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Ces voix qui m’assiègent: en marge de ma peau.

martedì, 16 Giugno 2009

   Vuoi morire e vivere insieme, e pure vuoi tutto ma che sia un niente. Sei sveglia, adesso, perfettamente sveglia, ma le immagini del giorno e quelle della notte hanno esattamente la stessa sostanza. Sogni case. Case piccole, a giochi già chiusi, luoghi densi di fremiti e di forme, odori pungenti, umani intensi. Ieri era questa casa rossa, una cantoniera dell’ANAS o una vecchia stazione molisana, rosso pompeiano, che ti veniva da strusciare la pelle su ogni spigolo, con una specie di istinto da gatto senza pelo. E poi c’era qualcuno – sempre quello – che parlava, parlava, parlava. Era venuto a prenderti da non si sa dove, era notte e pioveva, lui guidava e raccontava, di un qualche teatro, qualcosa che era successa, e ti faceva ridere di cuore mentre dentro pensavi che allora lui è così, proprio così come te l’eri immaginato, forse anche meglio perché per la verità non ti eri immaginata mai niente oltre la sua voce e il suo odore. E ti era venuto da pensare a quell’altro, che invece t’aveva messo tutta quella tristezza perché era stato tutto dentro, e quindi completamente fuori, la tua testa. E così, in macchina, adesso c’era lui che ti parlava come un fiume in piena, che quasi non potevi dire una parola e ti lasciavi annegare dalla sua voce col godimento totale dei bambini… e poi a un certo punto basta, eravate in casa, nella tua casa rossa come il didentro delle labbra, e lui continuava a dire che c’era questo o quello che dovevi leggerlo as-so-lu-ta-men-te, fino a che non aveva preso quel libro rosso come la tua casa, lo aveva aperto sulla scrivania e chiesto a che pagina fosse il passo sulla non-probabilità della serie decimale. Allora vi eravate seduti a leggere insieme, finché non avevi sentito il calore di una mano su una spalla. Le parole si sono interrotte allora per un lungo momento elettrico prima di riprendere il loro corso, la loro corsa dall’imperfetto al presente più prossimo, per poi, alla fine, cadere su un nome. E’ un nome di donna, che non si sa chi sia se non che è sua. Ma intanto le parole hanno ripreso a correre, mentre fuori la pioggia martella i vetri e mentre lui ancora ti parla delle cose belle che dovresti leggere senza mai toglierti il palmo caldo dalla spalla, finché a un certo punto si alza e si allontana dicendo solo vado, sparendo d’improvviso senza nemmeno passare dalla porta. Il punto in cui stava appoggiato il suo palmo si apre allora come una finestra sulla pelle, e senza più la protezione della sua mano non può difendersi dall’arrivo di una freccia di freddo che ti colpisce in pieno, sicché dalla spalla scende verso il resto del dentro lento, vischioso come una colata di olio gelido che ti si rapprende nei muscoli fino ai piedi. Un attimo dopo senti di nuovo bussare alla porta rossa della tua casa rossa, con uno sforzo enorme vai ad aprire e lui è di nuovo lì, zuppo di pioggia. Entra e si siede, augusto ed esausto, su un angolo del letto bianco, ma adesso che è all’asciutto non smette di grondare, perché no, non è solo la pioggia quella che ha addosso, e scoprendo le spalle dalla camicia fradicia si vede che in realtà è la sua stessa pelle che… no, non suda, ma piange, versando lacrime abbondanti neanche fosse interamente ricoperta di occhi disperati. Con i gomiti appoggiati sulle ginocchia adesso lui non parla più, ha il capo chino e guarda a terra con la faccia di uno che ha fatto una fatica immensa e non ha più niente da dire, con le lacrime che ancora scendono dagli occhi invisibili sparsi sulla sua pelle rigandogli la testa, le braccia, le mani, la schiena, le ginocchia. Adesso sei tu a posargli una mano sulla spalla, a proteggere quell’apertura nuda e indifesa come lui aveva fatto con te poco prima, sebbene quel freddo oleoso non ti abbia ancora lasciato.

– Non preoccuparti, tra poco smette.

E’ solo un filo di voce che adesso ti parla, senza alzare la testa.

– Ma cosa… è successo?

ti scappa da dire, e pure d’improvviso ti è chiaro che non avresti dovuto.

– Niente… è quel nome di prima. Adesso non c’è più. Restami dentro ancora un poco, e poi mi ritiro.

– Ma…

– Sì, è vero, c’è il merci che passa tra poco.

– Già. Devo salutarti.

– No. Vengo anch’io.

– Come. Perché?

– Perché non ne posso più di questa pioggia. Questa.

sottolinea indicandosi la schiena. Poi la sua mano si apre, si porta sulla tua che ancora lo protegge, ti preme forte il palmo contro la sua spalla.

– Ancora un poco. Ti prego. Solo un poco. Poi andiamo.

Poi il silenzio si fa lungo, lungo, largo come una vita. Solo dopo un’enormità o due, si fa infine ora.

– Se vuoi venire, dobbiamo andare.

– Sì, lo sento che arriva. Ma devi riprendere i discorsi che hai lasciato. Anche di quello non ne posso più.

– Va bene. Era che avevo freddo.

– Sì, lo so. E’ colpa mia, mi spiace.

– Non importa. Andiamo.

– Sì.

– Dimmi solo una cosa, prima.

– Cosa.

– Quando finirà l’assedio?

– Mai. Per te, intendo. Sì, credo mai.

– Mi sembra equo. Ma prometti che ogni tanto ti girerai dall’altra parte. Ci sono dei momenti in cui anch’io non ne posso più. Di te.

– Perché?

– Perché come compagno di viaggio sei silenzioso, lo dicono tutti ed è vero. Ma sei ingombrante.

– E’ vero. Ma è equo anche questo. Va bene.

– Andiamo, allora.

– Andiamo.

