Articoli marcati con tag ‘il gene malo’

B9

giovedì, 1 Luglio 2021

E’ una giornata splendida: vento di tramontana estivo, sole, odore di temporale appena passato. Se trovo l’infermiera Ivana nella stanza di ricerca per il prelievo, poi, le prime parole della giornata sono leggere e gioiose, e sistemano il sapore di tutta la mattinata. Faccio il prelievo, mi piantano la cannula per la TAC di mezzogiorno, vado in sala tamponi Covid e dietro di me sento dire buongiorno in un accento talmente familiare che quasi aggredisco la ragazza alla quale appartiene: Ercolano, marito militare, un bimbo di cinque anni, vive qui da sette. Lei è senza capelli, fa le terapie che forse un giorno toccheranno anche a me. Pare ci sia quasi sempre un momento, in questo cammino, in cui si diventa magre e opache, una fase necessaria e che alla fine salva la vita, ma, appunto una fase. Quando ci penso sento le mie fibre vibrare, come se qualcosa dentro immagazzinasse questa nozione un pezzettino alla volta, quasi a volersi preparare, da un lato, e dall’altro mettere davanti al tempo presente una lente che esalta, decanta, letteralmente magnifica lo stato attuale delle cose.
Ci si incontra tra i corridoi, tutte diverse e uguali, e a ogni scambio ci si saluta con l’angolo di prospettiva spostato. Che strano. Fuori non tutti gli scambi sono così densi… o almeno, così mi pare oggi. Il contesto è la maggior parte del messaggio, qui è particolarmente evidente.
Come quella volta a febbraio: erano i primi mesi, non capivo, non sapevo, muovevo i primi passi in questo nuovo ambiente che cercavo di decifrare con in testa solo una domanda, una sola, quella che investe come un tram in faccia tutti quelli che ricevono una diagnosi come la mia (quanto mi resta da vivere?), sconvolta per essermi ammalata così giovane, e con i bambini ancora piccoli. In sala terapie, alla mia prima flebo di acido zoledronico, nella poltrona accanto alla mia sedeva lei, la signora delle orchidee, come l’aveva chiamata l’infermiera presentandomela. Già che c’ero, dovevo fare anche un’iniezione, e dopo aver tirato giù i pantaloni ci si mette poco ad attaccare bottone, no?
E allora niente, lei sessantotto anni, al quinto ciclo di chemio, con le borse del ghiaccio su mani e piedi, una stanza di fiori INCREDIBILI che mostrava fiera dallo smartphone a chiunque si trovasse a passare, che mi chiede tutto, tutto… e quanti anni hai, hai bimbi (sempre primo pensiero, in questo percorso di tumore che tocca alle femmine), e quale terapia, e che grado, e cosa c’è nella tua sacca. E io, che allora viaggiavo ancora sul filo del terrore, che ogni domanda mi riduceva in lacrime che non sapevo arginare, rispondevo secca e con la voce a un millimetro dal rompersi, finché lei mi fa: “beata te che ti sei ammalata così presto! Alla tua età ci sono ancora gli ormoni! Io ormai posso farlo fuori solo con la chemio… però io gliel’ho detto, eh, a ‘sto bastardo: o mi, o ti… ma meglio ti! E allora l’altro giorno me l’hanno anche già detto, che si è già un po’ inspigolito…”. Non si era nemmeno accorta, chiacchierando, di avermi lasciato con la bocca spalancata per non so quanto. Fortunata per essermi ammalata a quarantadue anni? COSA?
Non ci potevo credere, ma… aveva ragione. Prendo solo pillole che tagliano via al tumore il carburante di cui si nutre, che nel mio caso è fatto al 90% di ormoni. Nel frattempo, vivo normalmente, faccio una visita ogni ventotto giorni e altri esami ogni tanto. Lavoro, faccio la mia vita di sempre, cammino sette chilometri al giorno con i miei piedi, e… sto bene, cazzo, STO BENE.
Quando l’infermiera è venuta a togliermi la cannula per poi liberare la poltrona per la paziente successiva, quasi quasi non volevo andare. Avrei voluto sedermi con lei ancora un po’, perché lo scossone era stato forte e mi si era spostato improvvisamente l’asse di tutto. Ce la posso fare veramente, allora. E intanto, che bellezza stare in piedi.
Ma.
Che.
Spettacolo.
E’.
Camminare.

