Articoli marcati con tag ‘idioma o idiozia’

(di) Vertenti

domenica, 3 Giugno 2007

– Blablablablablablablablablablablabla…
Sì, perché poi blablablablablabla
– Eh, hai capito? E mettici anche il fatto che blablablablablabla!
Eh, no, perché poi a quel punto…

(spengo la macchina, alzo il piede dal freno, mi giro verso di lui)

– … e allo’? A quel punto cosa?

(la macchina fa un leggero movimento all’indietro)

Oh. Perché non metti il freno a mano?
– E nu mument’, stiamo ancora parlando, o no?
Aaaaaaah, e tu mi devi scusaaare, non lo sapevo che ultimamente avevi preso l’abitudine di tirare il freno a mano coi denti!

(umpf)

Concentrazione (rituali pre-partenza)

mercoledì, 30 Maggio 2007


Look at what I have found:
a seashell in a sea of shells.


[Dredg, Planting  Seeds,  2005]

                     *

° Mattina, andare a farsi tagliare i capelli. E alla solita, solita domanda dare la solita, solita risposta: no, grazie, non li tingo.

° Lavare le scarpe. Sempre quelle.

° Pranzo a casa. Convitati: due, dall’aria decisamente poco rassicurante.

° Caffè e dolce, sul balcone.

° Abbracciare. Mannaggiatté, failabbrava, fateibbravi, salutamammario.

° Di pomeriggio improvvisare un piccolo viaggio. E, in macchina, parlareparlareparlare (miseria, uaglio’, ma sputamm’ maje ‘nterra, ne’?).

° Sbagliare strada, parlandoparlandoparlando, tre volte (nello specifico: saltare due uscite della tangenziale, finire un attimo a Cava de’ Tirreni e tornare indietro). Compresi nella corsa, risate ‘n faccia e impietosi riferimenti al codice genetico ricevuto in eredità.

° Arrivare appena in tempo grazie all’aiuto di un incontro quasi inaspettato, e mai abbastanza ringraziato.

° Sorridere.

° Ascoltare.

° Ringraziare.

° Sorridere ancora, e sentirsi con il passare delle ore sempre più in-con-si-sten-te. D’istinto, a un certo punto, ad una folata di vento aggrapparsi ai riccioli notturni di chi sta accanto. Che c’è, piccere’? No, niente, scusa, è che. Vie’ qua, vie’.

° Tornare – dopo un kebab mmiéz ‘a via seduti per terra in una piazza piena di sorridente uagliunèra – sbagliando di nuovo strada e di nuovo ridendo. Ridendo, ridendo, ridendo. E poi cantando, finché c’è voce.

E dopo:

° A un’ora dalla partenza, perdere e ritrovare la direzione.

° Far entrare la nozione di spazio dentro una valigia.

° Ricordarsi solo all’ultimo minuto di non lasciare a casa una cosa indispensabile.

° Andare.

E no, non lo sono.

lunedì, 2 Aprile 2007

[Camerino di TeleOttaviano.
Durante la sua esibizione di pochi minuti prima, Lucia è stata bruscamente interrotta per fare spazio a quella del ben più rinomato Sceicco Beige. Onliù Caporetto consola Lucia, quando entra lo sceicco]

Onliù Caporetto: S’è azzeccata ‘na palla… Luci’, tu te l’e’ pigliat’ tropp’assaje… Luci’…Luci’, e fatt’ ‘na risatella! Dopo tutto non è che t’ha interrotto l’ùrdem’ strunz’, ‘o Sceicco Beige nunn’è l’urdem’ strunz’… o no?

