tratto mi accorgo che i muscoli della faccia mi si sono disposti a comporre un sorriso senza passare a chiedere il permesso alla sede centrale. Lì dietro, al cervelletto, devono essersi ammutinati e aver preso una qualche iniziativa, perché non riesco a smettere. Tic. Tic.

[I’m the man in your closet, I’m the ghost beneath your bed

I’m buried in the thoughts that sting the back of your head…]

Una folata di vento che sa di terra grassa e aratura mi investe mentre, in un vicoletto del centro storico dove le rondini sfrecciano in un elegante avanti-e-‘n-drìo tra i loro nidi sotto i tetti e il fiume poco distante, sto scegliendo qualche libro usato su una bancarella ("i buchi devi farli tutti alla stessa distanza… se crescono troppo vicine poi se sturzéllano, s’abbòccano e poi cadono…"), e sulle sue ali arriva qualcosa che conosco, dolce, dolce…

[… and you’re gone… and everybody knows you’re gone…]

…così dolce che fa quasi male. Arriva, è un’onda, è l’onda, l’onda di tutte le stagioni che passano e sempre ritornano, arriva, è dolce e feroce e mi sorprende così, senza difese mentre mi rivedo, li rivedo, rivedo tutto e mi rendo conto che questo inverno lungo e difficile è passato, è passato, è finito, la luce è tornata anche se tutto è cambiato, tante cose sono andate e altre sono venute, fuori e dentro, e anche se non c’è odore di mare nell’aria non fa niente, questa primavera non è uguale a quelle che ho vissuto fino a ora eppure non importa, qualcosa c’è che pure arriva, a onde, a onde, c’è ‘st’odore di terra che è lo stesso di quando piantavamo il mais, e allora qui o là non fa differenza, le forme sono diverse ma i colori sono gli stessi, e tutto torna ugualmente, insieme a vocisuonieunacanzone…

[… nothing’s changed, it stays the same…]

… in sella a due bici che scivolano sulle strade sospinte dalla stessa corrente, che sostano per il pranzo accanto ad un tavolaccio di legno, sotto un campanile, all’ombra di un ombrellone bianco, mentre lui sorride, sorride, perché sa che sto ricordando e questa primavera mi sta aprendo come un fiore mentre la strada si allunga, non finisce e pure non resta mai la stessa, attraversa primavere e stagioni altre e non c’è niente altro da fare se non andare, ché ‘sta strada ci sono giorni che si fa acqua, e corrente, e non c’è motivo – perché non c’è quasi mai motivo – di resisterle, ma perché mai si dovrebbe poi? Non lo so.
E punto.
Punto.
Fermo.
Oh.

[… and you’ll stay gone when nothing else has changed….]

Non lo so. Prima era stato un sorriso, adesso è un punto che, dopo un altro nonlosò, mi risveglia da pensieri che non so più se sono visioni o parole o cos’altro. Mi ritrovo con un libro in mano, ingiallito di tempo e di abbandono, che compro senza nemmeno leggerne il titolo. Resterà qualcosa tra queste pagine macchiate e già lette da qualcun altro, forse? – forse, forse, penso, e già mi rivedo a guardarlo sul ripiano della libreria e a pensare: quello è il libro che avevo in mano quel giorno a Sacile quando all’improvviso – per via del vento pieno di odoricolorirondini – nell’abbraccio di una stagione diversa mi sono sentita, per una volta, a casa.

[Gone… and you’ll stay gone… while everything remains.]

[Gazpacho, Ghost, 2003]

continua

Anchesé

lunedì, 15 Maggio 2006

  E’ sulla strada di questa soferénsa prescritta dal sapiente biciclettaro con orecchio da musico a quest’ignaro ciclo strìaco da poco acquistato di seconda mano da una signora in dolce attesa che prevede di non farne più uso, che vado incontro alla primavera di quest’anno, che poi è la mia prima primavera friulana in assoluto. "Aprile non è un mese per tutte le stagioni", diceva del resto qualcuno, bisognerà pur prenderne atto in qualche modo. L’indicativo presente andrà bene, suppongo… purché sia a pedali, però. Su due ruote non sarebbe la stessa cosa. No… i pedali, ci vogliono.

  Il primo giorno che vado a sbatterle addosso con la leggiadrìa che è propria della mia allure da pompa di benzina è un giovedì della seconda metà di aprile. Caldo. Molto caldo. Decisamente troppo, per me che stamattina ho deciso cosa indossare per uscire senza di aver messo nemmeno un dito fuori dalla finestra: pantaloni lunghi (neri), t-shirt (arancione) sepolta sotto una pesante felpa (nera) con il cappuccio. E’ che fino a ieri, pioggia e vento. Oggi c’è il sole, ma l’aria sarà forse ancora fresca.
  Seee. Ma quando mai.
"Primo giorno di sole? Muori, deficiente d’una ciclista improvvisata, così impari, la prossima volta, ad imprecare quando ti mando giù l’acqua che ti serve per sopravvivere". Oh, ma ‘sto cielo stamattina si esprime con lo stesso sarcasmo di qualcuno che conosco. Ma comunque.
Parto, e mi avvio in direzione dell’IperStanda di Porcìa (quella del barattolo di Nutella di UnaBomber, per intenderci), nei pressi della quale il biciclettaro mi ha segnalato l’inizio di una pista ciclabile che arriva fino ad Aviano, passando per Roveredo in Piano e per lunghi tratti di aperta campagna. "No te trovi nissuni e te provi la bici per ben, che là no ghe xe casino". Agli ordini.
Per arrivarci, però, devo attraversare la città da sud a nord, e poiché preferisco evitare i tratti molto trafficati, decido di passare per la zona ovest, che conosco ancora poco, prendendo una strada che ho percorso altre volte, anche se in auto e in senso contrario. Per raggiungere e poi attraversare la Pontebbana, allora, passo la zona nei dintorni del lago Burida: sono le due e in giro non c’è anima viva, zanzare e moscerini a parte… e meno male, perché con questa temperatura ho preso in viso un colorito che fa pendant con l’arancione-evidenziatore della maglietta nascosta sotto la felpa e insomma, non è che sia propriamente un bel vedere. Del resto continuo a dirmi che fra poco uscirò dal centro abitato, e che nei campi il vento mi raffredderà un poco… 
"Seeeee", sento un vocina dire da qualche parte, non so se dentro o fuori, "ma quando mai. Devo ripertertelo? Guarda, quasi quasi mi imbarazzi". Umpf.
Passata l’IperStanda, però, qualcosa in effetti cambia. Non si alza un filo di vento – nun sia maje! – ma appena le ultime propaggini della zona industriale di Borgonuovo finiscono alle mie spalle è un mondo di aria, terra, sole e silenzio quello che mi si apre sotto gli occhi. E poi… quell’odore… umido… grasso… tiepido… tic, fa qualcosa nello stomaco. Tic, fa qualcosa, nella  gola. Tic, fa qualcosa dietro la nuca. Tic. Tic. Tic, tic, tic.
Scintille. E’ ‘st’odore che fa scintille sotto la pelle, troppo vicino alla valvola di sfogo delle riserve della Memoria del naso e delle dita. Mi fermo ai margini di un campo, prima di entrare a Roveredo, cercando di ignorare l’incombente pericolo. Mi raffreddo, tolgo la felpa, faccio un risvolto al pantalone fin sotto il ginocchio. Sembro una lavandaia, adesso, ma almeno il caldo mi opprime un po’ meno. Da qualche parte, lontano, si lamenta una tortora e un trattore ronza, al lavoro. Anche qui non passa, non si vede e non si sente anima viva. Mi sdraio sull’erba ad ascoltare, in quello che ho intorno, qualcosa che non ricordo più quand’è stata l’ultima volta che. E il sole brucia, sulla pelle delle braccia e delle ginocchia che vedono il sole per la prima volta in sei mesi, e ha un profumo che conosco anche se, anche se… anchese… anchesé…