Un momento dopo siete in cammino, in silenzio, curvi sotto una pioggia battente calda e salata come sudore. Le luci dei lampioni che illuminano la casa rossa si sono allontanate di colpo, adesso che siete in cima alla collina dove la ferrovia fa una curva si vedono bene, anche se piccole e intermittenti.
Poi, dal basso, alla vostra sinistra, nel buio inizia a salire un familiare chiasso di ferro su ferro. E’ una manciata di attimi. Passa il locomotore, iniziano i carri da legname, vuoti. Lui ne lascia passare qualcuno poi ti strattona una manica della maglietta quando decide che è il momento di iniziare a correre. Si aggrappa ad uno dei pali scuri mentre la pioggia smette d’improvviso, ti tende un braccio e con un unico, liquido movimento di muscoli salta su tirandosi appresso anche te, senza fare rumore. A cavalcioni di un palo a testa, con le gambe penzoloni fuori dal carro aperto, siete ormai andati, con l’aria caldissima che in un momento vi asciuga, ai margini del paesaggio nero. Nessuno dei due ha più freddo, il cielo ha smesso di sudare, la pelle ha smesso di piangere.

*

   Durò meno di un paio di minuti. Poi Byron giacque in mezzo al sottobosco calpestato e stroncato, sanguinando lentamente in faccia, udendo gli schianti dei cespugli continuare, cessare, svanire nel silenzio. Poi è solo. Non avverte più alcun dolore particolare, ma quel che è meglio, non avverte più fretta, urgenza, di fare qualcosa o di andare da qualche parte. Semplicemente se ne sta lì disteso in silenzio, a sanguinare, sapendo che fra un po’ verrà il momento di rientrare nel mondo e nel tempo. (…) E’ lì disteso quando sente il fischio del treno a un incrocio distante mezzo miglio.
   Questo lo scuote; questo è il mondo e anche il tempo. Si tira su a sedere, lentamente, esitando. ‘Comunque, non ho niente di rotto’ pensa. ‘Voglio dire, non ha rotto niente di mio’. Sta facendosi tardi: è di nuovo il tempo, adesso, e in esso la distanza, il muoversi. ‘Sì, devo muovermi. Devo andare avanti così riesco a trovare qualcos’altro in cui immischiarmi’. Il treno si avvicina. Già il ritmo della locomotiva, con la salita che comincia a farsi sentire, è diventato più breve e più forte; ben presto vede il fumo. (…) Si avvicina al limitare del sottobosco, dove può vedere i binari. Adesso la locomotiva è in vista, quasi gli viene addosso sotto i ritmici, forti scoppi di fumo nero. Fa un terribile effetto di non moto. Eppure si muove, strisciando terribile verso il culmine della salita. In piedi ora al margine dei cespugli, la guarda avvicinarsi e passargli davanti, faticando lenta, con l’estasiato, infantile rapimento (e forse struggimento) della sua educazione campagnola. La locomotiva passa oltre; i suoi occhi vanno avanti, a guardare i carri che, uno dopo l’altro, avanzano lenti e superano il culmine, quando per la seconda volta in quel pomeriggio vede un uomo materializzarsi come dal nulla, nell’atto di correre
.

Voce del verbo: ancheraggi

giovedì, 21 Maggio 2009

I see no life behind your weary eyes,
I see the looks you struggle to disguise.
I’ve seen all vital signs begin to slip…
… oh, it’s much too late for you to aim, you only miss.

[Paradise Lost, Host, 1999]

*

C’era scritto cancello, ma io avevo letto cervello. “Sulla strada compare un cervello, enorme, di ferro, senza muri ai lati, che pare piovuto lì direttamente dal cielo”. Ciao, faccia polacca – ti ho detto stavolta – mi sei mancato. E di nuovo nello stomaco quella cosa feroce che ti porti dietro quando mi inchiodi ai miei sogni.