Sceicco Beige: Arabian…oh! Buongiorno!
OC: Oh, lo Sceicco Beige!
SB: Grazie, so’ contento che si parla di me anche quando non ci sono, eh?
OC: Pecché?
SB: Ho sentito l’ultimo… ho sentito lì… ero lì, no?
OC: L’urdem’?
SB: L’ultimo…
OC: Ah, no! Datos…
SB: Posso ripetere? "L’ultimo strunz’", lei ha detto a me.
OC: No!
SB: No, lei l’ha detto a me.
OC: No, dicevo…
SB: Siccome ho sentito da là… lei l’ha detto a me.
OC: In senso buono, dicevo a Lucia…lo Sceicco Beige, Luci’…dicevo a Lucia lo Sceicco Beige nunn’è l’urdem’ strunz’!
SB: Perché, perché lo ridice, scusi?! Ho detto che avevo sentito io!
OC: Ecco, giustamente…
SB: Ecco, io non sarei questo…
OC: Esattamente, ma dic… mo’ così lei cap… dicevo: lo Sceicco… Luci’, come dicevo je…
SB: Sì, ora lo ridice un’altra volta! L’ho sentito, l’ho capito…
OC: Nunn’è l’urdem’ strunz’!
SB: Non è… ecco, perché sarei il primo io, allora, secondo lei, sì?
OC: No! …ancheee…
SB: Che numero sarei?
OC: E no… non sono numerati.
SB: Chi?
OC: ‘E st… no! Non voglio dire… ‘e strunz’, non sono numerati! Cioè, non sono strunz’ nume…no..n…n… non siete strunz’…
SB: Lei…le…le…
OC: Non siete!
SB: Io non sono?
OC: No!
SB: Quando parla lei dovrebbe stare attento.

[da F.F.S.S., cioè: che mi hai portato a fare sopra Posillipo se non mi vuoi più bene?, scritto e diretto da Renzo Arbore, 1983]

Amena omonimia

venerdì, 16 Febbraio 2007


Buonasera Loredana. Sono un suo ammiratore. Lei è deliziosa, fantastica e bellissima. La seguo sempre nelle sue apparizioni in tv. Questa mattina,
*data*, era ospite a *nomedellatrasmissione*. La sua apparizione è il modo migliore per iniziare la giornata. Mi piacerebbe instaurare un amicizia con lei, sarebbe meraviglioso. Le lascio il n. del cell. *numero*. Buonanotte da gianni.

 Caro Gianni, povera anima. Talmente innocente che non si è nemmeno domandato cosa ci facesse l’indirizzo e-mail di una modella su quel sito.

Non ho avuto cuore di rispondergli. Avrebbe dovuto proprio saperlo, che in realtà stava invocando l’apparizione – di primo mattino, eh, dettaglio mica trascurabile… – di un bovino di un metro e sessantré per settanta chili di potenza?

Naaaa, via.

Sogna sereno, caro Gianni.
Però, prossima volta, attenzione con quel gùgle…

Geocarpìa (di una parola)

martedì, 23 Gennaio 2007

Che voglia di correre. Camminare. Lavorare. Sudare. Usare questo corpo in qualche modo. Usarlo. Restituire un po’ di quello che mi è stato dato. Cambiare. Scambiare.
Le mappe non si disegnano in solitudine. O almeno io non so farlo, non ho le mani adatte. L’incontro, l’incrocio che strappa via dalla strada già battuta, dalla linea retta (che non esiste) è quello che genera il mondo che contiene parole e storie (che esiste), e in cui si può e si deve entrare. Il cambio di stato. Il cerchio sulla superficie prima ferma dell’acqua. L’eco. Il suono. La voce. Gli spostamenti di direzione in ferrovia. Scambi.

Scambiare. Uno scambio. Per un cambio. E un cambio. Per uno scambio.
E lèvati, dannazione, ché mi serve quella leva.
Si scambia tutto per tutt’altro.
E scambiamo, allora.
Scambiamo?

Οὖτις ἐμοί γ’ ὂνομα

lunedì, 18 Dicembre 2006

"Ecco cosa sono, le Eus: l’universo – grande, piccolo – te lo fanno misurare tutto".

[Marco Paolini, Bestiario italiano – I cani del gas]

E poi, cos’è successo dopo?, ti ha chiesto.

E’ tutto il pomeriggio che ve la raccontate, ti si incurva un angolo della bocca in un sorrisino appena accennato quando pensi che già lo sai che si farà sera, poi forse anche notte.

Ma a che mi serve questo blog? Che ci faccio qui? Cosa? Cosa ci faccio dentro questa scrittura?

