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La cura contrivisa (seconda dose)

mercoledì, 19 Settembre 2007

Tu son solo una tera
che sconde tante vite,
e soto la bufera
le tien contrite.

Ma quando el sol se leva
cô ‘l vento su tu score
s’ilumina le ore
dei fiuri in ogni sesa.

Tu dormi più pesante
se ‘l sielo no’ te scolda,
ma púo tu dà vita e giolda
a tante piante.

[Biagio Marin, da El vento de l’eterno se fa teso – I, 1973, El canto disteso]

[Perché mica avevo dimenticato, eh.
Bisognava solo trovare quella giusta,
e quella giusta è senza dubbio questa.
]

Ancora la luna nel pozzo (frammenti di un discorso tra idiomondi)

martedì, 4 Settembre 2007

Mi sembra che mi parli della luna.

*

Sì, è vero. Quando mi capita di discorrerne – più spesso con te, di recente, ma mi succede quasi tutte le volte che ne parlo con qualcuno di altr’ove – ho anch’io la stessa sensazione. Lo sento nel momento stesso in cui lo sto dicendo, quanto lontano e diverso è quello che ti racconto rispetto a quello che puoi aver vissuto, visto, conosciuto tu, nella tua vita. Tu che sei tu, ma a volte insieme a lei mi diventi l’Altro – per eccellenza più che per antonomasia – cui tentare di spiegare, rendere accessibile o quanto meno comprensibile la luna su cui sono nata. Per questo stesso motivo, quando troviamo un punto di contatto dentro una una stazione abbandonata, un pagliòne, una s’cinca, nell’averci ‘ncora posto pa’ i vostri pugnài… per questo stesso motivo, dico, quando troviamo una qualsiasi cosa, pur microscopica, che ci dice che la vita è diversa ma in qualche modo si somiglia anche tra punti tanto lontani della mappa, be’… la meraviglia è sempre grande. Non è stupore, no, ma meraviglia sì. Ed è una meraviglia che sa essere faticosa, anche, e quanta più fatica richiede tanto più generosa sa essere di godimenti, di rimando. Italiani, contadini smemorati, avevamo affettuosamente riso quella volta.
Ma è anche un problema difficile, per me. Devo dirlo e ammetterlo, perché mi costringe a dire io: se parlo di questo, se voglio parlarti di questo, non posso darmi del tu, perché devo darlo già a te e soprattutto perché sarebbe vile. Se ti parlo di lei, non posso usare un altro pronome. Devo tornare dentro io, anche se sono ingrassata dall’ultima volta che l’ho usato e adesso stringe, mamma mia quanto stringe, sega i gomiti, le spalle, le ginocchia, la pancia, e fa respirare corto. Devo solo sperare che il tessuto di cui è fatto ceda un po’, con il tempo, e intanto provare a muovermici dentro. Un po’ alla volta, forse.
Ma comunque, dicevamo: la luna.

 Ti stavo parlando di una domenica pomeriggio d’estate come tante altre, in effetti, ti facevo vedere i posti in cui eravamo stati, si parlava di terremoti – quello della terra mia e tua – di abbandono, di ortiche, di cenere, di tafani, del silenzio che con il tempo si prende le cose e le persone che c’erano, e tuttavia non sono andate via. Di profumo di paglia e di menta, anche, incidentalmente. E ti chiedevo e da te com’è stato?. Per non perdere il filo del discorso, come altre volte, mi stavo persino dimenticando di andare a dormire. La meraviglia potrà anche essere faticosa, eppure continuare a fare di questi scherzi: ti raccontavo della luna, sì, e infatti a un certo punto hai detto ma sai che una stazione abbandonata anch’io? Ah!

E’ successo che in treno, giorni fa, ho fatto un sogno. Tiravo la corda di un pozzo, una corda spessa quanto il mio avambraccio e intorno alla quale non riuscivo nemmeno a chiudere le mani. Tiravo, ma non si muoveva niente, quel che c’era all’altro capo era troppo pesante. Poi, una voce dietro di me: era lui, che non vedo da tanto tempo, l’amico del minimo, dell’infimo e del particolare, come gli piaceva dire allora, che aveva amato farsi raccontare – per anni! – questa terra che non avrebbe avuto modo di conoscere altrimenti. Ha ripetuto una cosa che ha detto una volta, e poi mi ha aiutato a tirare. "Cosa stiamo tirando su, Ma’?", gli ho chiesto. "E’ il paese!", ha detto. "Eh? Ma cosa è il paese?". "Il pozzo! E tira!". "Ma’, ma sei impazzito?". "Eh! Scema, ma tu non sei di giù?". "Ma…", "e secondo te che significa? Tira!". "Ma pesa come la luna, diosanto…". "Embe’, è la luna!". "Ma che staje a ddìcere?", "eh, ma quanto parli! E tira!". E ho tirato. Così tanto che lo sforzo mi ha svegliata. Ero sudata, i muscoli tutti contratti, dalla faccia ai piedi, il Perlesvaus stretto tra le mani, schiacciato sulla pancia. Mi ero addormentata studiando, ché Lancelot si era appena calato nelle cisterne sotto il castello della Prova. Accidenti.