– Dai, forza, raccontami cosa hai visto.
– In che senso?
– Sì, cioè… dimmi un momento in cui hai sentito qualcosa che si spezzava. Che hai sentito che lì era basta, finito.
– …
– …
– …
– …
– …
– Céa…
– Scusami. Adesso mi vengono le gambe corte, come quella volta.
– Sì, ma stai tranquilla. Se vuoi andare via stavolta ti metto giù.
– No, è che… ok, vabbuo’. Sai cos’è, che ho visto? Le pieghe delle parole, ho visto. Gli strati, cioè, quelli che si dicono e quelli che non si dicono…
– Cioè?
– Cioè sono anni che lo leggo ovunque, che gli esseri umani parlano due volte, quando usano le parole, che non è mai questione solo di quello che ti sto dicendo, ma anche del fatto che quello che sto dicendo parla del modo in cui io e te stiamo insieme, nel mondo.
– Be’, lo diceva anche il vecio, sai.
– Appunto: c’è quello che ti dico, in quello che dico, e poi c’è qualcosa che tiene in piedi tutto, anche se non si vede. Le congiunzioni, ci sono, quello strato che fa di me e di te due parole a nostra volta, due segni con in mezzo qualcosa che li tiene uniti o li separa, e pure in maniera molto precisa…
– Mmm…
– … eh, perché in mezzo a noi possono starci non solo una e o una o, ma anche una quantità enorme di altre distanze intermedie… ma, se, tuttavia, dunque, quindi, però, allora, che, pure, eppure, anzi, altrimenti, perciò, nemmeno, che ne so… tutte quelle che ti possono venire in mente. Ma anche pronomi.
– Pronomi?
– Eh, sì, i pronomi… come ti posso dire? Il grado più estremo delle congiunzioni? Boh, forse.
– Ommado’, adesso non ti seguo.
– Ma sì, pensaci! Se dico noi, è perché siamo andati oltre io e te. Se e è la distanza minima, in noi la distanza diventa zero. Non si tratta più di due persone separate, con noi, ma di un’altra cosa che non è più io e te, che però è fatta sia di io che di te. Pensaci, ripeto… a scuola cosa ti dicono che è, noi?
– Uhm… prima persona plurale?
– Esatto. Noi è una persona.
– Va bene. E quindi?
– E quindi ho visto come si può dire noi senza mai smettere di voler dire io, senza manco un altro a cui applicare una e. Ho sentito l’arte del parlare senza mai dire niente. Ho visto, te lo giuro, ho sentito che si può essere abbracciati e insieme essere spinti via con parole che vogliono dire esattamente il contrario di quello che significano. Ecco, ho visto questo.
– Uhm… hai praticamente avuto a che fare con quello che ti fa soffrire di più.
– Ecco.
– Adesso capisco perché non riuscivo più a trovarti, in questi mesi…
– E ho visto anche un’altra cosa. Che lì, al livello delle congiunzioni e dei pronomi che non si dicono ma ci sono, è quasi impossibile mentire, che sono pochissimi quelli che ci riescono, e soprattutto che pure quelli che credono di essere dei bravissimi parlatori non si rendono mai del tutto conto di quanto apertamente parlino su quell’altro piano.
– E questo t’ha fatto male, ah?
– …
– …
– …
– Céa…
– Sì, dai. Sì. Ma più che altro perché da quel momento ho iniziato a vederlo sempre, lo strato delle congiunzioni e dei pronomi. A osservarlo, poi. Allora ho scoperto che questo strato è un posto enorme, larghissimo, anche se la porta è stretta e da fuori non si direbbe.
– E lo sai che quello è il posto in cui ci incontriamo anche noi, vero?
– Sì. Infatti mi sei venuto in mente tante volte. Mi chiedevo se saresti mai tornato, dopo tutto.
– Be’, non posso mica andarmene. E comunque…
– … comunque?
– Niente, comunque io ci sono perché i sogni continuano a tenerti sveglia.
– Già. Una volta non ho dormito per quattro giorni.
– Ustia! E dopo?
– E dopo niente, mi sono rotta. Nel senso che mi si è guastato qualcosa dentro.
– Céa.
– Sì.
– Guardami un momento.
– …
– Cosa ti è successo?
– Non lo so.
– Ma qualcosa…
– … sì. Ma qualcosa è successo, e doveva pur succedere. Non si può vivere senza dormire. O almeno, io non ce la facevo. C’erano dei giorni in cui mi sentivo la pelle di vetro. Non ce la facevo più. E quando mi sono resa conto che è proprio sullo strato del non detto che si regge tutto quello che diciamo, e di che strumento potente può essere…
– … è stato lì che sei andata in pezzi.
– Sì.

*

– E comunque qualcosa è successo davvero. E’ la prima volta che non provi ad andartene, o a mandarmi via.
– Sì.
– Quanto tempo è stato? Tre mesi?
– Quasi quattro.
– Dov’eri finita?
– Ti sembrerà assurdo, ma ero su un treno.
– Tre mesi su un treno?
– Quasi quattro.
– Quasi quasi mi viene da farti i complimenti.
– No sta’ a cojonarme.
– No te cojono mica, a te. Insomma, com’è che sei andata in pezzi?
– Eh. Non so. Penso che sia stato perché dopo averle intraviste o solo sapute, le pieghe delle parole, stavolta le ho viste. E dopo… era tutto diverso.
– Uhm… è solo la vita, mi sa.
– O come quando a scuola ti spiegano i teoremi di matematica, che un po’ li capisci anche ma soprattutto ti sforzi di immaginarli, ma non è che li vedi. La mia professoressa al liceo lo diceva sempre, che la matematica è difficile da insegnare perché si tratta di far vedere l’immagine che sta dentro alle formule. Che poi, se per caso ti capita di riuscire a vedere cosa significano, quelle robe, improvvisamente la matematica inizia a sembrarti un linguaggio molto meno complicato di prima.
– Come quando impari un’altra lingua, in effetti.
– Esatto.
– E dimmi una cosa.
– Cosa.
– Adesso che non mi mandi via e che riesci a guardarmi in faccia, che congiunzione c’è fra me e te?
– Be’, se continui a fumare la pipa…
– Non è che posso smettere.
– Anche.
– Anche?
– Anche, anche.
– Strati.
– Eh.

*

Il risveglio è stato per un lembo di sole che mi stava bruciando un ginocchio come una lama arroventata. Ciao, faccia polacca, mi sono sentita dire guardando il soffitto. E’ la prima volta che sento quella cosa feroce nello stomaco anche ad occhi aperti.

*

Ferma il carro. «Vada avanti in casa», dice; è già sceso e ora la donna sta scendendo lentamente, con quella attenzione come se si ascoltasse dentro.

Save the population

giovedì, 16 Ottobre 2008

Pistol and its pawn:
sell it to the lexicon.
A pistol and its pawn
blood and border lines be drawn
.

(…)

I put my cards upon the table
I do this because I am able
One picks his broken down devotion
I threw my pistol in the ocean
.

[Anthony Kiedis, 2003]