Riparto, dopo un po’, quando la calotta cranica mi è diventata calda come un ferro da stiro, e mi fermo a Roveredo a chiedere un bicchier d’acqua in un bar, che poi mi fanno pagare. Ci resto male, torno in sella e penso di arrivare fino ad Aviano a guardare i decolli delle missioni pomeridiane, ma dalla cima del Col Grande si fanno strada veloci verso la pianura grossi nuvoloni che minacciano tempesta.
Poiché l’esperienza mi insegna che dai temporali di maestrale è meglio stare alla larga, potendo, decido di tornare verso casa… mentre in men che non si dica il vento si alza rabbioso e un muro grigio inghiotte il sole e riempie la campagna di un’aria pesante e carica di elettricità. Volo via verso casa che il temporale è appena arrivato ai piedi delle montagne… questa volta sono salva, anche se quell’odore non ha avuto il tempo di, anche se non sono riuscita a ricordare quando è stato che.
Le rondini mi portano via i pensieri ad ogni incertezza, ad ogni pausa, ad ogni punto di sospensione che mi lascio scappare. Non riesco (la bici ha detto che poi) più a finirne (quanto mi) nemmeno (già so’ dieci) uno (e vavatténne!).

Ma che… eppure non mi pare.
Ma allora è primavera, forse.
E’ aprile?
E’ aprile, sì. Anche se.
Tic, tic. Tic-tic-tic.
‘ccidenti.

– continua –

Comeché

giovedì, 4 Maggio 2006

– "Tienimela en soferénsa per un par de setimane, poi me la riporti, mi dici come che canta e la mettiamo a posto".

Così, ha detto. Eppure la richiesta era stata semplice: "dunque, avrei bisogno di rimettere a punto il cambio, ché con alcuni rapporti fa tutta una serie di rumori strani, mentre alcuni proprio non entrano…".
Ma quando sul mio volto sono emersi un certo imbarazzo e un’espressione del tipo tipregoscusascusascusanonhocapitoniente! deve aver intuito qualcosa, lui. Che ha un bel negozio, enorme, pieno di meravigliose mountain bike e un nutrito campionario di articoli correlati, ma anche dal retro dotato di una grande officina dove si prende cura di qualsiasi bicicletta gli venga messa tra le braccia come se fosse la sua. Che poi mi sembra il minimo, con quello che si fa pagare.

– "Che… c’è?", mi fa allora.
– "No, scusa, è che io con i termini tecnici non è che…".

Ha occhi dello stesso azzurro del cielo di questa bella giornata di primavera, pelle trasparente e mani di cuoio. Sorride da dentro quel cranio un po’ squadrato che sembra gli abbiano modellato con una morsa da fabbro, il biciclettaro, che sospira con aria a metà tra il rassegnato e il divertito. E’ uscito fuori per venire a vedere la mia bici, e sul vetro della porta d’ingresso alle sue spalle campeggia un grosso adesivo blu che dice SIATE GENTILI CON I CICLISTI.

– "E va be’, no ghe xe mica roba da tecnici… comunque volevo dirte: portala su pista ciclabile e su strada liscia – no bianca, me racomando – prova tutte le marce del cambio e ricorda tutti i rumori che te fa. Quando torni mi dici quello che hai sentito e te la reméto a nuovo, va bén?".

– "Ok, bon, te devo dir come che canta… ho capito, eh", gli dico trattenendo a stento una risata.

La sua invece scoppia forte, e senza preavviso. Quando lo saluto, mi prende pure in giro:

– "No te va mica tanto mal, però… ciao, sai!".
– "Mandi!", gli grido mentre mi allontano pedalando, con la sua risata ancora dietro le spalle.

En soferénsa, ha detto. E poi gli devo dire come che canta. Be’, non fa una piega. Come che canta… come che canta…

Oddio. Adesso che ci penso, il telaio di alluminio con cui sto facendo amicizia da qualche mese a questa parte è emigrante, come me. E xe strìaco, pure. Speriamo non mi canti in tedesco, sennò saranno risate. ‘N’ata vòta.

– continua –

Angolo di Appia Antica (epilogo)

giovedì, 29 Settembre 2005

"I wish that under crimson sky peace was made between you and I.
Streets were clear and we could go to find a life that we don’t know".

(Gazpacho, Ghost, 2003)

 Dismessa. L’Appia Antica qui da noi è una strada dismessa.
Ma ‘dismesso’ è una parola che si incontra frequentemente dalle mie parti, ed io stessa spesso non faccio che sorprendermene. Strade dismesse, fabbriche dismesse, beni culturali dismessi, aree demaniali dismesse. Sembra quasi che quest’angolo di Campania in cui sono cresciuta sia esso stesso in via di dismissione. Forse è per questo che qui tutto è così bruciato dal sole, opaco, abbandonato. Ai margini del capoluogo, sorprendemente poco più in là, verso sud, c’è tutto un mondo che langue, dismesso, sì, come un vestito che non si usa più, una striscia di terra di cui nessuno vuole più prendersi cura. Casa mia è un posto dove il tempo incespica, rallenta, poi si rialza, prosegue a passo veloce e salta a pie’ pari qualche fosso, qualche asperità del terreno. Poi inciampa di nuovo su qualche masso di tufo, si ritrova di nuovo a viso a terra, e così via. Nonostante la velocità di certi cambiamenti del paesaggio, nonostante l’avanzare di certi cosiddetti rinnovamenti, questo continua a sembrare un posto di frontiera, di passaggio.

Sarà questa strada, che qui è vecchia come il mondo.
Sarà questa terra, così bella e così stanca, che lasciata a se stessa ritrova in certi angoli l’inaudito vigore che portò qui gente di tutte le razze, in un po’ tutte le epoche. Sarà che al mondo il tempo non scorre allo stesso modo da nessuna parte.

Sarà. Sarà.

Angolo di Appia Antica (ottava parte)

giovedì, 29 Settembre 2005

(…) l’estate sul mondo

ombre stampava e pace.