Due giorni dopo ero altrove, in un altro dove, altr’ove. Giù. A sud dove, dopo la generosa pioggia di su, avevo trovato l’estate mediterranea di Dino Campana, vasta, ardente, notturna, assetata. Ma una notte mi sono ritrovata davanti allo stesso pozzo. E siete arrivate voi, che pure mi avete aiutato a tirare. Pioveva, anche. Vi ho detto allora di aver sognato che questo paese è un pozzo. Voi avete sorriso e avete detto "bella scoperta… noi di su, tu di giù…". "Ah. E come si fa, allora, scusate?". "Come abbiamo fatto fin’ora, no?". Ho fatto una faccia che non so, comunque si doveva vedere che non avevo capito perché avete poi detto, insieme: "con la corda!". E poi hai aggiunto: "bisogna attaccarla al treno, ora che parti, però". "Perché?". "Perché così la tiriamo su senza farci male, forse". "Ma sono ottocento chilometri!". "Eh, va ben, ce la facciamo. Basta che non dimentichi il quaderno a casa". Accidenti di nuovo, stavolta alle urla dei pavoni del vicino: voi e il pozzo siete rimaste lì, insieme a quel che c’era sul fondo, e io mi sono svegliata.

Da allora, quel pozzo non mi lascia. Oppure sono io che sono rimasta lì anche se mi sono svegliata, non lo so. Guardavo una mappa l’altro giorno e ancora ci pensavo: un pozzo, forse, e non uno stivale? La sensazione, in effetti, talvolta è quella di venire dal fondo, dal profondo. Dalla luna. Poi leggo da lui uno sguardo da una finestra aperta a Sud, sui certi boschi dal nome famoso che ha scoperto essere una grande foresta, e non il massiccio brullo ed arido che ci hanno fatto credere in anni e anni di telegiornali, e in questa meraviglia mi pare emerga in trasparenza qualcosa di essenziale. E allora si vede che la luna c’è. Esiste. E anzi, non è una sola, ma tante. Io stessa, prima di metterci piede, cosa sapevo di quello che c’era qui, quassù?

In quelle due sere, per esempio, che intorno a un tavolo si condividevano cose, memorie grandi e piccole, associazioni d’idee e parole a casaccio che costruivano piccoli mondi condivisi… ero lì che ascoltavo, bevevo le vostre come frammenti di un mondo mai visto mentre dietro gli occhi si mettevano accanto ai frammenti del mondo mio, fatto di ferro e storie vecchie (non antiche, soltanto vecchie) e abbandono, e prevaricazione e monnezza, e pensavo: mi muovo non fra due regioni, ma tra mondi diversi. Quando mi trovo nell’uno puntualmente l’altro mi sembra, negli occhi di chi mi sta di fronte, così lontano da provare una qualche difficoltà nel pensarli all’interno di uno stesso confine. Eppure ci stanno e che meraviglia è anche questo, ché si incontrano in così tanti punti se uno sovrappone le mappe. Insomma, questa striscia di terra lunga lunga, distesa, anzi, no, profonda sul mare… come funziona? Così il sogno: è un pozzo. Se è un pozzo io sono nata a tre quarti, non proprio sul fondo ma comunque lontana dall’orlo, e vado su e giù con questa corda di binari, faccio la spola tra le lune di sopra e quelle di sotto, forse. E da ogni capo della corda trovo occhi che ignorano cosa c’è dall’altro lato. Se è un pozzo, forse ha due uscite da cui passano bagliori, voci confuse, poco altro. Nessuno di sopra sembra voler sapere quello che c’è lì sotto, quelli di laggiù non domandano mai cosa c’è lassù. In genere, ci si accontenta di qualche cartolina catodica sbiadita, e a chi viaggia lungo la corda resta solo una meraviglia che non si spegne mai, e quella voglia di raccontare e ascoltare prima o poi sempre spezzate da uno sguardo che si volge altrove, da un ma comunque che cambia argomento. Perché succede questo? E perché si deve tirare, perché si deve viaggiarla, quella corda? Perché non sappiamo cosa succede in questo pozzo che ci ospita, dal fondo all’orlo? E il punto qual è? La corda? La luna?

Penso al mio minuscolo caso, allora. Alla biciclettina di lassù, e alle stazioni e ai paesi abbandonati dove si cammina tra cenere e mosche di laggiù. E alle voci per le quali dire di questa e quell’altra parte non è inutile, ché non è una questione di utilità ma di memoria, e la memoria è una cosa che non è mai solo mia o tua o sua – come la terra. C’è, esiste, e di qualunque memoria si tratti dice qualcosa che non parla solo di chi la sta dicendo. E non c’è bisogno di spogliarla, non c’è bisogno di privarla dei suoi toponimi per renderla condivisibile, anche se si tratta della Luna. Non è quello il punto.