*

 Allora succede così, che le cose che ci mettono tanto tempo a finire sembrano – e sono – infinite. Così restano nella memoria quando sono passate, così si sedimentano e si irrigidiscono strada facendo, sicché nel guardarle non finire per settimane, mesi e poi anni interi, qualcosa nel cervelletto va in corto circuito: sei finita da tanto tempo, e allora perché sei ancora qui? Porca miseria, e levati di torno una buona volta. Tuttavia, questo e solo questo è il momento che per te dà senso a tutti gli altri, quello in cui le cose finite passano al momento successivo, trasformandosi senza andare perdute, irrigidendosi fino a diventare un metàmero della storia contenuta nel recipiente di una vita.
 Per dire questo momento così a lungo in-finito ti è capitato, cosa curiosa, di dover usare il noi. Che strano. Ma neanche tanto: con tutte le persone, le città, le voci che ci sono dentro. Quello che è stato veramente buffo è stato il fatto che bisognasse includere, nel noi, anche te. Non solo loro, ma loro e te. S’è detto da solo, dicevi. Ma non è proprio esatto. Te lo sei tenuto dentro per tre anni a prendere forma, prima che venisse fuori da sé. Due anni solo per capire dove stessero le braccia, le gambe, la bocca, un altro per renderti conto che dopo tutto avrebbe potuto anche camminare. Non ne sei stata particolarmente orgogliosa, pure, come ogni volta che qualcosa che deve prendere forma si scontra con il tuo mondo così lento, così dilatato. E che sarà mai?, Perché tutti fanno presto e io no?, Come si fa?. E già: come si fa a dire questa cosa, come si fa a dire il recipiente del mondo, delle forme dell’esistenza, o peggio ancora della fantasia umana? Non sei niente, eppure era questo che avevi nel recipiente della tua testa, niente di nuovo, ma ti piaceva vederci qualcosa di umanamente condivisibile. Qualcuno, tanto tempo fa, ti disse: pensa di doverla comunicare a qualcuno del Burundi. Ora dal quadrato alto del finestrone sotto il tetto la luna inonda la coperta sotto la quale la tua anima lavora per fare, per farsi continuamente, e pensi che quel signore del Burundi non lo raggiungerai mai, e purtuttavia quello che volevi dirgli lo hai detto: guarda, fin da tempi di cui non esiste più memoria, io e te mettiamo insieme le nostre storie nello stesso, identico modo. Ha un senso? Non lo sai ma, come accade per i sogni, il senso non è il punto centrale della questione. Il punto, il senso è il recipiente, e il momento in cui si svuota per poi far posto a quello che lo riempirà dopo, o quello in cui il prima e il dopo vi si trovano mescolati insieme in un impasto che non è più prima né dopo, ma qualcosa d’altro che prima non c’era. Oltre a questo, il resto non ti interessa granché. Quel recipiente di cui hai scelto di parlare è la cosa che più intimamente senti tua, e adesso è lì, nuda, tra una citazione e una nota a piè di pagina, nella forma di quell’odiato corpo quattordici, ormai in-finito anche quello insieme a tutto il resto. Questa fine infinita l’hai parlata, l’hai scritta letteralmente in somnus: insonne, in sogno, cioè nel solo modo e nel solo mondo che conosci per dire e salvare la sostanza di cui è fatto quel noi, del quale tu sei stata nient’altro che un paziente, capiente, ma pur sempre vuoto contenitore.

Madre, pasta.

venerdì, 26 Settembre 2008

Non c’erano virgolette, stavolta.

 Siamo arrivati in un giorno d’estate, col sole che brucia persino sulle punte delle dita. L’asfalto incrocia i binari e lì finisce: dopo, solo un’immensa piana di campi gialli già falciati, stoppa abbacinante quasi bianca, che pizzica gli occhi. Due ci guardano sul ciglio della massicciata, ci fanno segno: cercate qualcosa?
Indichiamo le colline alla nostra sinistra: di là. Vogliamo andare di là.
E dice uno dei due: allora voi adesso tornate indietro, prendete la sterrata che sale dopo la stazione e ci arrivate.
Grazie, ma veramente noi cerchiamo solamente la ferrovia. La stazione.
La ferrovia.
Essì.
Allora fate così, arrivate a quel casello, lo vedete?, e fatevi caricare dal prossimo macchinista che passa. Diteglielo, però, dove dovete scendere.
Ah, bene. Grazziassai!

Ci allontaniamo nell’aria e nella terra polverosa senza sudare, no, c’è solo la schiena che brucia in questa enorme padella infuocata senza riparo. Mi indica il casello bianco, pare la Grecia – o Sperlonga, dai. Non c’è marciapiede, ci sbracciamo quando passa uno strano merci, una littorina dell’Alifana che traina un rimorchio per il trasporto della legna vuoto, messo così pare un trattore con il carro vuoto che cammina sui binari.
Ci fate montare?, dobbiamo arrivare là.
Ma ci dovete andare con la macchina, giovani, da qua s’arriva solo alla stazione. E indica in basso, sulla piana.
E lo sappiamo, e là che dobbiamo andare.
Ah, e allora perché indicate il paese?
C’avete ragione, è che la stazione e il paese si chiamano tale e quale.
No, veramente la stazione dopo il nome dice scalo. Comunque saglìte.
Grazie.

Attenzione ai piedi, mi dice.
M’abbraccio al palo, nun te preoccupa’.

Il treno attraversa la distesa secca della pianura biancagialla senza fare rumore, senza fare fumo, anche se la littorina sarebbe un diesel. Ma dico, sai che questo posto me lo ricordavo diverso?
Be’, vediamo fin dove ci porta.

Quando le colline si avvicinano non so che succede, cominciano le prime case e spariscono i colori, il paesaggio diventa un rullo in bianco e nero sovraesposto che scorre, scorre, scorre.
Ma le figure si muovono, eh, mi fa lui indicando le persone per le strade e alle finestre.
Ma come siamo vicini alle case, però…

A un certo punto non metto più a fuoco, il treno mi fa scorrere di lato alle cose ma gli oggetti e le facce mi sfuggono, mi sfuggono, mi sfuggono senza più contorni precisi nel bianco della pellicola, finché

Guarda! Guarda lì dentro, c’è un forno.

E’ una vecchia cascina diroccata, senza tetto e senza più infissi, pure lei bianca, di pietra e di farina si direbbe. C’è uno, sulla soglia senza porta, con in mano una pala di legno enorme, grembiule e mani bianche. Alzo la mano per salutarlo e mi torna indietro un sorriso sdentato, con un gesto della mano mi invita a guardare verso il muro esterno con uno sguardo tipo: vuoi?
E ci sono questi pani, in effetti, lunghi e grandi, allineati contro il muro come su una rastrelliera gli attrezzi agricoli, hai presente, e questi pani sono dorati, mostruosamente grandi e dorati, con gli spacchi diagonali della cottura che fanno tutti i pani arrotolati, e il loro è l’unico colore che si vede tutt’intorno.
E mi ricordo, dico, adesso mi ricordo! Fattene dare uno!, gli grido, e lui allunga la mano fuori dal carrello tenendosi ad un palo, e il fornaio con un gesto veloce carica sulla pala un tozzo che tiene lì vicino e glielo allunga a sua volta. Assaggiate, intanto, dice, e il treno è passato, siamo passati noi ed è passato anche lui, che lo vediamo allontanarsi alla deriva coi suoi pezzi dorati e la sua casa bianca. Ci saluta con la mano bianca, pure.
Quando mi volto verso di lui sta già masticando, e mi investe un profumo di cenere e mollica calda, ancora umida di forno.
Passa qua, per favore… com’è?
Mngfwff.
Oh. Questo, lo sai, è il primo ricordo della mia vita.
Pane?
Questo pane. Di crìscito.

