E’ una giornata splendida: vento di tramontana estivo, sole, odore di temporale appena passato. Se trovo l’infermiera Ivana nella stanza di ricerca per il prelievo, poi, le prime parole della giornata sono leggere e gioiose, e sistemano il sapore di tutta la mattinata. Faccio il prelievo, mi piantano la cannula per la TAC di mezzogiorno, vado in sala tamponi Covid e dietro di me sento dire buongiorno in un accento talmente familiare che quasi aggredisco la ragazza alla quale appartiene: Ercolano, marito militare, un bimbo di cinque anni, vive qui da sette. Lei è senza capelli, fa le terapie che forse un giorno toccheranno anche a me. Pare ci sia quasi sempre un momento, in questo cammino, in cui si diventa magre e opache, una fase necessaria e che alla fine salva la vita, ma, appunto una fase. Quando ci penso sento le mie fibre vibrare, come se qualcosa dentro immagazzinasse questa nozione un pezzettino alla volta, quasi a volersi preparare, da un lato, e dall’altro mettere davanti al tempo presente una lente che esalta, decanta, letteralmente magnifica lo stato attuale delle cose.
Ci si incontra tra i corridoi, tutte diverse e uguali, e a ogni scambio ci si saluta con l’angolo di prospettiva spostato. Che strano. Fuori non tutti gli scambi sono così densi… o almeno, così mi pare oggi. Il contesto è la maggior parte del messaggio, qui è particolarmente evidente.
Come quella volta a febbraio: erano i primi mesi, non capivo, non sapevo, muovevo i primi passi in questo nuovo ambiente che cercavo di decifrare con in testa solo una domanda, una sola, quella che investe come un tram in faccia tutti quelli che ricevono una diagnosi come la mia (quanto mi resta da vivere?), sconvolta per essermi ammalata così giovane, e con i bambini ancora piccoli. In sala terapie, alla mia prima flebo di acido zoledronico, nella poltrona accanto alla mia sedeva lei, la signora delle orchidee, come l’aveva chiamata l’infermiera presentandomela. Già che c’ero, dovevo fare anche un’iniezione, e dopo aver tirato giù i pantaloni ci si mette poco ad attaccare bottone, no?
E allora niente, lei sessantotto anni, al quinto ciclo di chemio, con le borse del ghiaccio su mani e piedi, una stanza di fiori INCREDIBILI che mostrava fiera dallo smartphone a chiunque si trovasse a passare, che mi chiede tutto, tutto… e quanti anni hai, hai bimbi (sempre primo pensiero, in questo percorso di tumore che tocca alle femmine), e quale terapia, e che grado, e cosa c’è nella tua sacca. E io, che allora viaggiavo ancora sul filo del terrore, che ogni domanda mi riduceva in lacrime che non sapevo arginare, rispondevo secca e con la voce a un millimetro dal rompersi, finché lei mi fa: “beata te che ti sei ammalata così presto! Alla tua età ci sono ancora gli ormoni! Io ormai posso farlo fuori solo con la chemio… però io gliel’ho detto, eh, a ‘sto bastardo: o mi, o ti… ma meglio ti! E allora l’altro giorno me l’hanno anche già detto, che si è già un po’ inspigolito…”. Non si era nemmeno accorta, chiacchierando, di avermi lasciato con la bocca spalancata per non so quanto. Fortunata per essermi ammalata a quarantadue anni? COSA?
Non ci potevo credere, ma… aveva ragione. Prendo solo pillole che tagliano via al tumore il carburante di cui si nutre, che nel mio caso è fatto al 90% di ormoni. Nel frattempo, vivo normalmente, faccio una visita ogni ventotto giorni e altri esami ogni tanto. Lavoro, faccio la mia vita di sempre, cammino sette chilometri al giorno con i miei piedi, e… sto bene, cazzo, STO BENE.
Quando l’infermiera è venuta a togliermi la cannula per poi liberare la poltrona per la paziente successiva, quasi quasi non volevo andare. Avrei voluto sedermi con lei ancora un po’, perché lo scossone era stato forte e mi si era spostato improvvisamente l’asse di tutto. Ce la posso fare veramente, allora. E intanto, che bellezza stare in piedi.
Ma.
Che.
Spettacolo.
E’.
Camminare.