Per cui ecco, sì, spesso mi sorprendo a parlare della luna e a sentirla luna, la terra di cui ti sto raccontando, nel momento stesso in cui te la dico, e in quel preciso istante spesso mi faccio una domanda: perché devo sapere tutte queste cose? Perché devo sapere i solai sfondati delle case distrutte dai terremoti, e come camminarci dentro senza creare pericolo e per andarmici a nascondere ancora, ancora e ancora? Perché tra le tracce di quelli che sono stati mi sento a volte più al sicuro che in mezzo a quelle delle persone che si vedono e si toccano? Perché devo conoscere l’odore del ferro di ferrovia e saper dire quando il treno sta per arrivare dal rumore che fa l’elettricità nel cavi dell’alta tensione, perché devo sapere l’intonaco a pezzi, le finestre murate, i cancelli arrugginiti e spalancati dai rovi, perché devo sapere come si aprono i baccelli dei semi delle ginestre? Perché, quando altrove i ragazzi della mia età erano impegnati a studiare la Storia, per esempio, io ero impegnata con quest’altra storia senza la dignità dell’iniziale capitale che se non c’era mio nonno ad aiutarmi a unire i puntini con l’altra mentre raccoglievamo i puparuliélli verdi mica mi rendevo conto, io, di quanto poteva essere importante?
Mi hanno detto una volta: ti porti dietro tutt’un bagaglio di cose che non servono a niente. E io, che già di mio barcollo facile anche quando non ricevo spinte, allora ho pensato: ommadonna, che figura ‘e mmerda. E ho smesso di parlarne fuori, semplicemente, sebbene quel bagaglio per me fosse la sola cosa di cui valesse la pena parlare. Anche se bagaglio fa peso. Anche se c’era stato qualcuno a cui quel bagaglio era parso un… pozzo di meraviglie. Le ironie della vita, eh, specie quando poi capita di incrociare, ad anni di distanza, altre voci che fanno dimmi, dimmi proprio quando sembrava che finalmente se ne fosse andata via, quell’inutile abitudine a dire – soprattutto intorno a un tavolo – che mi aveva passato il nonno.  Il che è un’altra bizzarra ironia della vita: fuori da quello che in famiglia chiamavamo ‘u ciardìno di lui si diceva è gentile, ma nun parla maje. Roba vecchia, insomma. Vecchia e dimenticata come gli anziani di questo tempo senza memoria. Tanto che poi dopo, riguardando alla trama di eventi e pensieri che si stavano tessendo nel tempo, m’è venuto da pensare: e come si dice, mo’, ‘sto sogno della luna nel pozzo? Si dice che se lo dici non ti credono perché è inutile. Non credono che hai sognato ma si sognano che te lo sei inventato.

[oh, per lo meno vuol dire che sogniamo tutti insieme, il che alla fine se ci pensi non è poi tanto male…]

E dunque va da sé che uno cresce e si arrovella sulla necessità o meno di dire le cose, e che senso c’ha, che io ti dico questa cosa, questa pianta, questa persona, queste parole e il mondo che c’è dentro? Ultimamente tentavo, tornavo sui miei passi, facevo pasticci, in genere la corda strideva facendo male ai denti. Alcuni di questi pasticci sono usciti fuori argine, sono esondati fuori dalla rete e là fuori sono diventati nodi, voci – noci da far spertusàre al pàppicio, volendo – legami. Hanno creato differenze, nel contatto con altre voci hanno modificato il mondo fuori di qui, il mio e quello di chi avevo di fronte generando a loro volta cose, tempo, parole ed eventi nuovi che prima non c’erano, che io lo desiderassi o meno. Anzi, soprattutto quando toccare, spostare, modificare qualcosa era l’ultima delle mie intenzioni. Ma succede, talvolta anche solo a causa della nostra semplice presenza a questo mondo. Nel bene e nel male. L’ho già detto, lo so. E poi siete arrivati voi, e le parole sono esplose. Scoppiate. Bam.

 Per cui ecco, ti parlo della luna, Altro che non sei altro, è vero, e per questo è così faticoso a volte per me parlarne. E’ pesante da tirar su, ma poi che bello quando a furia di tirare si vede che stiamo entrambi cercando di tirare fuori la luna, e ognuno la sua. E sono tutte lune che esistono, sono dietro l’angolo, subito sotto l’orlo del pozzo, a volte sono abbandonate, e sono nostre. Non mie o tue solo perché ci siamo nate, ma di tutti, di chiunque voglia venirci a ficcarsela negli occhi, a metterci i piedi sopra. A volte stanno in alto e a volte in fondo a un pozzo. Del resto che ne sapevo delle frasche e del terrano coi ovi, io?

Ma lontane, poi… quanto lontane possono mai essere? In alcuni casi molto, in altri non distano tra loro più di un paiòn. E allora sì che tirare la corda fino a farsi scoppiare le tempie vale la pena, e anzi… non pare più una pena, ma una fatica di quelle durante le quali viene da cantare e in cui si va avanti per frammenti di un discorso che parla d’altro, sempre dell’Altro. A te, di te, e non di me. Sarebb’a dire: chi se ne fotte, troviamoci un tavolo e sì che te la racconto, ‘sta storia.