Te l’eri chiesto con lei, ché lei, che comprende sempre tutto, c’ha sempre quella parola in più che ti riporta sui binari. Anche quando l’interrogativo, diciamolo, è una questione per cui non trovi aggettivi, tipo questa. Visto da lontano, che ci vuoi fare, il mondo è solo una palla che gira. Ultimamente, però, che in giro leggi molto, pure troppo, te lo chiedi anche piuttosto spesso. Leggi così tanto che poi alla fine ti interroghi su cose alle quali normalmente non ti verrebbe nemmeno di pensare. Come ti ci sei infilata, qui dentro? Te lo chiedi tu, e adesso te lo chiede anche lei, che è curiosa di tutto, anche di quello che non conosce. E a un certo punto hai concluso che precisamente tu non lo sai. Ma lei ha detto che no, per la cura che dedichi a ‘sto spazio non può essere.

Non dire scemate, ti fa.

Scemate. Questa è proprio una delle sue parole, non conosci nessuno che la usi quanto e come lei, che al posto di cretinata dice scemata.

Se non sai cosa ci fai adesso lì, scommetto però che sai come hai cominciato, tu ti ricordi sempre l’inizio delle cose, tu ricordi sempre tutto – dice.

Eh. Ti disarma così, davanti alla tisaniera dove filtra la solita miscela di erbe, sempre la stessa ormai da anni. Ma è vero, com’è che è successo te lo ricordi benissimo. Era stato lui che, una sera di febbraio che non avevate niente da fare e fuori era freddo ed era tardi e le tisane – sempre quelle –  fumavano sulla tua scrivania e lui se ne stava seduto al tuo pc, aveva detto no, senti, mo’ te ne apro uno io.

Eh, ma che me ne devo fa’?
E io che ne so? Tu prova.

Te ne parlava già da un po’ ma tu, boh, sempre distratta.

Come lo vuoi chiamare, allora?
Uff’.
Jamm’, la prima cosa che ti viene in mente…
Boh.
Dai!
Eh, ma che ne so… boh… eus. Eus, ja’.
Eus? E che è?
Voci.
Eh?
Voci, in una lingua che non conosciamo.
Mh. Vabbuo’.

Detto, fatto. Così te l’eri tolto ‘a tuorno, credevi. Il giorno dopo te lo impaginava, e in alto c’era un frammento di quella foto, proprio quella. Com’era bella la pagina, bianca e azzurra come i tuoi quaderni. Tanta la gratitudine, che a scriverci niente ti pareva di far andare sprecato il tempo che lui aveva speso a metterlo in piedi. Un peccato.

E poi?

E poi cavolo, e mo’ che ci scrivo?, avevi pensato. Uff’. E insomma, siccome lui era il solo a venirlo a leggere, in poco tempo fu: che voi si iniziasse a parlare anche così, da lontano, un post alla volta, intanto che entrambi si andava e veniva, a zig-zag sulla crosta di questo pianeta che gira. O almeno così era per te, essendo lui il solo interlocutore di questi scambi di luoghi, viaggi… e voci. Già, a proposito, le voci.

Com’è che t’era venuta in mente proprio quella parola?

Uhm. C’hai pensato. C’avete pensato. Dice lei che certe cose nella vita ti pigliano a tradimento. Te le porti appresso da una vita, dai, ce le avevi lì che ti aspettavano al varco.

Oddio. E’ proprio vero, visto da lontano il mondo è una palla che gira. Ma certe volte lo è anche da vicino.

Dai, ja’, è inutile che ci giri tanto intorno, sono venute a galla a tradimento, loro, che ti seguivano dappertutto. Come quell’altra volta.

Gli è che comunque, com’era come non era, ci avevi preso un certo gusto a stare in questo spazio condiviso a chiacchierare di altri spazi condivisi, cioè quelli su cui ti capitava o vi capitava di mettere piede insieme. E così, poco a poco, il dialogo con il gallinaro deragliava prendendo una piega sempre più larga e però, ecco, mica smettevi di parlargli, no anzi, ti piaceva pensare che sulle strade di cui parlavi lui veniva con te, da lontano. In fin dei conti, era sempre con lui che parlavi.