(U. Saba, Chiaretta in Villeggiatura, da Preludio e Canzonette, 1922-1923)

… che scorrono sotto le ruote mentre in apnea attraverso il chilometro delle discariche di San Marco Evangelista. Non ho pensato a portare con me qualcosa per coprirmi naso e bocca, quando sono uscita questa mattina, non avevo pensato che sarei passata di qua. Tra l’altro, in questo momento della giornata – tra mezzogiorno e l’una – il fetore è particolarmente intenso, quasi insopportabile persino per chi vive ogni giorno a pochissima distanza da qui, tuttavia l’idea di tornare indietro non mi piace e così trattengo il respiro, e proseguo. Sono salva – e cianotica – soltanto dopo la curva sulla quale si protende, minaccioso, il contrafforte delle mura occidentali dell’antica Calatia, di cui qui resta a marcire un piccolo tratto, letteralmente tirato fuori dai campi che lo circondano da un gruppo di ragazzi animati da una passione fuori dal comune, la cui opera però oggi giace abbandonata, protetta da una recinzione che potrebbe essere scavalcata anche da un bambino di cinque anni e che, infatti, non ha mai fermato gli atti di vandalismo di questi ultimi anni. Qui nel centosettanquattro avanticristo c’era gente che stava lavorando per rinforzare questi mastodonti di tufo; qui allora c’era qualcuno che tagliava pietre sotto il sole, che scavava fossati, che senza nemmeno saperlo preparava questa strada al passaggio di qualcosa di molto grande.
Gente, erano. Osci, si chiamavano, e Calatia la città legata alla loro sorte. Pastori, e donne che lavoravano l’argilla. Furono i primi ad arrivare qui. Duemila anni prima dell’Anno Zero dell’Occidente, loro erano già qui. Quando si dice costanza…
Vivevano sulle colline tifatine laggiù, laggiù, ma un giorno, visto che là c’era sempre troppo vento quasi tutti i giorni dell’anno, vennero a star qui, nel pezzo di terra che si trova tra questo muro e Villa Galazia, un paio di chilometri più avanti. Non erano in tanti, ci stavano certamente ben comodi tutti. Del resto era gente semplice, senza troppe pretese, che non sentiva il bisogno di viaggiare… quando scesero dalle colline impararono a coltivare, e fu solo quando arrivarono i Greci a Cuma che iniziarono ad interessarsi al mondo esterno: i vicini appena arrivati dall’estero avevano portato ceramiche e certi nuovi oggetti ornamentali che piacevano molto alle signore, e così cominciarono gli scambi e i commerci che portarono gli artigiani locali a diventare per imitazione sempre più abili, e più apprezzati. Capirono che in una situazione del genere non c’era più motivo di restare divisi in tribù, e così da un certo punto in poi demandarono tutte le decisioni per il bene comune ad un anziano che sembrava anche saper dialogare con i piani alti dell’esistenza, mentre loro si divertivano con quei vicini che ne sapevano sempre una nuova, tanto che per raggiungerli e da loro farsi più facilmente raggiungere arrivarono persino a selciare la strada che li univa alle loro terre.
Le donne allora scambiavano i loro vasi con belle spille d’oro oro e vestiti alla moda, mentre certi altri nuovi arrivati che si erano stabiliti non molto lontano – Etruschi, erano – sembravano conoscere un modo di coltivare la vite veramente ingegnoso, che gli uomini di qui non avevano mai visto utlizzare prima; li invitarono qui a farsi insegnare come farla crescere verso l’alto, lontano dal terreno, e a loro volta ricambiarono la gentilezza con i frutti di una terra che qui era generosa come non lo era in nessun altro luogo del circondario. Insomma, gli Etruschi dovettero dimostrarsi proprio dei buoni amici se la gente di qui decise qualche secolo dopo di entrare a far parte della confederazione di dodici città di cui Capua era a capo. Intanto le condizioni di vita migliorarono ancora e – che belli! – iniziarono a circolare anche da queste parti i vasi di bucchero, ma pure quel tempo finì, quando dalle vicine montagne a nord est arrivò un popolo di guerrieri in cerca terra fertile da coltivare e,  vista la ricchezza di questa campania, tanto per non sbagliare, ben pensarono di liberarsi di tutti i capi etruschi tra qui e Capua e di prenderne definitivamente possesso. Anche perché quella che passava di qui era la principale via di collegamento con il Sannio, la regione da cui questi fieri combattenti provenivano, e controllarla significava anche potersi difendere dall’avanzata di certi altri signori che venivano da quella grande (ma proprio grande!) città a nord dove sembrava che fosse nato un certo interesse per il destino di questa regione e che nel frattempo non aveva tardato ad allungare le mani fino a Capua portandovi i suoi eserciti con una gran bella strada di recente costruzione. Insomma, insomma, questo collo di bottiglia tra le colline della campania felix e del Sannio pare fosse cosa assai preziosa, e i Sanniti un fastidio per Roma non trascurabile… così anche qui arrivò la guerra, anzi, le guerre, che furono terribili (che brutto filo da torcere, questi Sanniti, che dopo le Forche Caudine si erano pure montati la testa!), e dopo le guerre questo tratto di strada selciata divenne anch’esso Appia, e la Calatia ormai sannita – che non aveva voluto piegarsi all’invasione fino allo stremo delle sue forze – fu punita duramente diventando una cittadina romana senza nemmeno il diritto di voto. L’Appia proseguì il suo cammino nei secoli fino a Taranto e a Brindisi, mentre qui calarono i veli dell’oblìo: un breve passaggio di Giulio Cesare, poi nell’era cristiana gli attacchi dei Saraceni, e infine la definitiva distruzione dell’ottocentottanta (Anno Domini). Calatia fu abbandonata, e ad essa fu preferita dagli ultimi superstiti la vicina città ai piedi delle colline, che allora si chiamava Mataluni.
Sicché l’Appia se n’è andata avanti correndo verso la Puglia, mentre io sono ancora piantata qui nel centosettanquattro avanticristo, davanti ad un enorme muro che cade a pezzi, pericolosamente consumato alla base dai paraurti dei moderni mezzi di locomozione, e che forse uno di questi giorni deciderà una buona volta di venir giù. Anche Villa Galazia, più avanti, è rossa e cadente, le pareti pazientemente scolorite e scrostate dalla pioggia e dal vento, una grande masseria che si affaccia sull’Appia con accanto una piccola cappella come quelle che spesso erano disseminate sulle grandi vie di comunicazione nei secoli appena scorsi ad uso dei viaggiatori. Senza mai lasciare la strada, nemmeno un chilometro dopo inizia il centro abitato di Maddaloni: dove l’Appia è attraversata dalla ferrovia trovo il passaggio a livello chiuso, così ho il tempo di far salire lo sguardo fino alla Torre Artus, che già da qui lascia intravedere le ferite che da tempo hanno messo in pericolo la sua solidità. Passa il treno diretto a Napoli, ed io proseguo. Al semaforo dopo il passaggio a livello mi fermo, ormai vedo chiaramente che qui posso lasciare la strada. All’incrocio giro a sinistra, e smonto dalla bici nel piccolo piazzale antistante l’ospedale civile di Maddaloni. Di fronte all’ingresso dell’ospedale, nuda si erge la grande porta di Iano Pacifero ormai priva del suo tempio. In strada passa un ragazzino in bici, un paio di ambulanze e qualche auto… è ora di pranzo, e il traffico va scemando come di consueto per la pausa di metà giornata.

Vado, allora…
… ma dove vado?
E come sono arrivata fino a qui?
E’ strano, davanti a questa porta quasi non me lo ricordo più.
Con addosso un inspiegabile desiderio di nascondermi, mi avvicino a questa curiosa rovina dalla sommità coronata di piccoli ciuffi d’erba. In vita mia l’avrò vista e ci avrò girato intorno centinaia di volte, eppure non mi era mai sembrata tanto misteriosa e bizzarra. Sta qui, in piedi, praticamente da sempre e non si capisce bene come sia possibile, cosa ne tenga insieme i resti.
Di un tempio dedicato al dio delle aperture e degli inizi rimane in piedi soltanto la porta – guarda un po’ – tra l’altro chiusa come i romani usavano tenerla in tempo di pace.
Resiste. Si ostina a restare in piedi, la porta di Iano portatore e custode di pace. Solo ora mi rendo conto che verso l’interno del tempio era rivolta alla Strada; verso l’esterno, vegliava sulle colline.

Sì. Allora sì. Sì che è davvero ora di tornare a casa.