E poi ho pianto.

Corduroy (come se) – 1

mercoledì, 17 Settembre 2008

Stazione di Mestre stazione di Mestre
è in arrivo al binario numero sette
il treno locale per Piove di Sacco Adria
è arrivato al binario numero nove
il treno proveniente da Udine Pordenone Treviso
parte dal binario numero tre
il treno per Portogruaro

Por-to-gru-a-ro

Portogruaro va zo par ‘na riva longa piana
piena de piere e de piante
treno
sbrissa el se ingàmbara
ai primi passi sui sassi ch’el trova
le case va zo de rodolon
fin squasi al mar e là tac
le se ferma par no bagnarse

Le se senta le se sente lontane desperse
pai calighi d’inverno
fra mezo le cane de soturco
co el sol le bogie e le brusa
Portogruaro se slonga se destira se slanguorisse
se impenisse se svoda d’aria
deventa piata come ‘na cordela
bianca de bombaso
se schinsa come un platelminto
ne l’intestin de un can
Portogruaro xe ‘na strica d’aria verde
che se posa leziera
par tera
Sarà vero?
Mi no go mai visto Portogruaro
ma là ‘desso de çerto tuto xe muto
se perde se sfanta
te incanta
Portogruaro gruaro gruaro

[Ernetsto Calzavara, da Analfabeto, 1979]

*

– Ciao, neh.
– Ue’. Ciao.
– Dove te ne vai oggi?
– A Venezia.
– Questo ci mette tanto, fa tutte le fermate.
– Eh, lo so. Ho da leggere.

Sbircia il libro aperto, sorride.

– …
– …
– Che c’è?
– Niente. Aspetto. Leggo.
– Con quella faccia?
– Eh, questa tengo.

Si guarda intorno, a lungo.

– Però è vero che qua tuto se slanguorisse.
– Sarà ‘sto cielo bianco.
– El siroco.
Deventa piata come ‘na cordela bianca de bombaso.
– Madona, come che te vien male.
– Faccio del mio meglio.
– Eh…
– Uffa. Prova tu a dire acàlame ‘e parole p’ ‘e scippacentrelle ‘e chistu munno, e poi vediamo.
Scippaceche?
– Ecco. La scippacentrélla è una caduta, di quelle brutte proprio, che letteralmente ti scippa, ti strappa, le centrélle, cioè i chiodi dalle suole delle scarpe.
– Non ci sarei mai arrivato! Sci-ppa-ce… ‘speta, ma quello che hai detto che cos’era?
– Parole di uno delle mie parti.
– E come fa?
– Aspe’, te la scrivo. Così fai del tuo meglio anche tu, e io ti posso dire "comme te vène brutto!".
– No, vabbe’, ma scherzavo…
– E pur’io scherzo.
– Con quella faccia?
– Sempre questa tengo, non è che me la posso cambiare. To’, eccotela qua.
– Oh!

Legge, per un momento completamente assente.

– Non ci capisco quasi niente… che vuol dire acàlame?
– Significa calami, fai scendere verso di me.
– Nel senso che?
– Nel senso che da noi c’era l’uso di passarsi le cose da un piano all’altro dei palazzi con la corda e il cesto. E veramente si usa ancora.
– La sporta?
– Esatto. Quando uno dice così credo che in testa stia vedendo la mamma o la nonna o la zia che gli fa scendere il cesto dalla finestra o dal balcone.
– Ehi! Ma questa somiglia a…
– Essì.
– Dai!
– Bra’.

"Il treno. Regionale. Delleore. Docici. E ventitré. Per. Venezia. Santalucia. E’inpartenza. Dalbinario.Tre. Ferma in tutte le stazioni".

– Eccolo. Vabbuo’, fuma di meno che ti fa male. Ci vediamo.
– Eh. Oh, ‘desso ti fa la poesia al contrario.
– E stasera nel verso giusto, non ti preoccupare.
– Statti bbuona, va’…
– ODDIO!
– Perché, come si dice?
– No, le parole vanno anche bene, è la pronuncia che non… prossima volta, dai, sennò perdo il treno. Màstegala, intanto.
– Va ben. Com’è la e di saglienno?
– Aperta. Sagliènno. E toglici un po’ di o alla fine. Ciao!
– Sani!

Voce del verbo: aspetta(tiva)

sabato, 23 Agosto 2008

Io sono Settequaranta
signore di demanio
protettore di sale d’aspetto abbandonate
.

*

C’è qualcosa nei tuoi colori che mi rattrista. La pelle pallida, gli occhi appena emersi da chissà quale fondo di lago, la faccia polacca che il più delle volte non so capire, e oltre a quelli il profumo di tabacco che quella volta, nascosta dietro la tua spalla destra, pensavo: lo perdo, questo lo perdo – e invece senza saperlo me lo sono piantato, intatto, in quel naso affamato che mi ritrovo. E’ un languore feroce quello che mi fai venire, peggio di una separazione acchissaquando, solo che non è quando te ne vai che mi prende, ma non appena arrivi.