E poi?

E poi, a un certo punto, è successo che lo spazio si è aperto. E’ arrivato qualcun altro. Lo spazio condiviso ha fatto effetto cosicché qualche voce, passando di là, forse per caso o forse no, ha detto: ue’, ciao, qua ci sono anch’io. Nella sua lingua, però.

Ah ah… che botta, quella, per le parole, eh?

Già già. Una vera e propria botta, nel senso che botta ha nella tua lingua. Non un botto, ma una botta. Una spinta. Perché le eus, si vede, erano venute fuori non del tutto per caso, e mo’ avevano avuto la botta. Come dice quella canzone che sta sempre con te:

I got some things I can’t tell anyone
I got some things I just can’t say.
They’re the kind of things no one knows about,
I just need somebody talk… to me.

Ecco. A tradimento. Visto che ci sono cose che non posso dire, allora – avevi pensato – facciamo così: parlate voi. Così vi ascolto, vi lascio entrare e risuonare, e io non avrò altro da fare se non. Risuonare. Poi, dentro, fate quello che vi pare. Io resto qui ad ascoltarvi. Tanto, non mi basterebbe tutto il tempo del mondo.

Ma che ne sapevi, tu, delle risonanze?
Niente.
Non sapevi niente di come si fanno eco, le Voci, i suoni, i suoni della carne. Che ne sapevi, tu.

Sapevi solo che quando intendevi le parole senza capirle, ecco, lì avevi incontrato una voce. Ce n’erano sparse ovunque, solo che non lo avevi mai realizzato prima che la vita ti portasse lontano dal posto in cui sei nata e cresciuta. E quindi, che altro poteva succedere? Quasi senza di te, le tue orecchie si sono lanciate all’ascolto. Come quel giorno, lì, di tre anni fa.

Ah, quello, è vero, me l’ero scordata. Ma vedi che ti ricordi sempre, tu?

Perché era successo che quel giorno eri andata ad ascoltare una Voce che ti era cara raccontare le sue storie, e tra queste storie c’era quella di un’altra voce che a sua volta raccontava – in una lingua che non avevi mai sentito prima in vita tua – di essere fuggita dalla Terra barricandosi nella sua stanza che era una nave spaziale, in cui il sedile era il letto e lo specchio l’oblò da cui si vedevano stelle e galassie, e le ombre sul muro meteoriti. Ed è successo che dopo, parlando con chi aveva ascoltato insieme a te quella storia, l’altro s’era dispiaciuto di non averne afferrato niente, nemmeno una parola.

Ma come? La nave spaziale, e gli umani che gli gridano di uscire, e lui che scappa sempre più lontano…
Eh? No, aspetta, ma la conoscevi già, quella poesia?
Noooo, mai sentita prima.
Allora conoscevi il dialetto.
Oddio… veramente no… hai sentito il nome di quel posto? Non so nemmeno dove sta, Andreis.
E come l’hai capita, allora?
E che ne so? Ma tu proprio niente… nemmeno il diciotto agosto dell’ottantadue?
Anche una data, c’era?
Sì, l’ha detta all’inizio, mi pare…
Ti ricordi le parole?
Uhm… no.
Nemmeno un verso?


… no, le parole non mi tornano in mente.
Ohibo’, però…
Eh…
Mah.
Mah.

Quella era stata la prima volta. Ti era rimasta in testa la storia, ma non le parole. Allora, di quelle parole che non avevi capito ti sei messa a caccia. E hai scoperto un mondo intero, incassato lassù, tra le pieghe di certe montagne di cui non avresti mai saputo nemmeno immaginare l’esistenza. E da allora, per un motivo o per l’altro, non ha smesso più di succedere. Ma che ne sapevi, tu, delle risonanze. Delle voci. Delle Eus.

Un giorno, poi, qualcuno ti ha detto: a furia di leggerti parlare (sic!) di voci ho l’impressione di sentire la tua, e anch’io a volte ti intendo senza capirti del tutto. Te ne sei mai accorta? E poi è strano perché è una voce scritta. Ci sono certe volte che mi domando come fa quella che ti suona nella gola.