E perché mai?

Mah, non lo so. Ma questa è la porta. Tutta questa terra, è una porta. Da qui fino a Capua.
E se questa è la porta, be’, allora è di certo da qui, che si può cominciare a tornare…

continua

Angolo di Appia Antica (settima parte)

lunedì, 26 Settembre 2005

(…)
poi vennero altri liti, mutò il vento,
crebbe il bucato ai fili, uomini ancora
uscirono all’aperto, nuovi nidi
turbarono le gronde –
fu così,
rispondi?

(E. Montale, Accelerato, da Le Occasioni, 1928-1939)

…eppur si cresce. E, dopo aver saputo come sia andata a finire, succede talvolta di camminare fino ad imbattersi nei luoghi dove una storia si sia conclusa. Pedalando, ci finisco anzi proprio sotto. Perché non resisto: la ciminiera del float glass si staglia ancora oggi fiera e silenziosa tra le rovine dei capannoni abbandonati e arrugginiti del vecchio stabilimento, e il muro che allora segnava i confini del Regno del Vetro non esiste più, abbattuto per far posto al formicaio che verrà. Quel che resta di questa specie di antico tempio al cui interno oggi non ruggisce più la voce del Fuoco, però, conserva ancora qualcosa del suo bianco, potente mistero della mia infanzia e rimane così, immobile, immerso nel sole e nell’aria asciutta di questa giornata, gigantesca testimonianza di mattoni conficcata nel bel mezzo di una spianata di case sulla quale veglierà finché glielo concederà il vincolo di archeologia industriale che la protegge. La si vede da molti punti della città, e naturalmente dalle colline che la circondano… e adesso che sono ai suoi piedi, addirittura posso vedere i luoghi dai quali mi capita di indicarla dall’alto con il dito ad amici e conoscenti dicendo "vedi, io abito lì". Ma, nonostante in essa abiti effettivamente una grande parte dei miei ricordi di bambina, oggi la vedo così da vicino per la prima volta. Non mi ci avevano mai portata da piccola né io, pur passando oggi qui accanto assai spesso, non mi ci ero mai accostata più di tanto, chissà perché.
Nel punto in cui sorgeva il piccolo edificio in cui lavorava mio padre (ed io passavo i miei pomeriggi estivi con nelle orecchie la voce del fuoco dell’altoforno) adesso passa una strada nuova, con belle aiuole sparticorsia alberate nel mezzo e larghi marciapiedi alla cui sinistra gli ultimi appezzamenti di terreno coltivato non ancora strappati via ai proprietari che si rifiutano di vendere si aprono come antiestetiche buche a spezzare la continuità dei nuovi condomini sorti uno dietro l’altro nel giro di un anno e mezzo e ancora disabitati. Qui, sotto la torre, il terreno è invece ancora brullo, calpestato e compatto ma intatto, coperto della sua solita polvere rossa e giallastra, un largo spiazzo in cui rovinano al sole tettoie, grosse lastre di vetro ed enormi traverse di ferro, insomma i resti del capannone della Composizione. Per un attimo mi sfiora la voglia di salirne la scala laterale fino in cima, e mentre studio il modo di raggiungerne la  base mi sembra di veder tremolare una specie di bagliore bianco nella coda dell’occhio sinistro. Non faccio allora nemmeno in tempo a voltarmi, che lo stormo di gabbiani che stava razzolando lì prima del mio arrivo si alza improvvisamente in volo, spaventato, lanciando acute grida verso il sole. Ma il chiasso non dura che qualche secondo, e una volta al sicuro nel vento è un incanto vederli iniziare a volteggiare così, come per gioco, intorno a quello che deve essere diventato il loro rifugio. Ecco allora i primi abitanti del quartiere nuovo, ecco chi custodisce la Casa della Grande Fiamma Bianca ora che essa e i suoi Guardani non ci sono più. Eccoli qui, allora, è qui che abitano, non nella discarica che sta cento metri più in là, come invece credevo. Quella, sospetto, sarà semmai il loro MacDonald’s. Andiamo bene.
Era forse per questo che d’istinto mi ero sempre contentata di guardarlo da lontano, questo punto di riferimento visivo, e affettivo… come un faro. Il Regno del Vetro si è fatto Landa dell’Eterno Fetore, e Deserto di Cemento. Nell’estate mediterranea che avanza, le innocenti ali dei nuovi Guardiani sostenute dal Maestrale si allargano con eguale benevolenza su strane rovine di tufo abbandonate ai margini delle discariche, sulla ruggine, sulla strada deserta sulla quale riprendo a pedalare dimenticando la scala della torre, sulle pietre vecchie di ventitré secoli dove termina la vecchia San Nicola e inizia la pianura di Maddaloni, ancora più antica, ancora più ricca di memoria e – qui va da sé – ancora più desolata. Sciatta, in una secca calura quasi insopportabile, si consuma la memoria di questa strada, che ad ogni pedalata riporta adesso indietro nel tempo, sempre più indietro, e ogni cento metri sono stagioni, anni, secoli…

-continua-

Angolo di Appia Antica (quinta parte)

martedì, 30 Agosto 2005

"C’è rummasa ‘a scumma d”a culàta mo’
na chiorma ‘e muscille che s’aggarba
pezzulle ‘e pane sereticcio quacche
"silòca" ‘nfacc’ê pporte arruzzuta
e ‘o viento nu viento ahi na mal’aria
‘a quanno se ne so’
fujute tutte quante secutanno ‘o ciuccio ‘nnante, ‘e notte
cu”a rrobba ‘a robba lloro (‘o ppoco pucurillo ca serve e tene)
e ‘a pòvere s’aiza ‘int’a stu votafaccia
pe’ ll’aria che se tegne d”o janco d”a petrèra"*.

(Achille Serrao, da Mal’aria, 1990)