E chissà se siete riuscite a tirarla su, poi.

Magic moments

venerdì, 31 Agosto 2007

[Sudtirolo, un anonimo negozio di giocattoli, clientela di lingua tedesca al 95%. Lei è a scegliere un aquilone da un grosso cesto, lui più in là, perso, assorto ed entusiasta davanti ad uno scaffale enorme pieno di scatole con lo sfondo blu. Un sussulto di meraviglia con vocione da adulto spazza via in un sol colpo il lieve parlottare dei bimbi germanofoni:]

– LO’! VIENI A VEDERE!
– Eh? Che c’è?
– VIENI!
– Oh, aspe’, calma, arrivo.
– GUARDA, GUARDA!
– Cosa?
– UAH, NEL MONDO PLAYMOBIL C’E’ TUTTO! ANCHE LO UTTARO!
– …
– …

[schiattano a ridere in coro comm’a dduje sciemi co’ tutto il negozio che li guarda, pecore di pezza comprese]

(ok, non è una discarica, ma lì per lì ci era parso proprio…)

Che poi, i punti di vista, ecco.

Della gentilezza (e della pausa estiva)

venerdì, 3 Agosto 2007

[L’una e mezza – o poco dopo – antimeridiane. All’ultimo tavolo occupato nel cortile le ciàcole vanno avanti con la tranquillità delle cose che sembrano fatte per durare. Intorno si mettono via tavoli e sedie con discrezione, finché una voce, timida:]

Ehm… noi mettiamo un po’ a posto, eh…
 
(si guardano intorno)

– Ma… uhm… eh… ma state aspettando noi per chiudere?
Eeeh… be’, ecco… quasi… circa.

Sotto il segno del Cane

lunedì, 30 Luglio 2007

Something like leaping into the void in a safe manner.

F.

*

[ Lied per clarinetto, violoncello e pianoforte in 25/4 ]

La testa stipata di cose, alle tre meno un quarto hai preso coraggio e messo le mani sul volante che scottava come roccia lavica, come le ustioni del tempo, come l’inoppugnabilità di certi eventi da cui si vorrebbe poter proteggere chi ci sta accanto, come quel rumore di fondo costante che da mercoledì non ti lascia. Se tentassi di spiegarti adesso, sai che non ci riusciresti. E allora non lo fai, metti nella borsa quel che serve e via. E’ estate, del resto, e d’estate ogni momento tende ad essere pieno… anche di nulla, ma pieno e non vuoto.
Il tempo si riempie, e sembra ovvio che certe cose succedano proprio in questa stagione, in questi giorni così enormi, così pieni di spazio, di sole, di vento e di calore.

 Guidi verso la X che avete disegnato sulla mappa qualche giorno prima, sorridendo con le labbra punte da quel pensiero limpido come una lacrima. Duro, vero, potente, lo guardi ancora, il pensiero, attraverso il parabrezza, dietro il paesaggio che scorre placido e ingiallito dal ferro da stiro della canicola. Te lo senti già da ora, che anche il momento verso il quale stai andando sarà pieno, grande, forse scotterà anch’esso come l’emozione trafitta che ti stai portando dietro tranquilla, rigida di tristezza ma senza alcuna inquietudine. Scindere questo da quello non si può, sei venuta su così.

E arrivi alla X.
E d’un colpo tutte le parole sprofondano nelle voci, nei sorrisi, negli abbracci. Tutto va al suo posto nelle cuciture del paesaggio, anche quel dolore lontano che aderisce alle pareti del tuo cranio come carta da parato.

Eccoci qua.
Eh.
Essì.
Maaaaaa, che caldo.
Mare?
Massì!
Avete paura di camminare un po’?
No! – in coro.

Come succedono, a questo mondo, alcune cose? Come si fa che all’improvviso uno si incontra, e ride, e parla, e ascolta, e sta – non si sente, ma proprio sta – libero dentro qualcosa, finanche dentro un pronome? Del tipo, come dice lei: vai che ti teniamo. O, in altre parole: tranquilla, tanto abbiamo gli asciugamani.

Perché ecco, ci sarebbero anche i nomi, a volerla dire tutta: una preposizione, una congiunzione (ma anche interiezione, col risvolto double face tipico dell’outsider) e un articolo – pensi, chiacchierando  nel benefico refrigerio del mare di Trieste, quando la montagna che incombe sull’acqua ti fa all’improvviso sensazione di casa tanto somiglia a certi angoli di Costiera. Il mondo come le stagioni, lo stesso ma mai uguale. E voi lì, intanto, incastrate in quell’interstizio tra roccia e acqua, come un po’ tutti i vostri tri-aloghi che appena trovano uno spiraglio tra una parola e l’altra si mettono a scavarlo fino a trovare tunnel, passaggi, viaggi. E questi nomi, che tanto somigliano alle piccole forze che sostengono le frasi. Si potrebbe sorriderne di qui a dieci anni.

