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Teròna, just keep going.

giovedì, 1 Aprile 2010

Ma ‘ndove xe che ti sìe finìa?

*



[Ernesto Calzavara, da Le ave parole, 1984]

*
 
   No, niente. E’ che nel frattempo, di stazione in stazione, cercavo la mia. E così sono andata a stare da un’altra parte. Sto invecchiando: ho voluto con tutte le mie forze un pezzetto di terra con cui fare una mente, accanto al letto. Come il nonno. E allora…
Adesso la mia porta si apre su una strada non finita, e la finestra davanti alla mia scrivania dà sul cartello che segnala il punto, no, la linea, il taglio nella tela del paesaggio oltre il quale la strada non può più andare, finisce, e c’è l’asfalto tranciato di netto che forma il gradino di una scala che per salirla o scenderla – transitivo è bello – basta un solo passo. Se scendi c’è un infinito di terra, intero, senza tagli o strade in mezzo. Se sali ci sono le case, una zona tranquilla, giardini belli, il vicino anziano che fa dieci chilometri a piedi al giorno. Finisce la strada, inizia il campo, enorme, l’ultimo vuoto che resta in questo larghissimo rettangolo di case, che buffamente non può penetrarlo ma soltanto fare da orlo all’immane testimonianza dell’immane testardaggine di un contadino che no, proprio non vuole vendere. Durerà ancora per poco, lo so, ma intanto questa enormità vuota di cemento è piena di girini dentro stagni pieni di avena sterile e lepri e gatti e cimici e sassi e zanzare e macaoni. Finisce l’asfalto, comincia il resto. All’altro capo di questa enormità, in fondo allo specchio, c’è il tronco di strada gemello di questo, cui un giorno dovrà congiungersi: l’assedio dura ormai da anni, è un punto scucito nella trama efficiente del piano regolatore, ma già so che questo cartello prima o poi se ne andrà, che lo scalino sull’enormità di terra morbida e grassa verrà cancellato e il taglio ricucito, e così mi attrezzo per serbarne memoria allo spuntare del primo cielo limpido.
Abito, mi sembra, per qualche tempo ancora su una soglia, alla sera la mia è l’ultima finestra illuminata prima del salto nel buio della terra nuda, l’ultima luce prima dell’altra parte. Per qualche tempo ancora questo mi sembrerà un casello, a guardia di un minuscolo passaggio di livello nel paesaggio di questo minuscolo circondario. L’ultima casa, dice in effetti il vicinato: ah, piacere, allora siete voi siete quelli dell’ultima casa? Sì, siamo quelli che stanno alla fine, o all’inizio, tanto è uguale, comunque lì, vede, dove poi un giorno si mischieranno da capo tutte le direzioni, e chissà cosa succederà. Noi siamo quelli che abitano sulla soglia dello spazio in cui il paesaggio presto o tardi cambierà.

No. Mi no me la voglio sparagnar, la vista del fora par vadar solo drento. No.
Strade che no se sa dove finisse ghe n’è ancora.
Dapartuto.

*

Ma dove vivo io il cemento è diventato come il mais nell’Unità d’Italia: un’accumulazione primaria di territorio… per la quale non ci chiediamo neanche se esistono delle alternative.