*

Aspetto qui. C’è questa sala fatta apposta, che visito ogni volta che avverto il bisogno di sentire il tempo che scorre, tempo che scorre e basta. In un modo o nell’altro, talvolta ho bisogno di sedermi da qualche parte e vedere cosa succede, indipendentemente dal fatto che debba poi mettermi in marcia o meno. E siccome è nelle stazioni che ho imparato questa cosa che credo si chiami aspettare, da quando ho trovato questa stanza che un qualche capostazione ha voluto conservare così com’era quando si usava ancora sedersi accanto a qualcun altro su queste lunghe panche senza che necessariamente ci fosse un bracciolo, o una roba qualsiasi a separare e delimitare lo spazio che spetta a ciascun corpo, ciascun paio di chiappe – da quando l’ho trovata, dicevo, ci vengo ogni tanto a lasciare che il tempo si metta a scorrere tra le mille cose da fare. Come adesso, che sono una bambina, e aspetto. Quando sono tornata bambina non lo so, ma è certo che lo sono perché sto qui a guardarmi le gambette che penzolano dalla panca e non arrivano a terra e anzi, sono così lontane da terra che qualcuno deve avermici issata, quassù. Non ho neanche niente da leggere, e a dire il vero non so nemmeno se ho già imparato, a leggere. Sto sul fondo della saletta, a un capo di questo tavolone col piano di marmo ghiacciato anche se siamo in piena estate, e guardo i treni e le persone che passano appena fuori dalla membrana della porta che dà sul binario uno, direzione Gemona, e sono invisibile al di qua di questa porta aperta oltre la quale nessuno sbircia, e che nessuno attraversa. Sono io ma bambina, aspetto una data ma non è un appuntamento, ho tutto il tempo del mondo. Sto qui, passa il tempo, i viaggiatori, i macchinisti, sto qui e non so nemmeno se so leggere oppure no.

*

Aspetto qui, sono bambina, guardo fuori, è un sogno che riemerge un poco alla volta. Ho sulla mano, nella piega fra due dita, una vescica da scopa che sta diventando callo, e sul tavolo ci sono sparsi tutti i libri da cui non vedo l’ora di separarmi. La luce fuori è limpida e fresca, stanotte deve aver piovuto molto e io non so leggere, no, questo adesso lo so, e sono bloccata qui, se tentassi di scendere da questa panca da sola finirei con lo spaccarmi qualche dente. No, dico, ma chi mi ci ha messa qui?
Poi la luce che viene dalla porta si oscura e per un attimo è buio.

– Sono stato io.
– Perché?
– Perché con quelle gambe lì non puoi andare da nessuna parte, per una volta.
– E allora?
– Allora per una volta non mi pianti in asso.
– Non mi piace tanto, stare con te. Mi fai venire male alla pancia, certe volte.
– Si vede che sei innamorata.
– Si vede che è meglio che stai zitto.
– Comunque non ti inquietare, a nessuno piace stare coi morti.
– Ma tu non sei…
– Mh, può darsi.

Sempre a fumare la pipa, stai. Sei un uomo di pazienza. E quel cappello, sempre lo stesso. Guardi fuori, sui binari, dall’altra parte del mondo.

– Ti piace qui, vero?
– Be’, sì.
– E’ per questo che ti ci ho portata. Per lo meno possiamo parlare in un posto che ti piace.
– Che ho fatto, stavolta?
– Hai visto il mio nome scritto sul cippo dei tuoi caduti, vero?
– Hhhhh…
– Non ti angustiare, di questo periodo dell’anno è normale. Pensa se invece di me incontravi lui.
– Be’. A lui le stazioni non stavano tanto simpatiche, se è per questo.
– Già, è vero, queste sono roba tua. Quali erano i posti suoi?
– I campi di volo. E il pizzo di una collina.
– Ah. E quando sarà il momento ce la farai?
– Sì.
– Sicura?
– E’ già da un po’ che ce la faccio.
– Mh. Ma guardati.
– Cosa.
– La tua prima ruga.
– Dove?
– Qua, sul labbro superiore.
– Ah. E’ normale, penso.
– In effetti. Cèa, ti ga pure i cavei bianchi.
– Appunto.
– Allora era ora.
– Eh.
– ‘Scolta.
– Dime.
– Me non mi dispiace, di stare coi tuoi morti. Lasseme là.
– Ma…
– Coi morti si parla in certi casi più volentieri che coi vivi, anche se può non sembrare.
– Mbe’, questo è vero.
– In certi casi.

*

Restiamo così: io che non posso andare da nessuna parte, tu che guardi fuori, dove si intrecciano passi. Arriva, tranquillo, il suono della campanella del passaggio a livello, con l’incedere quieto delle cose che si ripetono uguali da secoli, nei secoli.

– Amen.
– Eh?
– Ho sentito quello che stavi pensando.
– Ellamado’.
– Capita.
– …
– Senti.
– Cosa.
– Qui ormai non entra più nessuno, te ne rendi conto?
– Eh…
– Non siamo solo ai margini, di ‘sta rete di ferro e carne. Siamo ancora più lontani.
– Lo so. E’ da un bel po’ che è così.
– Ma che hai combinato?
– Niente. Basta non fare niente, e succede da sé.
– Cosa?
– Che in questi posti non ci entra più nessuno, che si resta da soli sui binari.
– Ed è bello?
– Non lo so, se è bello, è solo che a me piace così. Quando era affollata, questa saletta, a un certo punto si soffocava. Ma non era nemmeno questo, a dire il vero.
– Cioè?
– Hai presente quando sei in treno e in un vagone ti capita che c’è qualcuno che strepita, sbraita, fa casino e dà fastidio un po’ a tutti?
– Come no.
– Ecco, e nessuno gli dice niente perché non ha voglia di litigare e pensa "magari smonta alla prossima"…
– Sì.
– … e magari invece non smonta mai e anzi, a furia di spintarelle e gomitate finisce che arriva fin nella cabina del macchinista.
– Azz’.
– Ecco, quando si affolla c’è questo rischio. Quello, quello non mi piaceva.
– Eh, ma non puoi chiudere una sala d’aspetto per questo.
– Lo so, lo so, mica dico questo. Qua è demanio, mica è mio.
– Brava. E allora?
– Allora, niente, sto solo dicendo che per via di ‘sto carattere di merda che mi ritrovo mi piace di più adesso. Mi piacciono di più i treni e le stazioni dove ognuno se ne va tranquillo dove gli pare, negli orari e col passo che gli vengono più naturali. E poi non è vero che non ci viene proprio più nessuno…
– Be’, anche quello non lo puoi mica fermare, viaggiatori ce ne sono ancora e ce ne saranno sempre. E pure discreti.
– Eh. E poi ci sono quelli come te, che vengono e parlano per tutti perché non sono veri.
– Ma bojacan! Perché dici sempre che non sono vero?
– Perché non lo sei.
– Può darsi. Però a volte ho l’impressione persino di ricordarmi la tua faccia.
– Non è possibile. La sola volta che ti ho parlato l’ho fatto per bocca di qualcun altro, tant’era lo scuorno.
– Codarda.
– Tieni ragione da vendere, uaglio’.