Poi la risalita, la caccia, le frasche che non avevi mica mai seguito prima, tu, e la meraviglia che ti scompone la faccia come ogni volta che ti piglia quella sensazione: e chi se lo sarebbe mai immaginato?

In un’osmizza lontana anni luce dal mondo che conosci, dopo, con calma, col tempo che va un po’ come cavolo gli pare, ancora meglio: che bello.  Si consuma ancora una volta, antico, il rito dell’incontro tra viaggiatori: racconti, brevi silenzi, un pasto buono, povero, sostanzioso.

{E un bicchiere è per te, che stai su un’altra sponda di questo stesso mare e so qualcosa che non vorrei sapere, e cioè che quando le parole torneranno saranno diverse, perché nel frattempo qualcosa di te sarà stato sepolto. Ed è per te, questo bicchiere, perché il vino è nero e si chiama Terrano e no, invece di scottare questo momento ha accarezzato, calmato, rinfrescato a suon di acqua e sudore e cibo condiviso, e questa compagnia ti sarebbe piaciuta, e perché quello che succede adesso qui è successo uguale uguale altrove, quel giorno. Sapevo che, a sporgermi sul baratro, non sarei finita giù. In a safe manner, così succede, anche quando si tratta di camminare sulla terra che ci si sta rivoltando contro. Ma sono cose che si possono ancora dire, queste? No, non viviamo più nel tempo giusto, pare. E allora, come tutte le cose umane che non hanno un fine, resteranno dove sono, nello sconfinato territorio del nondetto. Nel caso specifico: sotto un vecchio tiglio che non vedrai mai, a metter radici su una terra rossa dove nelle sere d’estate qualcuno che parla una lingua che non conosci continuerà a brindarci sopra, quando anche noi saremo passati oltre e il fatto che qualcosa nonsipuoddire sembrerà solo una sciocchezza come un’altra. Staranno bene, qui, queste cose, e anche loro potranno sporgersi sul vuoto in a safe manner. Alla tua, allora.}

Ma sì, di arrivare fin qui, a questa X, per queste vie lastricate di parole che si muovono sui 25/4 di un conto comunque quadrato (il quarto c’era, dietro le spalle di ognuna e per ognuna diverso)… ma chi se lo sarebbe mai saputo immaginare?
Devi tenertelo così, come le dicevi ieri, questo piccolo tesoro che non sai dire.

Le tre lettere di un pronome, tre voci, da tre posti diversi.
Chi se lo sarebbe immaginato questo intero, questa canzone a tempo dispari come voi, come noi?

La mappa non è il territorio

domenica, 29 Luglio 2007

direzione N —> E

° "Apri?", "ok", "oddiochiudi!"

° "Ciao ma’… siamo partiti…sì… da una mezz’ora scarsa, più o meno…"

° "… e lo sai a cosa servono le righe, sul segnavento?"

° "Pronto? Buongiorno, vorrei segnalare un incendio…"

° "…e il miele… e poi fanno ‘ste ciambelle di pane lievitato poco poco coi semi di anice dentro che venivamo a prendere il sabato al mercato…"

° "… sta in alto in alto, mi diceva il nonno, per questo si chiama così…"

° "Miii, e che càuro, oggi…"

° "Che dici, ci fermiamo a mangiare?"

° "Speriamo casomai che a Roma non c’è traffico…"

° "Ho mancato Colleferro!"

° "Oh, finisce che ce la caviamo con poco…"

° "Evvai!"

° "Mmmh, nuvole…"

° "Uah, ma magari piovesse un po’…"

° "Mi passeresti l’argent, por favor?"

° "Uh, che sonno… ci diamo il cambio?"

° "Roooonfff…. rooooonfffff…"

° "Uh? Eh?… ah… iaaaaahhh… oh, già qua, siamo?"

° "Rooooonfffff…. roooooonf….. rooooooooonf…."

° "Ehieeehi…", "… mpfff… eeeeh… npfh….", "eeehi… su, sveglia, siamo a Resina…", "mmmh, e che è, ce vulimm’ vénnere ‘o cappotto viecchio*…?"

° "Merendaaaaaa!"

° "AH!"

° "If I can only reach youuuuu… If can make you smiiiiiile… If I can ooooonly reach you, that would realy be a BREAKTHRU!"

° "Vorrei farti notare che questo è almeno il quarto San Vittore che incontriamo in un mese", "e si vede che sarà gettonato, che ne so…"

° "No, ma tu hai capito? Guarda, ma se lo fa un’altra volta, gli… gli… gli seco le cosce!"

° "Oh, abbiccànn’ l’autostrada…"

° "No… non mi dire che quella è coda…", "eeeh, no… cioè sì, lo è" – TUD! (craniata su volante)

° "AAAAAAAAAAAAAAAAHHHHH!" (in coro, dopo due ore di coda)

° "Iaaaaaaauuuuuuaaaah!", "sonno?", "no, oggi no…", "ah, mi sembrava di aver sentito due ganasce scollarsi…"

° "Non facciamo schersi, ah!"