*
– Perché non sei venuta a salutarmi?
– Perché è successo di nuovo. Mi avrebbe fatto male.
– Ma io non voglio mica farti del male. Non ho mai voluto fare male a nessuno, io.
– Lo so, ma non puoi. Sei una Voce, succede e basta, è il tuo mestiere. E’ come il mais nell’Unità d’Italia: uno non si chiede nemmeno se ci sono delle alternative.
– Ecco. Ma no va mica ben.
– Be’, sì. Perdonami, sarà per un’altra volta.
– Aspetterai che diventi vecchio?
– No, dai. Mi farò semplicemente coraggio.
– Come quell’altra volta. Brava.
– Eh.
– E allora?
– E allora che?
– Com’è andata stavolta?
– Ma niente. Ti ho odiato, di nuovo.
– Perché?
– Due motivi. Uno: sapevo che dopo, cioè adesso, saresti venuto a rompermi le palle. Due: per il cemento, e la differenza tra abitare e risiedere.
– Eh… cosa.
– Niente. Su queste cose avevo già iniziato a rimuginare, a masticarle. Giorni prima, già un nel po’ prima di ieri.
– E…?
– E chitemmuort’, vabbuo’? Arrivo, e trovo ‘n’ata vota che tu l’hai già detto. Prima, meglio e comunque in un modo che mi fa mettere a fuoco quello che cercavo di dire.
– Ussignùr. E che c’è di male? E’ tanto brutto?
– E sì, cazzarola, sì! Non ce la faccio più, arrivi sempre prima tu… ma non è perché arrivi prima… è perché così non ci arrivo mai da sola. Mi fai imbestialire, perché io sono lì che ci lavoro giorno e notte per mesi, e poi voilà, arrivi tu e finisce, tu hai già segnato la strada. Così non riesco mai a sapere se ci sarei arrivata o meno!
– Mariavergine…
– Certe volte penso che farei bene a non venire più a cercarti. Se so che sei da qualche parte che posso raggiungere, girare al largo. Smetterla, anche con questa storia che mi hai aperto il cuore.
– Seh. Sono così tanti anni che lo ripeti senza dirlo. Questo vuol dire che non me lo dirai mai.
– Può darsi.
– E non ti vergogni?
– No. Qui posso non vergognarmi della verità, come quando sto con le mani e le braccia affondate nella terra, che posso sporcarmi senza sentirmi in colpa.
– Uh, che pensiero da nonna, questo.
– Lo diceva mio nonno, infatti.
– Va bene, sì, mi hai odiato anche questa volta. E quindi?

*

E quindi è successo che ho deciso di restare qui. Faccio cose da abitante, ecco. Mi lascio assaggiare dalle mosche, bruciare dal sole, attraversare dai lombrichi, che mi ingurgitano e poi mi cacano via, fertile e rinnovata. Sì, sto facendomi terra. E poi bevo acqua di rubinetto e dalle fontane pubbliche, passo interi pomeriggi a cercare di fotografare fiori di una piccolezza estrema, predìco l’arrivo dei papaveri e nessuno mi crede. I residenti mi guardano un po’ male perché sono l’ultima arrivata, ma chissenefotte.

*

Ieri ho attraversato il passaggio, sono andata oltre il segnale di FINE DEL MONDO: è lì che abitano i papaveri che fra poco verranno, e siccome lì non c’è cemento né asfalto a sostenere le suole delle scarpe nessuno ci va mai, e così nessuno sa che fra poco il grande campo al centro di questo piccolo circo massimo di case si colorerà del rosso più bello che l’Italia conosca sui suoi prati. Inizierà prima disegnando costellazioni mai viste prima, e poi alla grande mente del mondo cascherà il secchio, sembrerà un incidente – sembra sempre un incidente per quanto è improvvisa – questa colata di rosso che per tanti giorni cambierà la luce, dell’alba, di tutte le ore del giorno e della sera, fino al tramonto, dopo il quale andrà in quiete fino al mattino successivo. Faccio cose da abitante, dicevo, e vado a vedere cosa c’è oltre il cemento e vado a vedere cosa si vede da lì, del centro dell’altro piano del paesaggio, quello senza cemento, solo per capire com’è. E poi sto qui, sto qui e non mi sposto. Faccio la pianta e la terra, prendo le misure della luce del sole e non vado da nessuna parte: quando c’è il sole sto al sole, e quando arriva l’ombra sto al fresco. Una coppia di passeri mi sta alla larga ma mi studia. Sento il frullare dei loro piccoli voli prima alle mie spalle, poi a destra, poi laggiù (dove?) in fondo, poi sulla grondaia che ho appena sopra la testa. Guardo le nuvole passare, ascolto le voci dei vicini e il rumore che fa quando alzano e abbassano le zanzariere. Da lontano, il treno in corsa e il vento che fa danzare, morbido, il campo coperto di coda di volpe.

E’ vero, per la miseria: fare l’abitante è un ca-si-no.