B33

venerdì, 25 Giugno 2021

C’è vento dopo il temporale di stanotte, e pochi umani in sala d’aspetto. Una luce prepotente, un televisore acceso sui reflussi gastroesofagei morali del mondo di fuori, e intorno voci sommesse che parlano di sonno che non arriva, di mercato, di bambini. Si sente un qualche conduttore di programmi mattutini parlare di miracoli, di mano divina, di essere circondati di amore da lassù, mentre in sala, in egual misura, sopra le mascherine si vedono occhi che si inumidiscono o che roteano dopo un vistoso no della testa.

Ho sonno, ho bisogno di dormire anch’io, signora, stamattina devo fare questa flebo che l’altra volta mi ha allettata per tre giorni e spostato di una tacchetta la soglia di ciò che sembra importante, non so in quale direzione. Star bene. In piedi, in forze anche solo per lavare i piatti, per fare due passi in giardino… oro. Una scintilla quotidiana, adesso, si è accesa a illuminare ogni gesto, in contrasto col buio di quando manca.
Passerà anche questa, lo so, e non mi fa più tanta paura come prima, e pure nel frattempo temo, temo e faccio del mio meglio per arginare la preoccupazione. Avverto anche un grande senso di mancanz… o essere manchevole, forse, verso Lui che mi sta accanto e per il quale dovrei… non lo so cosa dovrei, ma mi sembra di essere sempre in difetto. E’ che questa malattia prolifera effettivamente in tutte le direzioni, si infila anche sotto le lenzuola, e le metastasi che ho nelle ossa me le ritrovo anche nello scheletro stesso della vita a due, a quattro, e fuori.
Un’altra forma di paura, dopo quella strettamente legata alla sopravvivenza: ce la farò a dare una vita quanto più possibile normale a chi condivide con me questo pezzo di strada?

Plot twist

venerdì, 4 Giugno 2021

Cosa farò di questo spazio?
Sono mesi che lo guardo vibrare il suo vuoto, con la vaghezza di un desiderio sempre nello stomaco: tornare, rientrare, ri-lanciare parole qui, dentro, sotto, ché ora il Segno ribolle nello spazio a margine delle attese, delle sale che abito mentre aspetto la prossima visita, il prossimo esame, il prossimo liquido di contrasto.
La malattia è entrata nella mia vita, sì. E’ cancro, carcinoma, metastasi, di tutto un po’. In verità, chissà da quanto tempo c’era e non lo sapevo, la contenevo nel silenzio, eppure. Diciamo che adesso è entrata anche nel linguaggio perché so che esiste, come tipicamente accade all’umana specie in luogo di qualsiasi passaggio di livello logico: non solo ho paura, ma so di provare paura, perché ho dato un nome al pericolo.

Diventerà un diario della malattia, questo spazio?
Tanto non c’è più nessuno qui, mi dico spesso. Mi sento quasi quasi al sicuro, in questo indirizzo che un giorno penso di lasciare ai bimbi per dire loro: mi troverete lì, se vorrete.
E’ anche che ho bisogno di un posto dove versare, insieme alle parole, il terrore e i tremori che mi inseguono ovunque, al di là della soglia del razionale, al di là del fatto che probabilmente c’è una via di guarigione da tutto questo, che sono in ottime mani, che gli esami sono buoni, che fisicamente sto anche bene e sto continuando la mia vita di sempre, anzi forse la sto anche migliorando.
Ne verrò fuori in qualche modo, dico sempre a tutti, è un po’ anche un training autogeno mentre sotto ribolle un magma che non sempre riesco a controllare… così ho scoperto che mi fa bene trovarmi un fiume, un lago, anche solo un canale dall’acqua vivace, sedermi e lasciar andare via nella corrente quello che non riesco a spiegare. I muscoli se ne vanno per fatti loro, a momenti non so più se sto singhiozzando o vomitando, ma immancabile arriva poi il momento in cui sento qualcosa che si spezza, e il fracasso di frantumi grossi mi sveglia d’improvviso e mi ritrovo la faccia gonfia, gli arti sfiniti e le spalle più leggere.