° "Eh… eh, sì… dove siamo adesso, dici? Aspe’…", "siamo al Foro Boario!" (ride), "… eh, siamo a Foro Boa… a Boara, mamma, BOARA!" (ridono, al telefono e in auto)

° "Uh, guarda, qua ha piovuto…"

° "Eccolo!"

° "….."

° "Uh…"

° "Siamo tornati ai Ponti Rossi, eh…"

° "…."

° "…." (tremano)

° "Liscia!"

° "Par vardar dentro i cieli sereni, / là sù sconti da nuvoli neri, / gò lassà le me vali e i me orti, / par andar su le cime dei monti./ Son rivà su le cime dei monti, / gò vardà dentro i cieli sereni, / vedarò le me vali e i me orti, / là zò sconti da nuvoli neeeeeeri?"

° "Ooooh, guarda…"

° "Dove le tre province si incontrano…"

° "Aaaah, che fresco…"

° "Sì.. sì sì, arrivati… ciao, eh, a domani"

° "…." (sorridono)

* Resina: grande mercato dell’usato di Ercolano (Napoli) nato durante la Seconda Guerra Mondiale, quando si smerciavano oggetti e vestiti trafugati ai convogli americani. Ancora oggi in piena attività.

SS265 e 1515: amore al centocinquantesimo avvistamento

martedì, 10 Luglio 2007

[Sabato 7 luglio 2007, ore 20 circa]

CorpoForestalebuonasera?
– Buona sera, salve, vorrei segnalare un incendio nella zona di Aversa San Lorenzo, lungo la Statale dei Ponti della Valle.
Sì, allora, mi dica…
– Dunque, andando verso Caserta si trova poco prima dell’uscita di Aversa-San Marcellino…
Sì…
– Potrebbero essere sostanze tossiche…
Mh. Perché, di che colore sono i fumi?
– Nero, soprattutto, e grigio.
Densi?
– Sì, parecchio.
Ci sono edifici vicini?
– Sì, il cumulo che brucia è accanto a un casolare abbandonato, sulla strada… vicino ci sono delle serre, e poi sì, delle case a pochi metri…
Quindi… (ripete le informazioni ricevute)… giusto?
Sì.
– Bene. Si allontani dalle vicinanze, e se ci sono altre persone faccia allontanare anche loro… e anche se è alta, non fermatevi sotto la nuvola di fumo. Ha capito
?
– Sì, certo.
Bene. Grazie, e buona sera.
– Grazie a lei, buon lavoro.
Grazie.

*click*

[dieci minuti scarsi dopo]

CorpoForestalebuonasera?
– Buona sera, ehm, vorrei segnalare un piccolo incendio…
Sì, mi dica… dove?
– Dunque, lungo la statale dei Ponti della Valle, direzione Caserta, si vede questo fuoco su una sponda dei Regi Lagni, nel tratto che costeggia il viadotto della TAV… verso Gricignano, più o meno.
Ma lei ha chiamato anche poco fa?
– Eeeeeh… sì… però non mi pare di aver parlato con lei, come fa a…
Ho davanti la lista delle segnalazioni e vedo che l’ultima è di qualche minuto fa, e sempre su quella strada.
– Ah. Eh…
…e quindi ce n’è un altro sulla stessa strada?
– Eh, sì…
Va bene… allora, come sono questi fumi qui?
– Grigi… no, marroni. Giù di lì. Non particolarmente densi.
Mh. E’ isolato?
– Sì, è in mezzo ai campi… non ci sono case qui, è aperta campagna…
Ok… e ne vede altri da lì, per caso?
– Ehm, no. Per ora no.
Per ora, dice bene. Quindi, ricapitolando… (ripete le informazioni ricevute). Giusto?
– Sì sì.
– Perfetto.
Grazie, e buona sera.
– Buon lavoro a voi.
Grazie.

*click*

[Domenica 8 luglio 2007, ore 11 circa]

CorpoForestalebuongiorno?
– Buongiorno, salve, vorrei segnalare un incendio boschivo nella zona di Caserta…
Sì, mi dica…
– Dunque, è sul versante ovest della collina di Garzano, tra le cave di San Michele e quella di Garzano, appunto…
Sì… entità? E’ un piccolo focolaio, o…?
– No no, è piuttosto esteso…. grosso.
Cosa intende per ‘grosso’?
– Intendo che si vedono due ali di fumo, saranno i due fronti che si sono allargati nei due sensi opposti dal centro della collina…
Ah, ma è precisa… si trova lì vicino?
– No. Lo vediamo adesso dalla Statale dei Ponti della Valle, verso Teverola, saremo più o meno a quindici chilometri…
Oh. Allora sì, è grosso.
– Eh.
Signorina, scusi…
– Prego?
No, mi scusi… ma lei  che ci fa tutti i giorni su quella statale?
– EEEH? Prego, scusi?
Ero in turno anche ieri, ho preso una delle due segnalazioni che ha fatto verso sera.
– Eeeeeeeeeeeeeeeeehmmmmmm….
Eh eh eh
– Eeeeh…. comunque… va be’… no, è solo che ci passo molto spesso…
Be’, ce ne siamo accorti.
– Eh… vabbe’, devo chiamare un fuoco sì e uno no, magari?
Eh eh eh…
– …
..ah, ma mi scusi, è che ultimamente la stiamo sentendo nominare spesso, questa strada
– Lo immagino, qui ormai se ne vedono tutti i giorni…
Ah, se è per questo non si finisce mai
– … purtroppo.
Purtroppo, sì. Comunque, l’incendio allora è… (ripete le informazioni)? Ed è boschivo, ha detto, giusto?
– Sì.
Ok, grazie.
– Buon lavoro, e buona domenica.
Eh, grazie.