*

– Ecco. Tu te ne vai in giro a pisciare sulle rotonde, io a farneticare ad alta voce nei campi.
– Continui a parlare da sola, quando sei in giro?
– E sì. Non me ne accorgo neanche, a volte, non lo faccio apposta.
– Sì, lo so. A me capita nelle stazioni.
– S’è alzato il vento.
– Sì. Sai dove sono stasera?
– No. Dove?
– Non te lo dico, scoprilo da sola.
– Senti…
– Cosa.
– Perché continua a succedere? Voglio dire, perché la tua voce non mi lascia in pace?
– Non lo so. Dovresti chiedermelo, un giorno o l’altro.
– Mi risponderesti?
– Non saprei. Io non sono mica io.
– Eh.
– Ma poi perché? Perché non vieni mai, quando ci troviamo a un passo di distanza?
– Non…
– No, lo sai.
– …
– …
– Eh, vabbuo’, occhei, sì: mi vergogno.

(continua)

(sotto) (voce)

mercoledì, 3 Marzo 2010

Chi parla dietro la porta? Parlare mi pare dir troppo
direi piuttosto un bisbiglio un disperdersi a fior di labbra
un diradare all’origine il corruccio delle parole
lima che logora il suono perché non sorregga figure
l’orecchio premuto contro la porta non può districare
i grumi di un mormorio che ricerca il suo dissiparsi
fino a quel sospiro quando la voce si avvita al suo vuoto
.

[Toti Scialoja, da Cielo Coperto, 1997-1998]

Fermata non richiesta (9/?) – Separ’azioni

domenica, 15 Novembre 2009

"E’ giusto", disse il soprintendente. "Nelle saghe antiche si fa distinzione tra persone ed eventi. Ci sono eroi e uomini da poco. Ci sono grandi eventi e quisquilie. O per dirla meglio, gli uomini da poco e le quisquilie non vengono ammessi nelle saghe antiche, di preferenza. D’altra parte la vita mi ha insegnato a non fare distinzioni tra eroi e uomini da poco; tra grandi eventi e quisquilie. Dal mio punto di vista, uomini e avvenimenti sono tutti più o meno alla pari".

*

A vent’anni volevo essere come certi islandesi o svedesi, insomma quella gente di un nord immerso nella stessa luce di certi posti che avevo visitato a occhi chiusi da bambina, capace di mettersi a guardare i granelli di polvere che passano nel cono di luce della lampada sulla scrivania e vedere agitarcisi dentro le visioni notturne dell’umanità intera. Volevo essere come quelli lì, che sapevano il freddo e la voce del ghiaccio, sapevano il tutto e il niente delle stagioni che si contraevano o dilatavano all’infinito, a seconda di come girava il vento.

E invece poi no. Sono nata in un posto caldo dove la luce è dura e non c’è posto per le visioni di nessuno, di giorno come di notte, sicché la fatica più grande per chi ne aveva era cercare di resistere, tenerle in vita, far loro manutenzione, magari tenerle per un po’ sotto chiave, almeno finché non diventavano così grandi da mettere le gambe e così intense da non poterle più trattenere, ed essere costretti a lasciarle andare. Nella luce dove sono nata era – ed è ancora – così: bisognava evitare di lamentarsi se qualcosa ti si agitava dentro, e a quel qualcosa bisognava dare da mangiare di nascosto rubando la verdura cruda dall’orto del nonno fino al giorno in cui il qualcosa stesso ti avrebbe chiesto con la forza della sua propria voce di essere liberato. Il rischio era che la pazienza si trasformasse in un carceriere troppo duro e il qualcosa andasse a morire prima del tempo, ma che ne sapevamo? Si doveva pur trovare il modo di dormire, tra un sogno e l’altro. Bisognava provare. Ma nella luce in cui tutto doveva e poteva essere solo reale, qualcosa era un nome che non giustificava spreco di cura, di sguardo, di voce. Qualcosa non era cosa, e quindi non si poteva impiegare alcuna forma di energia, o di tempo, per cercare di capire, un domani, la forma che avrebbe potuto prendere. Non era certo, quindi non c’era verso. La luce del sud da cui vengo era così: i sogni non erano segni, i segni non avevano niente a che fare con i sogni, e quell’unica vocale che li separa era il più invalicabile dei confini. Cercare di metterli in comunicazione era una sorta di abominio, e se per caso nella luce veniva fuori qualcuno che scopriva che quella vocale poteva essere anche una porta, una membrana morbida e porosa da cui poteva passare di tutto, apriti cielo. In quella luce, tutto quel che non è vero non ha diritto di esistere, e così ecco che l’unico modo per venirne a capo era rimettere insieme quello che avevamo a disposizione in un altro modo, già solo cambiando l’ordine delle cose quello che veniva fuori era diverso da prima, stavamo già immaginando e non lo sapevamo, segno e sogno si confondevano ma ci avremmo messo una vita intera per capirlo, in quel momento la sola cosa che importava era che finalmente c’era qualcosa che era vivo anche se non era reale, ma che ugualmente era vero, era nostro e neanche la luce tagliente del mediterraneo avrebbe potuto sottrarcelo, se solo avessimo avuto la pazienza di aspettare, di aspettare ancora solo un altro poco.