*

– E adesso?
– Adesso cosa?
– Che si fa?
– E, e che ne so. Non so leggere e non ho le gambe per scendere da ‘sta panca.
– Guarda che io non ti metto giù, sai.
– Non avevo dubbi. Eh… e se speta, allora.
– Se speta, mh.
– E cossa te speti tu ti?
– Boh. Niente, credo.
– Niente proprio?
– Niente. Tanto solo qua può succedere.
– Cosa?
– Che uno può mettersi a spetar niente.
– E anche a spetarse, niente.
– Anche.
– Tuti i dise che i no se speta niente, e poi son li a spetar calcossa.
– Eh.
– Tipo che ti te move.
– No, non penso. Nessuno aspetta che un altro si muova e basta. In genere uno si aspetta che un altro si muova verso di lui.
– Mh, quindi no va ben moverse e basta.
– E no.
– Mh. Treni?
– No, viaggiatori. Il treno è solo un mezzo.
– E quelli che vogliono guidarlo, il mezzo?
– Se non sono macchinisti? Brutta roba.
– I fa sconquassi.
– Avòja. Dico: ma lasciarsi portare dal treno, qualche volta?
– E star tutti insieme nel vagone, magari anche.
– Sì, ma tranquilli.
– Lo sai che anche questo succede solo qua, vero?
– Sì, sì. E un po’ mi dispiace.
– Te dispiase d’insognar, miga?
– Ma no. Si sogna così bene, ognuno il suo, nei vagoni. Quando non c’è uno che vuole mettersi al comando dei sogni e del viaggio del treno intero.
– Dodé-scadén.
– Tutùm-tutùm.
– Pare un cuore che batte, il tuo.
– Il tuo fa rumore di ferro cinquanta.
– E’ che io ci stavo sopra, e tu lo guardavi passare.
– Personale viaggiante e non.
– Eh.
– Eh.
– …
– …
– E nelle sale d’aspetto?
– Niente. So’ n’altra cosa, quelle. Si sta come gente che aspetta un treno in una fermata che è stata soppressa, e però non lo sa.
– Coi culi attaccati a quelli degli altri.
– E si guarda fuori.
– E i se conta robe.
– O si sta zitti, fumando la pipa.
– Come viene?
– Come viene.
– E se speta.

*

– ‘Scolta… dove ci rivediamo prossima volta?
– In zona tua, penso.
– Eh, ma dove?
– Dove il treno… com’era? Sbrissa? Se ingàmbara?
– … ai primi passi sui sassi ch’el trova!
– Ecco.
– Lì?
– Lì, .

Forget – what you don’t know yet

lunedì, 14 Luglio 2008

Questa notte ho fatto un sogno strutturato a Matrioska.

[Elio e le Storie Tese, 2003]

*

Ti odiavo. Con la gola che mi faceva male per la rabbia, a tavola, parlavo col diaframma e con ogni fibra del mio corpo, facevo alla mia famiglia l’elenco delle tue menzogne, tu eri ospite e sedevi con noi e non potevo sopportarlo, non potevo sopportarti seduta lì e loro con gli occhi bassi senza il coraggio di mandarti via a ceffoni, a sputi, a coltellate, senza il coraggio di dire niente, e quelle facce come a dire, a me: ma ti pare il caso proprio adesso?
E tu, poi, seduta lì tranquilla finché a un certo punto non hai detto, calmissima, senza alcuna inquietudine: "ma cosa stai cercando di fare, per caso stai provando a mandarmi via? Guarda che non ci riesci mica, non hai idea di quante volte sono stata nella sua stessa stanza senza che lui lo volesse, non pensare di riuscirci tu adesso".

E’ stato allora che mi sono alzata in piedi, con la forchetta stretta in mano, e che ho preso a gridare NO, E MO’ BASTA, NON LO SOPPORTO, IO NON POSSO SOPPORTARE LA TUA PRESENZA IN CASA MIA, NO, ANZI, IN CASA DI MIA MADRE, CHE’ IO QUA NON CI ABITO PIU’, NON SOPPORTO SENTIRTI APRIRE LA BOCCA, TE NE DEVI ANDARE, ADESSO.
E mia madre che non mi guardava nemmeno, gli occhi fissi sul pane a pezzi accanto al piatto, e MA ADESSO TI FACCIO A PEZZI IO, ho detto con i muscoli siringati di una fòja che mi sfuggiva come un conato di vomito, TI FACCIO A PEZZI CON LE MIE MANI, CHE STAI QUI QUANDO DOVRESTI SOLO SPEGNERTI DI VERGOGNA, TERRORISTA, CHE MO’ NESSUNO TI DICE PIU’ NIENTE PERCHE’ HANNO PAURA, SEI CONTENTA, EH, MA IO TI FACCIO A PEZZI, LO SAI, TI FACCIO A PEZZI, TI FACCIO A PEZZI, TI FACCIO A P….