*click*

Mi scappa un sospiro. Lui guida, accenna un sorriso, amaro e divertito insieme.

Ma se po’ maje fa’ semp’ chest’, dico io…?
– Le figure di merda o le chiamate alla Forestale?
La seconda che hai detto. La prima è il motivo per cui stavo pensando di cominciare a registrarle
– Tu stai male…
Ma no, secondo me se la gente sapesse le risate che ci si può fare col 1515… dico, magari chiamerebbe più spesso!
– Eh. E a noi ci denunciano per istigazione alla segnalazione inutile, poi.
E vabbe’, ma vuoi mettere la prevenzione antincendio?

Nomina nuda tenemus (ovvero: l’esercito degli zii – Primo episodio)

domenica, 24 Giugno 2007

> ok, poi appena sapremo il sesso cominceremo a decidere il nome
> naaaaa! Non esiste, faranno loro…
> decidono loro due insieme a noi due
> ahahahahahahah!
> e il mio voto vale per tre e in caso di parità prevale.
> ah, vabbuo’, allora puoi prenderti anche il mio…
> mi deleghi?
> sì sì, qua’ problema?
> ok… allora, se è maschio si chiamerà Lemmy
> azz’… e se è femmina? Doro?
> non sia mai
> Lisa?
> no, troppo banale
> ahe’… Anneke?
> No. Se è femmina si chiamerà: Toward the Within.
> …
> Mbe’, col cognome suona bene…
> …
> no, è che non sono esperto di nomi femminili.

“Scusate, ma lo vedo solo io?”

lunedì, 18 Giugno 2007

Uno fratto Uno = φρενες

venerdì, 15 Giugno 2007

Dell’odore metallico e polveroso di corde di bassi e chitarre. Di sguardi posati su una necessità di distrarsi più forte di qualsiasi cosa, persino di quelchevvèro. Di pensieri altrove, di parole e mondi che si sfiorano con lo scarto di una sola lettera. E dicono direzioni, e mostrano che puoèssere ma soprattutto anche no. Della tensione su cui corrono veloci differenze e sembianti e contorni e somiglianze. Del vento che disegna le nuvole, in trasparenza. O è il contrario?

Era mai successo, prima?

Di vento e voci, di respiro e cielo. C’è. Ci sta. Dentro. Gravità. Dell’aria la corrente, e l’indivisibilità di uno spasmo. Ci si sta: sopressòtto, dentreffuòri. 

E’ mai successo, prima?

Siamo quassù, e ti racconto: mi hanno detto frattura là dove tutto era intatto, e già solo che l’hanno detto s’è aperta una crepa che ha per l’appunto rotto, spaccato, lacerato. E adesso devo rimettere insieme i pezzi, ma non so da dove cominciare.

E’ mai successo, prima?

Schiena contro schiena, le tue parole mi arrivano a fiotti attraverso la cassa di risonanza dei polmoni. Ti sento parlare da dentro, e il suono viene dal basso, dietro lo stomaco. Se metto un solo centimetro d’aria qui in mezzo, non ti sento più. Mai più. Interi, non divisibili. No, anzi, il numero è sbagliato. Intero. Siamo. Noi? Che strano, ‘sto plurale che si fa uno nell’arco della stessa frase. Noi siamo un intero. Ehilà, ma guarda.

E’ mai successo, prima?

Da dietro lo stomaco arrivano le parole aprendosi a ventaglio, da dentro, tra le spalle e il petto, fin dietro la nuca, e lì pizzicano a piccole scariche irregolari tra i capelli. In campo, hai risposto. Coltivare, hai detto, forse potresti ricominciare da qua. Eh. Ma che significa stare in campo, con le parole, ti chiedo, e anche coltivare… non ho capito, che vuoi dire? Eh… dimmi una cosa: come coltivavi la tua terra, tu? A piedi scalzi. (La prima cosa che m’è venuta in mente, la sensazione più forte che mi resta di quel tempo: che era grassa, lei, e ai piedi dava più spesso morsi che carezze. E a ogni stagione te ne grattava via uno strato.) Uh. Forte, ti sento parlare da dentro… non ti muovere da come stai!, ti distrai un attimo e ridi, e rido con te di rimando per la stupidità di aver creduto che sarebbe stato stupido dirlo, che ti sentivo anch’io parlare da dentro. E poi? E poi… e poi niente: nutrendo e pazientando, soprattutto, e tenendo le orecchie ben aperte perché la terra fa un sacco di rumori, diceva mio nonno, e con quelli ti dice sussulti e singulti, bisogni e conati, richieste e rifiuti. Imparando a darle quello che vuole, e insegnandole ad accogliere quello che ti serve far crescere. Cose così. Ah, ho capito, hai detto da dentro, allora si tratta di… andare insieme. Come per la musica, no? E certo, ognuno traduce le cose nella sua lingua, eh. Allora è questo? Imparare ad "andare insieme"? Be’, io lo chiamerei concerto, ma penso sia lo stesso. Tipo adesso, vuoi vedere?
Eh?
The wind is in from Africa, last night I couldn’t sleep…

