"E’ giusto", disse il soprintendente. "Nelle saghe antiche si fa distinzione tra persone ed eventi. Ci sono eroi e uomini da poco. Ci sono grandi eventi e quisquilie. O per dirla meglio, gli uomini da poco e le quisquilie non vengono ammessi nelle saghe antiche, di preferenza. D’altra parte la vita mi ha insegnato a non fare distinzioni tra eroi e uomini da poco; tra grandi eventi e quisquilie. Dal mio punto di vista, uomini e avvenimenti sono tutti più o meno alla pari".
*
A vent’anni volevo essere come certi islandesi o svedesi, insomma quella gente di un nord immerso nella stessa luce di certi posti che avevo visitato a occhi chiusi da bambina, capace di mettersi a guardare i granelli di polvere che passano nel cono di luce della lampada sulla scrivania e vedere agitarcisi dentro le visioni notturne dell’umanità intera. Volevo essere come quelli lì, che sapevano il freddo e la voce del ghiaccio, sapevano il tutto e il niente delle stagioni che si contraevano o dilatavano all’infinito, a seconda di come girava il vento.
E invece poi no. Sono nata in un posto caldo dove la luce è dura e non c’è posto per le visioni di nessuno, di giorno come di notte, sicché la fatica più grande per chi ne aveva era cercare di resistere, tenerle in vita, far loro manutenzione, magari tenerle per un po’ sotto chiave, almeno finché non diventavano così grandi da mettere le gambe e così intense da non poterle più trattenere, ed essere costretti a lasciarle andare. Nella luce dove sono nata era – ed è ancora – così: bisognava evitare di lamentarsi se qualcosa ti si agitava dentro, e a quel qualcosa bisognava dare da mangiare di nascosto rubando la verdura cruda dall’orto del nonno fino al giorno in cui il qualcosa stesso ti avrebbe chiesto con la forza della sua propria voce di essere liberato. Il rischio era che la pazienza si trasformasse in un carceriere troppo duro e il qualcosa andasse a morire prima del tempo, ma che ne sapevamo? Si doveva pur trovare il modo di dormire, tra un sogno e l’altro. Bisognava provare. Ma nella luce in cui tutto doveva e poteva essere solo reale, qualcosa era un nome che non giustificava spreco di cura, di sguardo, di voce. Qualcosa non era cosa, e quindi non si poteva impiegare alcuna forma di energia, o di tempo, per cercare di capire, un domani, la forma che avrebbe potuto prendere. Non era certo, quindi non c’era verso. La luce del sud da cui vengo era così: i sogni non erano segni, i segni non avevano niente a che fare con i sogni, e quell’unica vocale che li separa era il più invalicabile dei confini. Cercare di metterli in comunicazione era una sorta di abominio, e se per caso nella luce veniva fuori qualcuno che scopriva che quella vocale poteva essere anche una porta, una membrana morbida e porosa da cui poteva passare di tutto, apriti cielo. In quella luce, tutto quel che non è vero non ha diritto di esistere, e così ecco che l’unico modo per venirne a capo era rimettere insieme quello che avevamo a disposizione in un altro modo, già solo cambiando l’ordine delle cose quello che veniva fuori era diverso da prima, stavamo già immaginando e non lo sapevamo, segno e sogno si confondevano ma ci avremmo messo una vita intera per capirlo, in quel momento la sola cosa che importava era che finalmente c’era qualcosa che era vivo anche se non era reale, ma che ugualmente era vero, era nostro e neanche la luce tagliente del mediterraneo avrebbe potuto sottrarcelo, se solo avessimo avuto la pazienza di aspettare, di aspettare ancora solo un altro poco.
*
E la nonna disse: "Il nostro Björn ha sempre voluto che il piccolo Grìmur avesse da noi qualcosa che nessuno potesse portargli via in qualsiasi momento. (…) La ricchezza è quello che gli altri non possono possono portarti via".
*
– Occhei, ma comunque perché dici noi?
– In che senso?
– No, perché noi è sbagliato. Non c’era nessun noi. Tutto vero sulla questione del qualcosa, per carità, ma una volta che c’avevi ‘sto qualcosa che dici tu era finita, finiva tutto, finiva lì. Bastava provare a parlarne una volta e capivi che qualcosa t’avrebbe rovinato la vita.
– Essì, c’hai ragione.