Eh. Vero, eh. Qualche volta succedeva, e che meraviglia ogni volta. Quell’irragionevole sensazione di essersi intesi.

Non ti ci sei mai abituata, eh?

No, mai. Come ancora adesso non ti abitui all’idea delle quattro-cinque presenze che con il tempo sono diventate Eus, Voci a loro volta, ché ogni volta che ne arriva una nuova sei lì che ti domandi sul suo conto cose inutili tipo chissà chi è, dove sta e chissà in che modo tiene tra le dita, che so, la tazzina quando beve il caffè… come la meraviglia che ti ha fatto quel qualcuno che nei mesi appena trascorsi s’è letta tutta, ‘sta carriola di parole, dall’inizio (parliamone, ancora ogni tanto ci pensi). E poi le voci, quelle che suonano, e come suonano. E risuonano. Scritte, e parlate. Sulla carta, su uno schermo, nella gola. Non ci capivi più niente. Ma che ne sapevi, tu, delle risonanze.

 E che ne sapevi, anche, di dove avevi messo quella che ti suonava nella gola. Non te lo ricordavi mica più. Il viso che ti sta di fronte dietro le volute di vapore della tisana ti dice spesso che la usi solo per dire quattro, cinque, sei parole in croce: scusa, grazie, tivogliobbene, no, guarda, veramentevolevodireunaltracosamanonfanniente.
E non chiedere sempre scusa!
, ti fa stizzita ogni tanto. Ma che ci vuoi fare, quella e grazie ti sembrano le migliori tra quelle che conosci, e devi pur ammettere che a volte se non puoi dirle preferisci stare zitta. Se non altro, per non essere troppo ripetitiva. Per cui, ecco: le tue parole da sole non vanno. Da nessuna parte. Non sono mai andate da nessuna parte da sole, il tuo linguaggio intero basandosi sulla sola nozione di spazio. Del tipo: aspetta, se vuoi sederti qui anche tu a guardare il mare qui c’è un sacco di posto. E allora, siccome spesso ne sei priva, hai detto: parlatemi voi. Parlate, ché io sono vuota e voi risuonate dentro questo vuoto siderale che tanto spesso mi dà le vertigini – davanti alla risorgiva di un fiume carsico ma anche davanti a una specie di palafitta appena intravista guidando su una statale che attraversa una laguna, tanto per dire – e mi colate tra le mani e mi riempite… e io, che sono niente più che un recipiente, qui ho tanto spazio che non ci si sta mai stretti, questo almeno lo posso garantire.

Ma allora, scusa, era questo che volevi dire!
Eh?
E che altro sennò?
Eh…
Dai, questo è quello che fai sempre. Andare a mettere le orecchie e le mani dappertutto. Non saprai parlare, è vero, ma non sai stare nascosta. E nemmeno lo hai mai voluto, quindi di che ti meravigli se poi le parole vogliono parlare di questo?
Aspettaiovolevodireunaltracos…
Non è vero.
Ma…
Non dire scemate.
Guarda che non mi hai fatto dire ancora niente.
Stai per dirne una, mi ci gioco la sottana.
Non hai mai portato una sottana.
Domani me ne faccio dare una da mia mamma e me la metto solo per scommetterla.
Stronza.
Dimmi.
Niente, stronza e basta. Vocativo.
Grazie.
Non mi fregare le parole.
E’ ovèro, chell’ già so’ ppoche…
Stronza.
Ti ripeti, vedi…
Tien’ chiù corna ‘e ‘na sporta ‘e ciammarrùche. Meglio?
Stronza.
Che è, ti s’è infeltrito pur’a te, il vocabolario?

E pure s’è fatta notte, alla fine. Due risate scomposte sbattono sulle pareti.

Anche queste risuonano
Già.


Mari’.
Eh.
Non so parlare d’altro, quello è il fatto.
Embe’, e che fa?
Non lo so. E’ solo che certe volte lo vorrei proprio dire, a chi passa di là.
E tu diglielo.
Ma si può?
Ancora con ‘sta storia? Qua passano gli anni, ma sei recidiva allora…
Eh, lo so.
Oh, machettifrega, atté.
Mh. Machemmifrega, ammé?
Eh.
Eh.