E’ mai successo, prima?

La penna, le corde e la voce. Eco. Di carne. Che corre da una spina dorsale all’altra e si propaga fino alla punta delle dita e finisce sul foglio che restituisce un campo coltivato a piedi scalzi e due voci che si ascoltano parlare da dentro e non possono in alcun modo essere divise senza esserne lacerate, senza che fra di esse si crei una frattura che farebbe cessare sia la musica che le parole. Ma tu hai ragione. Siamo chiusi tra parole e mondi, uno canta e l’altra imbratta fogli, e pare che non io, non tu, ma noi stiamo sprofondando, no, anzi, qua è tutto così leggero, no, semmai ci stiamo sfondando (s-fondendo?) a vicenda un argine da qualche parte, dall’interno, o forse stiamo provando a sfondare il tetto su cui siamo seduti, a sfondare il tetto delle cose che non sappiamo dire al di fuori di uno di questi due modi – la penna, le corde e la voce – al di fuori di uno di questi due mondi. Lend me your ears and I’ll sing you a song, e  quell’and è il punto esatto in cui le spine dorsali si toccano e due forze opposte si mettono d’accordo sostenendosi a vicenda senza bisogno di altri punti d’appoggio, e allora sarà mica questo l’intero di noi su questa terra che si coltiva così, a zappate di spazio e distanza, carezze e mazzate, piccole epifanie e scarcerazioni eccellenti? Cioè, il fatt’è quello… per me era un punto di congiunzione, che so, tipo un link… non una frattura.
Aaaah, ma qua’ frattura e frattura! Ma te l’hanno insegnato quanto fa uno diviso uno, a scuola, o no?, protesti in malo modo a un certo punto per quest’ovvietà che secondo te avrei dovuto vedere ben prima di questo momento. Pensa a quello che stai a ffa’, piuttosto. E va bene, va bene… senza risponderti appunto sul foglio che mi canti nello stomaco e nei polmoni, e ti ascolto ascoltare la mano destra finalmente guarita che si muove a piccoli strappi, ché se si ferma adesso le corde non ti suonano più, mentre io mi tendo verso la tua voce, ché se non la sento più venire da dietro lo stomaco poi finisce che mi finisce l’inchiostro nella biro. Ma come funziona, cavolo, da dove viene ‘sto segnale che s’è messo a circolare in circolo propagandosi su per diaframmi, stomaci e polmoni…?
Oh, you’re a mean ol’ daddy, but I like you…

E’ mai successo, prima?

Che poi adesso è il ventisei marzo ed è prima del giorno in cui pedaleremo in quella campagna lontana dove non avrei mai immaginato di arrivare insieme a un amico, e dove quello che sta succedendo adesso si ripeterà, sotto altra forma ma esattamente allo stesso modo. Tu ancora non hai gli occhi pieni di Trieste e io non ho ancora piene le orecchie della tua voce che non ha smesso di cantare per tutto il viaggio… eppure qui quello che sarà in qualche modo già è. Solo poche ore, anzi, e saremo in partenza, siamo già quasi pronti ma ci siamo fermati un minuto qui, sotto il cielo della Strada che promette violenta tempesta, costellato com’è dai gabbiani del disastro, sulla soglia, in questa bolla di gravità sospesa che pesa e non sprofonda, nuda e senza paura, intera e intatta, accaduta già chissà quante e quante volte a questo mondo eppure mai vista prima d’ora. E che forse per questo non potrà essere lacerata. O che, se verrà lacerata, troverà il modo di guarire la propria frattura e continuerà a viaggiare, rimarginata. Piena di punti e bende, vabbene, ma inestinta.
Era questo che intendevi? Mbe’…

Ma è mai successo prima?

Ovvio che è successo, che domande so’? Andiamo a chiudere le valigie, forza.
Andiamo?
Eh, andiamo.
Noi?
Eh, noi. Il biglietto per quante persone è, scusa?
Mh.
Oh, ma che è? Pare che non l’hai mai sentito prima, ‘sto pronome.
Oh, ma i fatti tuoi tu mai, eh?
No, I said: oh, you’re a mean ol’ daddy, but you’re out of siiiiiiiiiiiiiiiiiiiight….

(ma chi la mette in circolazione, certa gente?)