*

E la nonna disse: "Il nostro Björn ha sempre voluto che il piccolo Grìmur avesse da noi qualcosa che nessuno potesse portargli via in qualsiasi momento. (…) La ricchezza è quello che gli altri non possono possono portarti via".

*

– Occhei, ma comunque perché dici noi?
– In che senso?
– No, perché noi è sbagliato. Non c’era nessun noi. Tutto vero sulla questione del qualcosa, per carità, ma una volta che c’avevi ‘sto qualcosa che dici tu era finita, finiva tutto, finiva lì. Bastava provare a parlarne una volta e capivi che qualcosa t’avrebbe rovinato la vita.
– Essì, c’hai ragione.
– Ma tu ti ricordi che piccoli cuòppi di silenzio che eravamo?
– Sì, mamma mia. Quei tremendi maglioni anni novanta e tutte quelle lettere…
– Ci scrivevamo lettere perché non sapevamo che altro fare, come cavolo si maneggiava quel qual-cosa…
– … che non si poteva dire?
– Ecco. Non aveva nessun senso, ma eravamo sempre così… agitate.
– Vero. E di qualsiasi cosa si trattasse, non si riusciva a parlarne. Che due palle.
– Sì, ma chissà perché, poi? E quello era anche ben prima dei vent’anni. A volte penso che sia tutta colpa della Brizzi.
– Ummadonna, sì… noi c’avevamo pure l’aggravante della professoressa che ci aveva messo in testa che chi non ha paura di farsi il culo a tarallo può cambiarle, le cose.
– Già, e così diventava una guerra. Tra quello che c’avevi dentro, quello che non si poteva dire fuori, e quegli altri momenti ancora, in cui qualcosa sembrava possibile.
– Eh, guerra. Non diciamo cazzate, la guerra la facevate casomai tu e quell’altro, che eravate così belli e bravi e ottimisti. Io c’avevo solo il panico.
– Ah, sì, me lo ricordo, quell’anno che bastava dirti una certa frase per farti scoppiare a piangere a comando.
– Però è vero, che non c’era nessun noi. Non ancora.
– Sì. Cioè, mi piangevi come una fontana tra le braccia tipo una volta a settimana, ma io mica sapevo bene perché.
– Be’, ma non aveva tanta importanza, penso. Sapevi che io avevo qualcosa, come era per te. Tu scrivevi sempre, ma io mica sapevo cosa. Funzionava così, non c’era bisogno di sapere molto altro. Poi abbiamo messo via tutto dietro una porta blindata, se non altro per una questione di sopravvivenza. Siamo sempre rimaste separate, finché ognuna di noi non è stata inghiottita dal suo personale delirio. Solo allora…
– … è venuto fuori noi.
– Sai che a volte mi chiedo come abbiamo fatto a venirne a capo.
– Non era questione di venirne a capo. E’ che c’era quest’idea comune che i nodi si dovevano sciogliere. Invece no, bisognava conservarli, ma che ne sapevamo.
– …
– …
– Comunque era proprio il Diaz, che era un posto strano.
– Già. Taricone, Saviano, tutti quei professori che sembravano usciti da un racconto di Tunström… e anche qualche altro, che però è rimasto un po’ più nascosto. A te ti credevano, a raccontarlo?
– Veramente sembrava così poco credibile anche a me, quando ci ripensavo, che credo di aver fatto il collegamento ad alta voce e in presenza di qualcun altro solo una volta.
– Eppure è successo. E c’eravamo anche noi, quella massa amorfa sprofondata dentro quei maglioni troppo larghi, sullo sfondo…
– Già. Facevamo un po’ arredo urbano. Mi sembra giusto, dopo tutto. Eravamo tra quelli che alle occupazioni stavano a sentire bevendo i discorsi intorno perché tanto chi lo sapeva, cosa voleva dire avere un’opinione…
–  … o quelle quando passava il bel rappresentante d’istituto di turno facevano lo sguardo da pesc’ ‘a bbrodo.
– Infatti. Però mai uno che ne parli, di quegli anni. Secondo me c’hanno un po’ di risentimento, col periodo della scuola.
– E perché? Vorresti sentirti dentro un racconto che ti riguarda solo di striscio? Compagni di scuola, così si direbbe, anche se poi uno era in quinta e l’altro in terza. Il problema è che queste cose sono espedienti narrativi così suggestivi e pericolosi…
– … eh, pericolosi soprattutto. Hanno una luce così strana che a maneggiarla si fanno più casini che altro. E conoscendo i personaggi, la tireranno fuori al momento meno opportuno.
– Probabile.
– Vabbe’. E insomma, cos’è successo dopo?
– Ah, sì, be’… niente, che seguendo i binari siamo arrivati a Pesche.