 Dopo le case e gli esseri umani del vico Marotta, di tufo diventa il mondo intero. E’ qui. La porta. Questo è forse il punto intorno al quale cominciò a gravitare una qualche attività umana, molto tempo fa. Qui, da qualche parte intorno al punto in cui mi trovo, è iniziata tanti secoli fa la vita di quello che doveva essere solo un minuscolo villaggio di contadini, che se non si fosse trovato nei pressi di questa strada forse alla fin fine si sarebbe disperso, e infine scomparso – mi dico con infantile stupore mentre vedo un gruppetto criaturi che gioca con la pièssedue nel bel mezzo del cortile interno di una masseria, dove qualche genitore premuroso ha sistemato loro su un tavolo un televisore da ventinove pollici per farli, credo, stare belli comodi insieme ai pennuti da cortile che razzolano tranquilli intorno ai loro piedi. La gente chiama questo tratto, che dalla piazza d’a Parrocchia porta a ‘o campusanto, ‘a via d’e Nunziatelle a causa di una chiesa dell’Annunziata che sorgeva qui vicino e che, a giudicare da certe cose che ho sentito raccontare dalla panettiera del vico dei Funai (che è molto in avanti con gli anni ma ricorda benissimo quello che le raccontavano sua nonna e la sua bisnonna), verso la fine del Settecento doveva essere già mezza distrutta. Mi fermo, e mi appoggio per un attimo al lungo muro di tufo che qui costeggia la strada, sorrido, penso che non ci vorrebbe poi molto a scavalcarlo, è alto meno di un paio di metri ma a nessun ragazzino di queste parti verrebbe mai in mente di fare una pazzia del genere: alle sue spalle c’è un salto di quasi dieci metri, a strapiombo su una vallata di campagna in miniatura. Mi trovo infatti ai margini di una delle cave di tufo di San Nicola, la più antica insieme a quella d’a Santa Cumaia. Tra qui e Caserta ce ne sono, che io sappia, ancora almeno quattro, tutte incuneate in mezzo alle case e ai palazzi, come enormi buche; da qualche parte lungo il loro perimetro c’è sempre un vecchio cancello o un grande portone dal quale inizia, o iniziava, una strada sterrata in discesa che porta al fondo della cava. Qualcuno, una volta, mi disse che quel che in quel che manca da queste fosse vive quasi tutta la città, e che fu grazie alla roba gialla che da esse veniva estratta che il paesiello di contadini ‘e ‘na vòta si trasformò in un attivissimo centro di  ‘nfelatrici ‘e tabacco e spaccatori e tagliatori di pietre. Tagliatori, sì, senza la dignità del prefisso che designa una più raffinata arte: qui le pietre dolci si tagliavano, venivano selezionate a seconda della misura con la sola arte del piccone, della sega e del fierro felato. A meno di cinquanta metri in linea d’aria da qui c’è casa mia, a cinquanta metri da qui si salta agli anni Settanta, periodo in cui fu tirata in piedi la prima, piccola area residenziale della zona, con quei suoi modesti condomini a quattro piani dalle pareti giallo spento striato qua e là di marrone – a giudicare dal loro attuale aspetto mai ritinteggiate, nemmeno una sola volta da quando fecero la loro comparsa su questa terra accanto alle antiche masserie. Ma è veramente bizzarro, a ben guardare, il modo in cui i più vecchi condomini di Via dei Mille somigliano alle case che stanno al di qua dell’Appia, giallognoli e squadrati come sono, nemmeno siano stati progettati nel sincero tentativo di ridurre l’impatto estetico delle nuove costruzioni. Chissà…

 Il muro è lungo, e caldo di un sole impietoso, quasi allo zenit. Cerco un po’ d’ombra sotto le edere che straripano dall’interno della cava, accanto al portone che non viene aperto forse da un secolo e che lentamente rovina, marcisce, si disfa a dispetto del bianco marciapiede nuovo di zecca che da qualche mese costeggia il muro a nord del giacimento per merito del mai abbastanza lodato progetto Urban2, mentre esattamente di fronte a me, dall’altro lato della strada, decine di rondini volteggiano sullo spazio vuoto lasciato dal crollo della masseria del Vico Tiscione, abbandonata da decenni e collassata su se stessa alla fine dello scorso anno. E mi sembra, in effetti, di avere anch’io un cuore di tufo, un cuore di quelli in cui il tempo non scorre insieme al sangue ma che al contrario si deposita, come i sedimenti di cui è fatto il giallo della mia terra. Questa porta chiusa e il suo legno che si guasta nel pieno centro della città, devo ammetterlo, fanno un po’ male. Spero che non ci sia un buco come questo anche nella pietra porosa che ora sento pesare al centro della cassa toracica, penso quando riprendo a pedalare per proseguire ‘ncopp’ ‘e Taglie (sulle Taglie), la zona immediatamente successiva a ‘e Nunziatelle e ‘o Campusanto, dove si trovavano i cantieri dei tagliamonti, cioè coloro che facevano a pezzi i monti (le cave, in gergo popolare) "ad uso delle reali delizie". Spero, spero… spero guardando la strada scorrere sotto la ruota anteriore della bici, quando un lampo bianco mi ferisce la coda dell’occhio. Freno, alzo lo sguardo.
Nella monotona continuità delle case del centro storico non l’avevo mai notato. Più che altro, non mi ero accorta dell’arcata priva di portone. E della sgarrupatura sulla parete in alto, sulla destra. Oddio. Da quanto tempo è stato abbandonato, questo cortile? Perché le pareti interne ed esterne sono dipinte di bianco fino a metà della loro altezza? Ci sono i resti di un forno, di una latrina, gli infissi di legno mangiati dalla pioggia e dal sole incrostati della tipica vernice verde che si usava per tutte le imposte del mondo fino a una quarantina d’anni fa, e ha l’aria di non avere l’intenzione di reggersi in piedi ancora per molto. Probabilmente presto le rondini avranno un altro mucchio di macerie dove accomodarsi in pace per le estati che verranno.
Eppure, mi chiedo cosa sia accaduto qui e perché, a differenza delle altre case abbandonate di questa zona, questa sia stata lasciata così, con tutte le porte e le finestre aperte. Sembra che qui, semplicemente, chiunque o qualunque cosa vi abitasse se ne sia… andato. Via. Così. Allé. Gone. Via. Ciao.
Ma magari, in realtà, non è successo proprio niente. Chi c’era se n’è andato, e il rigattiere del Tempo è passato in seguito a ritirare le imposte. A ben pensarci, non c’è ragione per cui questa casa debba aver vissuto una storia diversa dalle altre. E forse non è nemmeno questa casa, il punto.
Il punto, semmai, sta nei verbi che un tempo la abitavano: stare; lavorare; vivere. L’abitare, stesso, pure. Quelli, sì, forse col tempo si sono fatti superflui.
Una fantasia un po’ crudele mi fa tentare di immaginare i visi di quelli che una volta abitavano qui, di quelli che dicevano "stong’ ‘e casa aropp’ ‘o Campusant’, ‘ncopp’ ‘e Taglie". Ma non ci riesco. Credo che l’immaginazione mi si sia irrigidita all’altezza del vicolo Marotta: vedo… sì, che li vedo, i loro volti. Ma sono – ancora! – di tufo. E parlano… sì, parlano di qualcosa… che però non capisco.
Saranno le avvisaglie di un’insolazione?
Mah. Meno male che il centro storico finisce qui.

 Quando riparto, mi lascio alle spalle gli ultimi cortili di questo tratto d’Appia, con l’ultimo mastino da guardia da un lato e l’ultimo tacchino – più pericoloso del mastino, quando c’ha la luna di traverso – intento ad ispezionare la propria aia dall’altro. Si diradano le case, appaiono i campi di mais e di tabacco. E le fabbriche. Le fabbriche. Le fabbriche.

continua

* C’è rimasta la schiuma del bucato ora/ una marmaglia di gatti che assapora / pezzi di pane muffo qualche / "affittasi" sulle porte arrugginito / e il vento un vento ahi una mal’aria / da quando se ne sono/ fuggiti tutti seguendo l’asino avanti, di notte / con la roba di casa (il poco poco che serve e si mantiene) / e la polvere si solleva in questo voltafaccia / nell’aria che si colora del bianco della pietraia.

Angolo di Appia Antica (quarta parte)

martedì, 2 Agosto 2005

"Always in my thoughts you are.
Always in my dreams you are.
I got your voice on tape, I got your spirit in a photograph…
… always out of reach you are".