– Ma tu ti ricordi che piccoli cuòppi di silenzio che eravamo?
– Sì, mamma mia. Quei tremendi maglioni anni novanta e tutte quelle lettere…
– Ci scrivevamo lettere perché non sapevamo che altro fare, come cavolo si maneggiava quel qual-cosa…
– … che non si poteva dire?
– Ecco. Non aveva nessun senso, ma eravamo sempre così… agitate.
– Vero. E di qualsiasi cosa si trattasse, non si riusciva a parlarne. Che due palle.
– Sì, ma chissà perché, poi? E quello era anche ben prima dei vent’anni. A volte penso che sia tutta colpa della Brizzi.
– Ummadonna, sì… noi c’avevamo pure l’aggravante della professoressa che ci aveva messo in testa che chi non ha paura di farsi il culo a tarallo può cambiarle, le cose.
– Già, e così diventava una guerra. Tra quello che c’avevi dentro, quello che non si poteva dire fuori, e quegli altri momenti ancora, in cui qualcosa sembrava possibile.
– Eh, guerra. Non diciamo cazzate, la guerra la facevate casomai tu e quell’altro, che eravate così belli e bravi e ottimisti. Io c’avevo solo il panico.
– Ah, sì, me lo ricordo, quell’anno che bastava dirti una certa frase per farti scoppiare a piangere a comando.
– Però è vero, che non c’era nessun noi. Non ancora.
– Sì. Cioè, mi piangevi come una fontana tra le braccia tipo una volta a settimana, ma io mica sapevo bene perché.
– Be’, ma non aveva tanta importanza, penso. Sapevi che io avevo qualcosa, come era per te. Tu scrivevi sempre, ma io mica sapevo cosa. Funzionava così, non c’era bisogno di sapere molto altro. Poi abbiamo messo via tutto dietro una porta blindata, se non altro per una questione di sopravvivenza. Siamo sempre rimaste separate, finché ognuna di noi non è stata inghiottita dal suo personale delirio. Solo allora…
– … è venuto fuori noi.
– Sai che a volte mi chiedo come abbiamo fatto a venirne a capo.
– Non era questione di venirne a capo. E’ che c’era quest’idea comune che i nodi si dovevano sciogliere. Invece no, bisognava conservarli, ma che ne sapevamo.
– …
– …
– Comunque era proprio il Diaz, che era un posto strano.
– Già. Taricone, Saviano, tutti quei professori che sembravano usciti da un racconto di Tunström… e anche qualche altro, che però è rimasto un po’ più nascosto. A te ti credevano, a raccontarlo?
– Veramente sembrava così poco credibile anche a me, quando ci ripensavo, che credo di aver fatto il collegamento ad alta voce e in presenza di qualcun altro solo una volta.
– Eppure è successo. E c’eravamo anche noi, quella massa amorfa sprofondata dentro quei maglioni troppo larghi, sullo sfondo…
– Già. Facevamo un po’ arredo urbano. Mi sembra giusto, dopo tutto. Eravamo tra quelli che alle occupazioni stavano a sentire bevendo i discorsi intorno perché tanto chi lo sapeva, cosa voleva dire avere un’opinione…
– … o quelle quando passava il bel rappresentante d’istituto di turno facevano lo sguardo da pesc’ ‘a bbrodo.
– Infatti. Però mai uno che ne parli, di quegli anni. Secondo me c’hanno un po’ di risentimento, col periodo della scuola.
– E perché? Vorresti sentirti dentro un racconto che ti riguarda solo di striscio? Compagni di scuola, così si direbbe, anche se poi uno era in quinta e l’altro in terza. Il problema è che queste cose sono espedienti narrativi così suggestivi e pericolosi…
– … eh, pericolosi soprattutto. Hanno una luce così strana che a maneggiarla si fanno più casini che altro. E conoscendo i personaggi, la tireranno fuori al momento meno opportuno.
– Probabile.
– Vabbe’. E insomma, cos’è successo dopo?
– Ah, sì, be’… niente, che seguendo i binari siamo arrivati a Pesche.
*
E’ passato un anno e mezzo, giusto giusto.
Dice: ma perché, Pesche ha una stazione? Sì, papà. Dove? Se ho guardato bene la cartina, dovrebbe essere subito dopo la curv… ECCOLA!