Perché alla fin fine, è vero, questo era quello che volevo dire: parlate voi, visto che io è meglio di no, perché quando cadete in questo vuoto bianco e azzurro iniziate a risuonare, e alla fine quello di cui si parla qui dentro è solo questo, solo questo, quel che succede in questo vuoto quando calate sul suolo delle mani, delle orecchie, degli occhi, che dopo non è più lo stesso, ché l’ascolto ogni volta muove, smuove qualcosa sottoterra sicché dopo non sono più quella di prima, e non lo sarò mai più.

Questo solo volevo dire, questo è quello che ci faccio qua dentro, dire quella stranissima cosa che è camminare, annegare in un mondo di lingue diverse che tra di loro non si capiscono ma si intendono, per quale mistero non so, e però succede, succede proprio ogni santissima volta, e dopo mi ritrovo dentro ‘sta scafaréa qualcosa che prima non c’era, non sapevo, non capivo, nemmeno lontanamente potevo immaginare. E anche di questo volevo dire – in un’altra sede, è vero, però c’entra e me lo appunto qui per non dimenticarlo – di come di bocca in bocca le parole viaggino su strade che si incrociano con altri percorsi, passando per altri punti di una mappa immensa, quella di uno spazio condiviso che è la voce, queste onde sonore così intime che viaggiano da interno a interno, da polmone a timpano, scavalcando anche la superficie della pelle. E allora parlate, che diamine, perché tanto qua ci abita solo un’ombra che ascolta, che cammina sul fondo spostandosi da un mare di parole all’altro, da una geografia all’altra, da una voce all’altra, e se voi accettate di parlare questa specie di ombra a nervi scoperti non ha nessun problema a venire fino a dove vi trovate voi, a sedersi lì accanto per sentire come dite, con la vostra voce: ciao. E, dopo, non essere più la stessa di prima.

Late biosas? Ma nemmeno per sogno. Senza nome sì, ma di nascosto no.

[Grazie per la foto, tu]

Megliodisì

giovedì, 30 Novembre 2006

– "Finché non ti toglie niente… è quando ti toglie qualcosa, che uno magari può perdere la voglia e decidere di chiudere. E a te? A te ha mai tolto qualcosa? "
– "Uhm… siamo qua a chiacchierare. No. E’ il contrario, casomai ".

 Del garbo della luce su un viso. Del garbo di questa luce autunnale un po’ greca e di certa musica, penso. Del garbo delle partenze che vengono piano, entrano in silenzio mentre fuori, nel fuori si svuota il linguaggio, le parole: nelle cose, nelle persone, nel tetto sopra la testa e sul pavimento sotto i piedi. Canticchio, mastico frasi a mezza voce per sentire come suonano e poi le sputo, sulle foglie che ricoprono i lati delle strade, sugli autobus che passano, sulle nuvole che svolazzano intorno alle cime dei monti a ovest, sul finestrino dell’auto di chi mi sta dando un passaggio, sui cassonetti dell’umido, sui cartelloni pubblicitari sotto il ponte della ferrovia. Si svuotano le parole, e solo così il tempo può passare in mezzo a tanto garbo, in mezzo a tanta luce senza mandarla in pezzi. Ma durerà poco, comunque. Il garbo è stato distribuito in quantità assai limitate nell’angolo di mondo che mi riguarda.
 
 Mi succede ormai sempre – nel senso che ormai non smette più di succedere – di voler dire o scrivere qualcosa, e poi di non dirla né scriverla più. Ci ripenso. Meglio di no, mi dico.
Per esempio, queste sono righe dello scorso ottobre, che allora avevo pensato: meglio di no. Ma perché, poi? Per la più banale delle ragioni che si possano immaginare, naturalmente. E adesso? Mah, c’ho un momento di machemmifrega, ammé. Non voglio che niente si rompa, fra me e questo spazio, anche se in questo momento lo trovo congestionato di non scritto, così congestionato che in certi momenti mi dà pesantemente sulle togne, come ho sentito dire a Gorizia. Ma insomma, anche questo durerà poco.
Sono talmente affezionata alle Voci che ho incontrato, alle Eus che abitano qui dentro perché duri più di un poco. Ma arò m’abbìo cu ‘sta penna, mi domando.