(S. Wilson, The Start Of Something Beutiful, 2005)

Lasciata casa di V. posso anche risalire in sella: sono arrivata a ‘u Trivece, il trivio, la confluenza delle tre strade più antiche di San Nicola – ovvero ‘a via ra ‘Roce (la via della Croce), ‘a Via d’a Pagliara e ‘a via ‘a Maronna. Ormai non sono più in senso vietato, e davanti al municipio posso continuare pedalando verso il cuore giallo del centro, in direzione della sua parte più polverosa e della zona in cui abito. Passo ‘u Trivece, il Municipio, saluto il vigile che piantona la piazza ad esso antistante probabilmente da una ventina d’anni a questa parte, passo il monumento ai Caduti – un orribile parallelepipedo di marmo bianco con uno stellone blu di plexiglass piantato sulla sua sommità, sia stramaledetto ora e sempre l’essere umano che ne concepì a suo tempo la forma – e l’esercito di vecchi che ne piantona i dintorni probabilmente fin dagli albori del mondo, e al bivio che mi ritrovo davanti alle ruote della bici proseguo per la strada che scivola via a destra verso la scuola elementare e la chiesa (‘a Parrocchia). Mi infilo in un paio di vicoli sulla sinistra, qui ci sono piccole corti interne dimenticate cui la luce abbagliante del sole di luglio dona larghe macchie d’ombra dove viaggiano la polvere, il polline e il pungente odore dei mazzi di origano lasciati a seccare sui balconi, colori e profumi che si mescolano sotto gli archi di ingresso oltre i quali le finestre si affacciano sui cortili come in un girotondo. Da alcune di queste finestre sporgono dei visi rugosi, dai capelli bianchi e dalla voce cavernosa che un tempo fu forse di donna, ma che oggi vibra scompostamente su note basse fino a confondersi con quella degli uomini. Si parlano ad alta voce da una finestra all’altra, queste voci che si sono perse tra le pieghe di una vecchiaia passata a infilare il tabacco o a tirare un carretto carico di scaròla in giro per quello che fino a vent’anni fa era solo un paese, si parlano biascicando parole antiche e mi guardano, mi fissano con sospetto anche dopo che le ho salutate, finché resto sotto le finestre che sono i loro occhi aperti sul (loro) mondo. In fondo, anche se questa è una strada comunale, sono praticamente entrata in casa d’altri. Per questo non ho cuore di tirar fuori la macchina fotografica, non ho cuore nemmeno di fare il tentativo di spiegare, e di chiedere se posso… no. La polvere e il tufo qui fanno tutto vecchio, e opaco. Cose e persone. Temo che se la sfilassi dal marsupio mi ritroverei in mano un mucchietto di transistor sgretolati dentro una scatoletta arrugginita. Cinquanta metri più in là c’è la città, la case nuove, le auto, internèt e i cellulari. Ma la macchina fotografica digitale qui, dietro questi muri, non è stata ancora inventata.

Saluto la corte del vico Marotta, e proseguo.

Com’è vecchia, casa mia.
Quanto giallo e quanta luce, ci sono a casa mia.
E quanto tufo, c’è a casa mia.
Sopra e sotto.
Fuori… e anche dentro.

Dentro.

continua

Angolo di Appia Antica (terza parte)

venerdì, 22 Luglio 2005

"And I’ll come home, be a better man,
if you promise not to follow.
And now, before it has begun,
wherever you are from, you can go but you can’t come…". (Gazpacho, Nemo, 2003)

A parte quando si è così scemi da farsi beccare a cantare sotto un semaforo, su questa strada è tutto talmente vecchio, talmente giallo, talmente tufaceo che a percorrerla ci sente scolorire fin quasi a sparire, se solo si ha il tempo di andare piano. Ci sono dei punti in cui sembra di camminare controvento, o in salita, insomma, come se la strada stessa cerchi di farti rallentare. Ce ne sono ancora da qualche parte, credo, di strade così, e trovarle è una vera fortuna.

Una volta attraversato il Vialone di corsa, salgo sul marciapiede imboccando un altro tratto di Appia che qui però si percorre solo in un senso di marcia. Sì, va be’, siccome voglio andare sempre dritto, come i viaggiatori che passavano di qui duemila e passa anni fa, mi tocca imboccare ‘a via ‘e Pagliare – questo il nome che la strada prende in questo punto – praticamente contromano ma, onde non incorrere in qualche incidente spiacevole sia per me che per un eventuale malcapitato quanto innocente avventore, scarto l’iniziale proposito di percorrerla in sella ma sullo spazio pedonale. Smonto allora dalla bici, e mentre ancora cerco di riavermi dall’imbarazzante scenetta dell’incrocio appena superato mi metto lentamente in cammino. Qui inizia la San Nicola vecchia, subito al di qua del Vialone si apre la zona delle masserie e dei palazzi di tufo, costruiti l’uno a partire dai confini della corte dell’altro come si usava un tempo, sicché i lati della strada sono quasi un lungo, interrotto muro giallo spezzato solo di tanto in tanto da stretti vicoli laterali che si intrecciano in un groviglio che serve i portoni di ogni cortile, di ogni casa, anche della più piccola cascina. Alla mia sinistra c’è un alto muro coronato di filo spinato su cui campeggia in bella mostra un cartello inverosimilmente arrugginito che forse una trentina d’anni fa aveva la funzione di segnalare il divieto d’accesso in una zona militare e, poco più avanti, lo stesso muro fa angolo con il vicolo detto "delle Casermette". E’ in questo tratto di Appia che pare ci fosse la ‘Pagliara’, un appezzamento acquistato all’inizio dell’Ottocento dalla Reale Amministrazione in misura di  "moggia 11, passi 15 e passitelli 2 di terreno" (a quanto ammonterà mai un "passitello"?) per permettere il passaggio del Vialone e dei Galoppatoi, allora in costruzione, che dovevano arrivare fino alla Reggia… e oggi? Mah, oggi c’è l’enorme incrocio, case nuove in schiacciante minoranza, il muro con il filo spinato e il suddetto vicolo, che tra l’altro è da una vita che attira la mia attenzione: passando di qui in auto, ogni volta mi riprometto di andare a dare un’occhiata. Poi puntualmente me ne dimentico, e non ci penso più. Ma oggi di sicuro è la volta buona, è ovvio.
All’altezza del mio girarrosto preferito, quindi, attraverso la strada ed entro in questo vicolo, stretto stretto e lungo lungo, anch’esso tutto giallo e tutto tufo, in cui spira una fresca corrente d’aria che porta un intenso profumo di fichi e di umidità. Il palazzo che alla mia destra costeggia la stradina è circondato da grandi protezioni in lamiera per la caduta di calcinacci che chiudono quasi del tutto lo spazio superiore  tra le due pareti del vicolo, così d’improvviso si fa buio e la luce arriva quasi esclusivamente dal portone a qualche decina di metri più avanti. Proseguo, e ad un certo punto il muro sulla sinistra si abbassa, la luce aumenta, finché non riesco a scorgere un cartello giallo affisso sulla volta dell’arco di ingresso:

ZONA MILITARE
DIVIETO
DI ACCESSO

Ah sì? La faccia mi si scompone dal ridere: l’arco e il fianco del palazzo sono percorsi da chilometri di rampicanti che arrivano fino al tetto… ce l’avranno messo le edere, qui, quel cartello? Eppure non sembra molto vecchio. Ma insomma, ormai sono qui… mah, io vado a vedere lo stesso. Al massimo, rimedio una sgridata e un invito a tornare sui miei passi, penso. Attraverso allora l’ingresso con addosso questa strana spavalderia che non mi riconosco, ed ecco che mi si aprono davanti agli occhi un altro tratto di strada, un largo spiazzo invaso dai rovi e infine una stretta curva che si infila a destra sotto un altro arco, evidentemente dotato di un cancello che però è completamente spalancato. Da una delle sbarre verdi e arrugginite pendono una catena e un lucchetto, che al contrario sono nuovi di zecca. Che ci sia qualcuno?
Risalgo sulla bici, e dò un altro sguardo intorno. L’arco è anch’esso quasi del tutto ricoperto di edera, e si apre alla fine di quello che sembra un muro di cinta che corre lungo tutta la stradina. Ma è quando arrivo a guardarmi alle spalle che resto letteralmente a bocca aperta: questa è una caserma… o meglio, era una caserma, ma è un fabbricato enorme, che dall’Appia non lascia intravedere le sue dimensioni perché il lato che dà sulla strada è da decenni totalmente rivestito di impalcature. Chissà quanto tempo fa dovevano averne avviato il restauro, e poi… e poi è finito così, abbandonato, chissà come e chissà da quanto… come un po’ tutto da queste parti, in fondo. Abito qui da sempre, e di questo posto non avevo mai nemmeno intuito l’esistenza. Ma come, come…
… sulla scia di questi punti di sospensione ormai non resisto più alla curiosità: passo l’arco e vado a vedere.
Al di là della porta lo stupore si moltiplica, trabocca, non so più dove far andare gli occhi. Parlo anche ad alta voce, credo.
Sto girando tra le casermette cui è intitolato il vicolo da cui sono venuta, erano forse alloggi questi piccoli edifici alti non più di tre metri con il tetto leggermente spiovente, rettangolari, grigi, con le finestre e le porte di legno e lungo i muri fili dell’elettricità rivestiti di ceramica, di quelli che si usavavo cinquant’anni fa? Ce ne sono tanti, forse una quindicina, ben distanziati e disposti in più file, alcuni ormai privi di tetto. Un dedalo di stradine li sfiora, invaso da fichi ed eucalipti, cespugli di belle di notte, avena sterile e quei bei fiori bianchi che le nonne qui chiamano ‘e ‘mbrellini. Il solo suono che si sente è un dolcissimo ronzare di vespe e api, ce ne sono moltissime, qui di certo avranno trovato da qualche parte un angolo in cui lavorare in pace. Sopra di me rondini, passeri, una gazza ladra. Non un’anima viva in questo posto enorme (chissà quante cose si potrebbero fare qui dentro, con tutto quello che si sente in giro sulla mancanza di "spazi" da queste parti!), che forse era la base militare che faceva capo alla Polveriera che si trovava poco distante da qui, penso a questo punto. Ma, dio, non c’è un’anima viva.
O, almeno, così sembra… finché da una delle casermette non sbuca fuori un cane, un meticcio grigio di media taglia, che abbaia furioso e quasi mi fa prendere un infarto. Dato che non è legato mi fermo per non inquietarlo ancora di più, fino a quando non si calma e dietro di lui non compare sulla… soglia… no, anzi… sul cancello della casermetta un… signore. Guardando meglio, mi accorgo che la casermetta davanti alla quale mi trovo è diversa da tutte le altre, ha in verità tutto l’aspetto di una casa… cioè… come di una villetta, bianca, recintata, le tendine alle finestre. Accanto al cancelletto d’ingresso, all’ombra di un noce, c’è anche posteggiata un’auto. Il vecchio in canottiera bianca che ne esce chiama a sé il cagnone, che subito inizia a scondinzolare e se ne va a distendersi all’ombra del cofano dell’auto. Il signore si asciuga le mani con un panno da cucina colorato, ha la pelle del colore del cuoio e mi fa segno che non c’è pericolo, che il cane è buono e non morde, infine mi domanda se è tutto a posto, o se non stia per caso cercando qualcuno.

– "No no", rispondo, " non sto cercando nessuno… scusi, sa, sto solo facendo un giro. Anzi, buongiorno. Cioè, io abito qui da quando sono nata e questo posto non l’avevo mai visto… non immaginavo che qui dietro ci fosse una caserma… ".
– "E infatti, uagliunce’, sient’ a mme che nun ‘o ssape quasi nisciuno, a fore ‘e chill’ che stann’ ‘ccà tuorno. Da quando non se va cchiù a piére, ‘a gente nun sape cchiù manco chello ca tène ‘n capa, figurate si po’ vere’ chello che tène attuorno. Io stong’ ccà ‘a trent’anne, e tu si’ forze ‘a quarta perzona ca se vene a ffà nu giro ccà dreto int’a tutt’ stu tiempo…". *

Uggesù. Eccone un altro. Ma tutti io li incontro, i filosofi in pensione di questo angolo di mondo?

– "Ah. Eh… ma scusi, posso? Non le crea mica problemi se faccio due passi? Veramente non avevo proprio idea…".
– "Eh, ‘o saccio, ‘o saccio. Ma tu ‘o ssaje che ‘stu posto sta ccà da cinquant’anni? Io ci faticavo pure. Comunque nun te preoccupa’, guarda tutto chell’ che te pare, che probblema ce sta’? Po’ a settembre vieneme a truva’ n’ata vota, mia moglie te fa ‘u ccafè. Mo’ scusa, eh, ma aggia asci’. Statt’ buon’!", e senza nemmeno darmi il tempo di ricambiare il saluto si gira e sparisce dietro le sue tendine bianche, mentre resto imbambolata e incredula a fissare il cagnone, che ricambia con un’espressione del tipo non-chiederlo-a-me-io-torno-a-dormire.

Ma tu guarda questo tizio come si è sistemato… s’è scelto la casermetta con l’esposizione migliore, con lo spazio davanti e l’albero di noce accanto, se l’è intonacata e verniciata di bianco… e chissà dentro, poi! Ma come… e quando… e all’improvviso nella testa mi salta fuori tutto il coro dell’Antoniano in pausa merenda, una domanda per ogni voce, tutte intrecciate insieme in un chiasso tremendo. E’ evidente che il cane sa bene il fatto suo, ma adesso per le domande è troppo tardi. Resto piantata lì per non so quanto tempo con la mandibola disancorata, indecisa se scattare qualche foto o meno, prima di decidere di saltare di nuovo in sella e proseguire il giro. Nel naso, persiste un forte odore di fichi che non vuole saperne di andar via. Dopo un altro veloce giro intorno alle casermette, mi accorgo che sapere della presenza dell’anziano signore mi ha intimidita. Restare lì mi sembra improvvisamente ineducato, improvvisamente scortese. Io e il mio stupore, allora, altrettanto improvvisamente ci troviamo d’accordo sul fatto che è meglio tornare sui nostri passi, e proseguire il giro sull’Appia.
Fa caldo, oggi. Dannatamente caldo. Forse ho avuto un’allucinazione.
Passo a salutare un’amica che abita poco più avanti, vicino alla villa dei Centore, ramo locale dell’antica famiglia siciliana dei Centorbi, a giudicare dalla divisa riportata sullo stemma dipinto sotto la volta dell’ingresso della villa stessa. Chiedo a V. un bel bicchiere d’acqua, le racconto dell’incontro che ho appena fatto e lei, che vive soltanto a qualche centinaio di metri dalle Casermette, pure sgrana gli occhi per la sorpresa.
"E no, scusa, a questo punto a settembre ci andiamo insieme, a prendere quel caffè". Che bellezza. Meno male che ci sono gli amici.
Finisco il mio bicchiere d’acqua, saluto e riparto.

"Fugat, non fugit". Sembra un indovinello.

La risposta stamattina potrebbe essere: il Tempo.

Con la maiuscola davanti.

continua

* "E infatti, ragazzina, dai retta a me, ché non lo sa quasi nessuno, tranne quelli che abitano qui vicino. Da quando non si va più a piedi, la gente non sa più nemmeno quello che ha nella testa, figurati se riesce a vedere quello che la circonda. Io abito qui da trent’anni, e tu sei forse la quarta persona che viene a fare un giro qui dietro in tutto questo tempo…".