E dunque ce l’avevamo qua davanti al muso da una vita, ma ti rendi conto? Chi l’aveva mai cecàta? E sì: una casetta rossa accanto a un passaggio a livello, incorniciata di lillà. Mi spieghi chi la vede? Ma c’è la scritta! Eh, si vede che non sappiamo più leggere. Attenta, adesso che giri… ecco! Scendi, scendi!
*
Padri: sempre divisi tra entusiasmo e prudenza, quando ci sono di mezzo i figli, e poco importa se il "figlio" in questione è una donna sposata che ha passato i trenta.
– Ma finiscila. A chi vuoi lo far credere che di tuo, in genere, ti comporti come una signora di trent’anni?
E lui nemmeno lo sa, che ancora coltivo quella specie di dialoghi muti con le Voci udite e lette durante i chilometri accumulati a spasso per il pozzo-paese… dialoghi che somigliano un po’ agli amori dei quindici anni coi cantanti, solo ancora più intimi, ancora più segreti, che ti scavano e ti si attaccano ancora più a fondo, a volte in certe parti di te che prima di incontrarle, le Voci, nemmeno conoscevi. Non lo sa, dico, e allora come fa? Sono tante, a dire il vero, le cose che non ha mai saputo di me, ma così, solo perché ci sono cose che le ragazze non dicono ai loro padri, e punto.
*
Adesso è diverso, però. Adesso ogni tanto posso persino ricordarle ad alta voce, alcune cose. Quando ho tirato fuori la storiella di quel panico durato per tutti gli ultimi tre anni delle superiori, mi ha risposto pensieroso e tranquillo, mentre si rigirava tra le dita una vite da sei etti per il fissaggio dei binari che aveva appena trovato sulla massicciata, ricordandomi che anche in quarta elementare mi era successa una cosa che mi aveva fatto venire un panico a lungo termine, e che il nonno per farmelo scordare ogni tanto mi faceva passare interi pomeriggi sulla linea tra Caserta e Benevento sui mezzi di manutenzione guidati dai suoi amici non ancora in pensione.
– Tipico tuo, insomma.
*
Ormai, da quando il baricentro della mia vita si è spostato sempre più di là rispetto al qua di prima, queste passeggiate lungo la linea di ferro e carne che attraversano il pozzo sono diventate una specie di buffo rituale di memoria, un periodico ritorno a casa che ci riunisce e insieme ci fa ancora sentire in qualche modo il polso (debole, per la verità, ma tenace) del mondo da cui veniamo. E allora ci divertiamo così, svoltando improvvisamente sulle statali, inforcando le stradine laterali annunciate da un certo, preciso cartello

e nelle quali il passaggio a livello è una porta, un passaggio di livello verso l’altro piano del paesaggio, quello in cui si affonda coi piedi come radici, come semi nella terra appena arata. Eppure non è un paesaggio da cartolina, quello del pozzo-paese profondo, il più delle volte.
E appunto anche oggi è così: è aprile di un anno e mezzo fa, e dalla statale la stazione somiglia ad un casello, attaccata com’è alle sue sbarre non custodite.
[ – Lo è, infatti. Questa non era una stazione. Era una fermata.
– Che differenza c’è?
– Lo vedi che non ci sono scambi?
– Eh.
– Quindi non ci si possono fare manovre. Ci si può solo fermare e ripartire, basta. ]
E dico, non ci potevano fare una stazione? No, non era possibile, anche se Pesche era un paese piuttosto grande rispetto ad altri che ce l’avevano. E’ che la statale, la ferrovia, la costa della collina… è il mondo intero che qui fa una curva, non si poteva fare altrimenti: là la galleria, qua la curva, l’unico modo per farci stare una fermata deve essere stato quello di fare un marciapiede davanti al casello e piazzarci sopra la scritta "PESCHE", qui dove i binari si distendono per qualche decina di metri prima che il pianeta si inarchi definitivamente verso Castelpetroso.
Dalla statale, allora, in effetti la fermata è solo una scritta blu su un fondo rosso spellato dall’abbandono che appare e scompare per un momento tra la sterpaglia… ma appena passato il livello, ecco che si vede: una bella banchina lunga, i due altissimi pini neri d’ordinanza in dotazione a tutte le fermate non richieste, l’ex caseggiato dei servizi convertito in cabina ENEL, l’ultimo orario ancora al muro, dentro un tabellino di plastica crepato dal sole che però ha permesso alla carta di sbiadire un po’ più lentamente di tutto quello che c’è intorno. Anno 1988. Non lo tocco: ho paura di sbriciolarlo al più piccolo contatto.