*

E’ passato un anno e mezzo, giusto giusto.
Dice: ma perché, Pesche ha una stazione? Sì, papà. Dove? Se ho guardato bene la cartina, dovrebbe essere subito dopo la curv… ECCOLA!

E dunque ce l’avevamo qua davanti al muso da una vita, ma ti rendi conto? Chi l’aveva mai cecàta? E sì: una casetta rossa accanto a un passaggio a livello, incorniciata di lillà. Mi spieghi chi la vede? Ma c’è la scritta! Eh, si vede che non sappiamo più leggere. Attenta, adesso che giri… ecco! Scendi, scendi!

*

Padri: sempre divisi tra entusiasmo e prudenza, quando ci sono di mezzo i figli, e poco importa se il "figlio" in questione è una donna sposata che ha passato i trenta.

– Ma finiscila. A chi vuoi lo far credere che di tuo, in genere, ti comporti come una signora di trent’anni?

E lui nemmeno lo sa, che ancora coltivo quella specie di dialoghi muti con le Voci udite e lette durante i chilometri accumulati a spasso per il pozzo-paese… dialoghi che somigliano un po’ agli amori dei quindici anni coi cantanti, solo ancora più intimi, ancora più segreti, che ti scavano e ti si attaccano ancora più a fondo, a volte in certe parti di te che prima di incontrarle, le Voci, nemmeno conoscevi. Non lo sa, dico, e allora come fa? Sono tante, a dire il vero, le cose che non ha mai saputo di me, ma così, solo perché ci sono cose che le ragazze non dicono ai loro padri, e punto.

*

Adesso è diverso, però. Adesso ogni tanto posso persino ricordarle ad alta voce, alcune cose. Quando ho tirato fuori la storiella di quel panico durato per tutti gli ultimi tre anni delle superiori, mi ha risposto pensieroso e tranquillo, mentre si rigirava tra le dita una vite da sei etti per il fissaggio dei binari che aveva appena trovato sulla massicciata, ricordandomi che anche in quarta elementare mi era successa una cosa che mi aveva fatto venire un panico a lungo termine, e che il nonno per farmelo scordare ogni tanto mi faceva passare interi pomeriggi sulla linea tra Caserta e Benevento sui mezzi di manutenzione guidati dai suoi amici non ancora in pensione.

– Tipico tuo, insomma.

*

Ormai, da quando il baricentro della mia vita si è spostato sempre più di rispetto al qua di prima, queste passeggiate lungo la linea di ferro e carne che attraversano il pozzo sono diventate una specie di buffo rituale di memoria, un periodico ritorno a casa che ci riunisce e insieme ci fa ancora sentire in qualche modo il polso (debole, per la verità, ma tenace) del mondo da cui veniamo. E allora ci divertiamo così, svoltando improvvisamente sulle statali, inforcando le stradine laterali annunciate da un certo, preciso cartello

e nelle quali il passaggio a livello è una porta, un passaggio di livello verso l’altro piano del paesaggio, quello in cui si affonda coi piedi come radici, come semi nella terra appena arata. Eppure non è un paesaggio da cartolina, quello del pozzo-paese profondo, il più delle volte.
E appunto anche oggi è così: è aprile di un anno e mezzo fa, e dalla statale la stazione somiglia ad un casello, attaccata com’è alle sue sbarre non custodite.