Mah. Oh, machemmifrega, ammé.

Is there love in space?

venerdì, 13 Ottobre 2006

– Sì – confermo Ford Prefect – è buio.
– Niente luce – disse Arthur Dent. – Buio, niente luce!
  Una delle cose che Ford Prefect aveva sempre trovato difficile comprendere a proposito degli umani era che avevano il vizio di affermare e ripetere cose assolutamente ovvie come risultava evidente da frasi quali "Che bella giornata!" o "Come sei alto!" oppure "Oddio, mi sembra che tu sia caduto in un pozzo profondo nove metri: ti sei fatto male?". In un primo momento Ford si era fatto una sua teoria per spiegare questo strano comportamento. Aveva pensato che le bocche degli esseri umani dovessero continuamente esercitarsi a parlare per evitare di rimanere inceppate. Dopo avere osservato e riflettuto alcuni mesi, Ford aveva abbandonato questa teoria per un’altra. Aveva pensato che se gli esseri umani non si esercitavano in continuazione ad aprire e chiudere la bocca, correvano il rischio di cominciare a far lavorare il cervello. Dopo un po’ aveva abbandonato anche questa teoria, considerandola eccessivamente cinica, e aveva deciso che in fondo gli esseri umani gli piacevano molto, anche se non poteva fare a meno di preoccuparsi e disperarsi davanti alla terribile quantità di lacune che le loro conoscenze presentavano.

[Douglas N. Adams, Guida galattica per autostoppisti, 1979]

i – o

mercoledì, 27 Settembre 2006

… è il verso dell’asino, non te lo dimenticare.

Attesa

venerdì, 15 Settembre 2006

Uff’. Boh. Mah. Mattina. Matinée. Mattatoio. Matti. E matto. Mattone. Mattonella. Mattutino. Mattinate. Martina. Marrùzza. Martedì. Mercoledì. Giovedì. E venerdì. Venere. Luna. Acqua. Caìgo. E treni. Stazioni di transito. Caserta è una stazione di transito. Sul ciglio dei binari che l’attraversano sono nata e cresciuta. Ci affondo le radici. Radici di ferro, che sono binari. Scambi di ferro, che sono parole. Parole di ferro, che sono ponti. Ponti di ferro, che scavalcano fiumi. Fiumi di ferro, che sono stazioni. Stazioni di ferro, perdute nei vuoti delle cartine. Vuoti di ferro sulle cartine, che sono impresenziati. Presenze di ferro nei vuoti delle cartine, che sono case cantoniere. Cartine di ferro, che sono errori degli uomini dove sono vuote. Ferro sulle cartine, che fa rumore che viaggia sulla pianura. Linee di ferro sulle cartine, che sono strade di voci odori e attesa. Attese di ferro, come in stazione, come qui. Ferro che quando l’attesa finisce è volo radente, e strada che entra e che esce dagli angoli del mondo di carne degli uomini. Cervelli di cemento, che sono muri affacciati su un mondo di ferrocarne che non li tocca. Un mondo lungo e largo, dove ferro e carne sono tra loro leali e solidali, e fabbricano viaggi. Ferro, ferro e ancora ferro, caldo come carne.

 Con lo sguardo abbiamo chiuso, dicono, e bestemmiano. Dove l’ho letto? Non me lo ricordo. Bestemmiano, comunque. E calpestano. Con i piedi passano sugli occhi di chi cerca di vedere. Di chi una lente per vedere il mondo non ce l’ha, e non l’ha mai avuta. In generale, calpestano. Ma guardano in aria. C’era una volta. E adesso cosa c’è? Adesso c’è un professore che non arriva, e voci nei corridoi. Ci mancavano le mappe satellitari, ci mancavano. Voglio denunciare GoogleEarth.