*
E poi, non lo so, succede che a un certo punto me lo perdo: oltre il passaggio a livello anche lui lo sente, il passaggio del paesaggio, si inoltra un po’ nella curva della banchina, verso la linea che buca la collina, mi dà le spalle, comincia a camminare ed ecco, passa di livello, con le mani giunte dietro la schiena e lo sguardo al suolo. Non fa più di qualche decina di metri ma ormai è lontano, a spasso tra un mucchio di viti, molle e giunzioni arrugginite abbandonate a lato della massicciata forse dopo l’ultimo intervento di manutenzione, e mentre se ne rigira una tra le dita si fa ancora più lontano, è sempre lì nella curva ma per la distanza che ho negli occhi adesso non può più essere raggiunto. Per molti mesi dopo questo giorno sognerò di vederlo andare via così, di schiena e in silenzio, proseguendo fino a sparire nel buio della galleria che buca la montagna di carne e il mio stomaco di pietra. Una notte, più profonda delle altre, sentirò persino il buco aprirsi piano, appena sotto il torace, le ossa allargarsi con un dolore quieto, e il vento di ferro e polvere della galleria passarmi sulla carne di pietra viva con un brivido secco e tiepido.
Padre passato, padre lontano, dove andavi nei miei sogni, in quelle notti estive in cui si preparava a partire, calmo, chiassoso e inesorabile come un merci in discesa, il mio destino? Quel giorno c’eri ma non potevi essere raggiunto, in quelle altre notti eri lontano e mi bucavi le viscere sparendo nella galleria ai piedi del Monte Patalecchia ma non ne volevi sapere di lasciarmi. Ma l’ho già provata questa cosa una volta, anzi due – ho detto ad alta voce mentre tu eri dall’altra parte dell’universo e le sbarre si abbassavano tintinnando, e intanto abbiamo aspettato quel piccolo treno che non si sarebbe fermato alla stazione, così, lontanissimi, quel giorno e tutte quelle notti a seguire, tanto che dopo un po’ non sapevo più se era passato o se sarebbe stato futuro, prima o dopo, quella galleria e quel momento in cui, passato il treno con un soffio, te ne saresti andato a piedi nel buio del buco che sapeva di ferro e polvere senza dire niente, senza guardarti indietro, senza nemmeno un cenno della mano. Come il nonno, come tuo padre prima di te. Ed è vero che non ci sono uomini o avvenimenti, qui, non c’è stata distinzione fra quello che era o sarà, e per essere onesti oltre il ciglio di questo pa(e)ssaggio a livello non c’è stato nemmeno un presente, quel giorno, ma solo un corto circuito che mi resta nell’intestino a preparazione, forse, di qualcosa che sarà stato, un domani, presto o tardi, fin da quando ero un cuòppo di silenzio con dentro qualcosa.
*
Picture yourself on a train in a station
with plasticine porters with looking glass ties.
Suddenly someone is there at the turnstile,
the girl with kaleidoscope eyes.
*
– Oh, che è, ti fa male la pancia?
– … eh?
Il passaggio a livello tintinna, le sbarre si alzano, io me ne sono stata per tutto il tempo incollata lì al muro, sulla massicciata, a guardare il treno passare stringendomi coi pugni la felpa sul ventre, tenendo stretto stretto tra le mani il nodo – perché che bisogna conservarli adesso lo so, e questo perché ho trent’anni anche se non si vede. Da qualche parte, in lontananza, ho anche sentito il fischio che la littorina mi ha lanciato, ma non c’ero, non c’ero, non c’ero, ma dove cazzo ero?
– Eh eh, accorta la prossima volta, il macchinista s’è spaventato quando t’ha visto.
– Sì… sì-sì… è vero, mi dovevo mettere più nascosta.
E c’è un lungo silenzio, screpolato e profumato di lillà. Ne stacca un bel grappolo dal ramo che mi pende sulla testa, e a me sembra che questo sia il niente più pieno di senso che mi sia capitato di vedere da almeno… quanto? Boh. Non lo so quanto, si vede che ero passata di livello anch’io.
– Andiamo, ché ci aspetta per pranzo e poi chi la sente.
– Tu, te la senti.
– Ecco… mo’ sì che si vede, che tieni trent’anni.