*

– … ehiehiehi.
– hhhhhhhhhhh!
– Respira, ue’, respira…
– hhhhhhhhhhhh…
– Piano, piano…
– hhhhhhhhhhhhh…

Il volto in fiamme, ti sei sentita sollevare per le spalle. Buio. Stavi co’ ‘sti pugni stretti stretti e non sentivi l’aria intorno.

– Chi è che vuoi fare a pezzi, ne’?
– Oddio, oddio….
– Tranquilla… tranquilla…
– Eeeehhhh….
– Allora, con chi ce l’avevi?
– Non… lo so… le bugie…
– Eh?
– Le bugie… a tavola con noi tutti i giorni… ma era… chi era…
– Ma che dici?
– …
– Avevi le braccia tese in avanti, te ne sei accorta?
– Non… so…
– Senti, tu mi devi fare un favore: dedicati di nuovo ai viaggi. O a Caserta, anche, come ti diceva Manuela.
– Eh, ma mo’ che c’entr…?
– Insomma, di’ alla tua anima di lavorare di meno.
– …
– No, sai, così per lo meno la notte si dorme.
– Uff’, mi dispiace di averti svegliato…
– Svegliato? Ma no, figurati, guarda che sono andato al lavoro più di un’ora fa.

*

Apre gli occhi, d’istinto la mano s’allunga verso il cuscino accanto.
Vuoto.
Interno giorno.

Voce del verbo: apro(sessia)

martedì, 20 Maggio 2008

E’ un attimo rimasto sulla carta. C’era questo pomeriggio brutto, di pioggia appena finita e di fresco, di umori cattivi e silenzi violenti, che tu eri due stanze più in là a litigare al telefono con la tua ragazza e io di qua con quattro pastelli e la finestra spalancata sul sole che tramontava su questo pezzo di Friuli, che dopo un’ora di porte chiuse mi ero dimenticata di te e parlavo e cantavo come quando intorno non c’è nessuno. Eri vicino e non ti sentivo, non ti sentivo più, la mano ricopiava la finestra e non sentivo più nemmeno lo scarabocchio, dov’ero un anno fa, stavo pensando, mi pare, e mi vedevo dentro una canzone piccola, di treni e di sola andata. La paura che mi hai fatto, nel sogno appena iniziato, bastardo come un gatto: manchi di attenzione per i contorni, però.

Stronzo. Uno già non sa disegnare.

Σκιᾶς ὄναρ ἄνθρωπος

martedì, 13 Maggio 2008

Uno, due, tre, pianeti, dimensioni, voci, sensi, forse, perché, è, cos’è, un tordo qui sul tetto che canta con me. Se suggerisco una risposta, è quella che mi è stata suggerita e sconnetto, sconnetto, i segni dai sensi se scrivere è rimestare nel calderone dei sogni come sognare è rimestare in quello delle immagini. Cambio carica alla penna e il tempo scorre sereno. Che strano. Cosa c’è di strano nel sentirsi tranquilli, al mondo? Nel sogno fa freddo, annoto, annotta, soppeso la penna, nei capelli odore di petrolio e fuori due bestie che litigano, non si capisce se cani o gatti. Pensiero: la doccia adesso o dopo? E poi vorrei sapere. Non so cosa, ma vorrei proprio sapere.

Mirror (writing)

lunedì, 25 Febbraio 2008

Seduta di traverso in corridoio, parlavo al telefono e insieme sentivo frusciare qualcosa dietro la porta di casa. Finita la chiamata, ho riagganciato e per un secondo mi s’è fermato lo sguardo sulla cornetta verde, quando mi sono voltata di nuovo verso il bisbiglio mi avevi aperto la porta. Scrivevi qualcosa seduto sul pianerottolo, con un filo di fiato seguivi quello che la tua mano tracciava sul foglio. Avevo paura, stavo immobile davanti alla porta spalancata e ti sentivo e non capivo. C’era questa porta di legno chiaro, un intrico di rami di edera scolpiti in cui potevi passare facilmente le braccia. A un tratto mi sono precipitata a chiuderla ma tu, ridendo del mio terrore, hai allungato una mano dentro e hai fatto ciao. Allora ho preso un tagliacarte affilato cercando di pungerti ma le tue mani scappavano via comparendo prima vicino ad un ramo e poi all’altro ma sapevi che non volevo farti male, non riuscivo a prenderti e con un mezzo riso quasi di compassione m’hai dichiarato inoffensiva. E mi sono arresa. Stanca, mi sono seduta davanti alla porta chiusa per modo di dire e da lì con una fatica – o una resa – infinita ho trovato la forza di guardarti gli occhi liquidi e verdi attraverso il miele del legno e dire solo:

– Alessa’, ma che t’ho fatto di male stasera?

Con quella tua voce emiliana bassa, brutta che pare che viene da una voragine hai detto continuando a scrivere:

– Niente.
– Ah. E perché,allora?
– Il bombardamento.

Come fosse qualcosa di cui avrei dovuto ricordarmi. Ho aperto la porta senza alzarmi e ti ho trovato seduto a gambe incrociate esattamente come me, dall’altra parte della soglia, con un quadernino sulle ginocchia e una penna in una mano con cui giocavi puntandotela qua e là sul viso. Hai alzato un sopracciglio come a dire: eh, era ora. E mi sono ricordata di una cosa.

– Aspe’, ho una cosa che ti volevo dare da un sacco di tempo, te la conservo tipo da ottobre dell’anno scorso.

Non hai alzato gli occhi dal quaderno, ho allungato il braccio fino al tavolino lì accanto. Doveva essere una castagna matta e invece avevo in mano un melograno. Piccolo piccolo, maturo e rinsecchito, di quelli che vengono fuori da quella pianta che mia madre tiene in vaso sul balcone. Quando mi sono accorta che non era quello che pensavo l’ho nascosto nel pugno chiuso, senza dartelo. L’hai guardato di sfuggita con indifferenza:

– Mmmh, no. Solo sangue vero, in questo spettacolo.