Angolo di Appia Antica (seconda parte)

martedì, 19 Luglio 2005

"Dark is full of rays

and this ocean is a wave

and this desert is a keyhole

of passed dancing days.
(…)
Can you pull down the colossus?

Can you justify her scars?

Can you bring life to a desert?

can you justify her scars?".

(Gazpacho, Desert, 2003)

Il punto in cui ‘prendo’ l’Appia si trova in una delle zone più brutte del circondario. E’ la via d’a polveriera, in cui fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale si trovava un deposito di armi belliche, al cui posto c’è oggi la sede della Motorizzazione Civile. Stamattina il vento è ancora fresco e asciutto, e qui c’è la solita bolgia infernale delle giornate in cui si fanno gli esami di guida, bolgia per fortuna tutta concentrata nei pressi dei cancelli del grande edificio, dove gli istruttori di guida fanno capannello con i propri allievi elargendo gli ultimi consigli su come comportarsi durante l’esame. In questo punto l’Appia è uno stradone largo, enorme. Viene da Recàle e, passando sotto il ponte dell’A1, sfila via dritta verso il centro di San Nicola la Strada, che tra l’altro deve il suo nome ad una scomparsa chiesa dedicata a San Nicola di Bari ad stradam, "sulla strada", cioè proprio sull’Appia. Qui non ci sono ancora abitazioni, la vicinanza dell’Industria Calce Casertana ne ha sempre impedito la costruzione, la via è incassata tra due alte scarpate laterali bruciate dal sole e da un qualche recente piccolo incendio… a guardarla da qui, questa lunga striscia d’asfalto oggi sembra un pezzo deserto di entroterra siciliano: alla mia sinistra ci sono le vetrerie Fiore, che un tempo fabbricavano i finestrini dei vagoni di tutti i treni del Sud, alla mia destra c’è lo scasso dove da qualche parte riposano i resti della vecchia 127 di famiglia, andata in pensione qualche anno fa. Ricordo ancora con una stretta al cuore il momento in cui l’energumeno che ora è lì seduto a riposare sotto quel casotto di lamiera si avvicinò indifferente, cacciavite alla mano, per svitare la targa dall’amata scatoletta… per qualche minuto me ne sto qui, allora, appoggiata al cartello che giustifica i colori – grigio, paglia e ruggine – che mi invadono lo sguardo e lo stato di questo manto stradale pieno di buche e dislivelli da Camel Trophy, con due signori in giacca e cravatta (probabilmente due istruttori di guida in vena di una passeggiatina pre-esami) che mi guardano dall’altro lato della strada scattare foto qua e là evidentemente incuriositi, mentre ho addosso una gran voglia di scomporre i connotati del grassone dello scasso allo stesso modo in cui lui li scompose a suo tempo alla sola automobile a cui abbia mai portato una qualche forma di affezione. Nell’aria c’è odore di sterpaglia, di ferro, degli scarichi del gruppo elettrogeno che alimenta il chiosco abusivo appostato un po’ più avanti a vendere bibite sul piazzale antistante l’ingresso della Motorizzazione. Un cumulo di immondizia alto un metro davanti alle transenne che impediscono il transito all’inizio di una rampa in costruzione di un’altra strada provinciale iniziata e lasciata da circa un decennio così, a mezz’aria, è l’ultimo angolo di campo visivo che mi lascio alle spalle.
Una folata di vento si alza e mi fa pedalare via – come spesso è accaduto in altre occasioni e in altri luoghi – sull’impercettibile pendenza di questa discesa verso la città vecchia. Mi sfilano a destra e a sinistra le grandi sagome gli stabilimenti chiusi della sopra menzionata ICC, la Motorizzazione e la sua folla di patentandi, la stradina laterale dove anch’io otto anni or sono guadagnai il permesso di circolare impunemente a bordo di una qualsiasi quattro-ruote, un mastodontico concessionario di auto e la sua colorata mercanzia esposta a sviluppare calore sotto il sole, la Tipo-lito Saccone esseppià, il distributore di carburante gestito dal pittoresco Toro Seduto, il benzinaio così chiamato dai ragazzini della zona per la particolarità di tenere il suo esercizio sempre aperto, a tutte le ore e in tutti i giorni dell’anno (Natale, Pasqua e Capodanno ivi compresi), e con le chiappe perennemente posate su una grande e comoda, per quanto usurata, sedia da ufficio rivestita in pelle marrone sistemata sotto una artigianale tettoia di legno o sotto l’albero di fico che cresce accanto al distributore, a seconda delle stagioni. Quell’uomo taciturno e la sua pompa di benzina blu sono qui almeno da quando anch’io mi sono materializzata su questa terra e, io ragazzina, lui era già un punto di riferimento topografico  per la zona. Non mi meraviglierei nemmeno se sulle Pagine Gialle, alla voce "distributori di carburante", si trovasse il suo soprannome invece del marchio della compagnia di cui distribuisce la benzina… quell’omone ormai vecchio, canuto e dalla faccia truce, di cui non ho mai saputo il vero nome, con ogni probabilità non è mai stato nemmeno una persona troppo raccomandabile – "e nun ‘u sfruculiate, uagliu’!", dicevano i nonni sannicolesi ai nipoti quando dovevano mandarli da lui ad acquistare una tanica di miscela per certi loro attrezzi agricoli… eppure eccolo lì, ancora lì, sempre lì. Mah. Un mistero sotto il cielo, per noi ragazzini di allora.
Quando lo supero, sono ormai arrivata all’incrocio con ‘u Vialóne, il grande Viale Carlo III che porta alla famosa reggia borbonica. Qui l’Appia è il confine tra San Nicola e Caserta, ma oggi il grande palazzo settecentesco non mi interessa più di tanto. Mentre attendo il verde al semaforo per attraversare il Vialone e proseguire verso San Nicola, lo sguardo cade sulla vecchia masseria alla mia sinistra: parecchi anni fa questa vecchia struttura di tufo ospitava un ristorante, ancora prima sarà stata forse un’osteria, un ricovero per i viaggiatori di passaggio. Oggi è abbandonata, qualcuno ne coltiva a tabacco il terreno annesso dove di tanto in tanto, a raccolto ultimato, si vede pascolare un gregge. C’è una corte, sul lato nord della masseria, delimitata da un muro di cinta la cui sommità straripa di un verde scuro, luccicante, rigoglioso, che al primo sguardo attira e ferisce l’occhio, e poi dopo lo consola. A vista si riconoscono noci, tigli, un paio di magnolie, e un mare di edera e vitalba che ha riempito completamente il cortile, forse fin quasi all’altezza del muro. Sembra anzi che sia sul punto di colare fuori, e invadere il campo oltre il recinto.

Verde. Mamma mia, quanto è verde.

[Verde!]

Verde…

[Verde!]

Eh…

[VERDE!]

"He found himself a private desert,
and sometimes he feels that it expands,
it’s like it’s got him mirrored
the way it fits into his hand
as if it’s tailored.
If you smash yourself against his wall
then you’ll never trip…
you’ll never faaaaaaaaaaaaaaaaaaaall…".

"SIGNURI’, E’ VERDE! Vulimm’ canta’ tutta ‘a jurnata?" – grida contrariata una signora sporgendosi dal finestrino dell’auto dietro di me.

Schizzo via in volata, novella Cipollini in gonnella.
Che vergogna…

continua