[ – Lo è, infatti. Questa non era una stazione. Era una fermata.
  – Che differenza c’è?
  – Lo vedi che non ci sono scambi?
  – Eh.
  – Quindi non ci si possono fare manovre. Ci si può solo fermare e ripartire, basta. ]

E dico, non ci potevano fare una stazione? No, non era possibile, anche se Pesche era un paese piuttosto grande rispetto ad altri che ce l’avevano. E’ che la statale, la ferrovia, la costa della collina… è il mondo intero che qui fa una curva, non si poteva fare altrimenti: là la galleria, qua la curva, l’unico modo per farci stare una fermata deve essere stato quello di fare un marciapiede davanti al casello e piazzarci sopra la scritta "PESCHE", qui dove i binari si distendono per qualche decina di metri prima che il pianeta si inarchi definitivamente verso Castelpetroso.
Dalla statale, allora, in effetti la fermata è solo una scritta blu su un fondo rosso spellato dall’abbandono che appare e scompare per un momento tra la sterpaglia… ma appena passato il livello, ecco che si vede: una bella banchina lunga, i due altissimi pini neri d’ordinanza in dotazione a tutte le fermate non richieste, l’ex caseggiato dei servizi convertito in cabina ENEL, l’ultimo orario ancora al muro, dentro un tabellino di plastica crepato dal sole che però ha permesso alla carta di sbiadire un po’ più lentamente di tutto quello che c’è intorno. Anno 1988. Non lo tocco: ho paura di sbriciolarlo al più piccolo contatto.

*

E poi, non lo so, succede che a un certo punto me lo perdo: oltre il passaggio a livello anche lui lo sente, il passaggio del paesaggio, si inoltra un po’ nella curva della banchina, verso la linea che buca la collina, mi dà le spalle, comincia a camminare ed ecco, passa di livello, con le mani giunte dietro la schiena e lo sguardo al suolo. Non fa più di qualche decina di metri ma ormai è lontano, a spasso tra un mucchio di viti, molle e giunzioni arrugginite abbandonate a lato della massicciata forse dopo l’ultimo intervento di manutenzione, e mentre se ne rigira una tra le dita si fa ancora più lontano, è sempre lì nella curva ma per la distanza che ho negli occhi adesso non può più essere raggiunto. Per molti mesi dopo questo giorno sognerò di vederlo andare via così, di schiena e in silenzio, proseguendo fino a sparire nel buio della galleria che buca la montagna di carne e il mio stomaco di pietra. Una notte, più profonda delle altre, sentirò persino il buco aprirsi piano, appena sotto il torace, le ossa allargarsi con un dolore quieto, e il vento di ferro e polvere della galleria passarmi sulla carne di pietra viva con un brivido secco e tiepido.
Padre passato, padre lontano, dove andavi nei miei sogni, in quelle notti estive in cui si preparava a partire, calmo, chiassoso e inesorabile come un merci in discesa, il mio destino? Quel giorno c’eri ma non potevi essere raggiunto, in quelle altre notti eri lontano e mi bucavi le viscere sparendo nella galleria ai piedi del Monte Patalecchia ma non ne volevi sapere di lasciarmi. Ma l’ho già provata questa cosa una volta, anzi due – ho detto ad alta voce mentre tu eri dall’altra parte dell’universo e le sbarre si abbassavano tintinnando, e intanto abbiamo aspettato quel piccolo treno che non si sarebbe fermato alla stazione, così, lontanissimi, quel giorno e tutte quelle notti a seguire, tanto che dopo un po’ non sapevo più se era passato o se sarebbe stato futuro, prima o dopo, quella galleria e quel momento in cui, passato il treno con un soffio, te ne saresti andato a piedi nel buio del buco che sapeva di ferro e polvere senza dire niente, senza guardarti indietro, senza nemmeno un cenno della mano. Come il nonno, come tuo padre prima di te. Ed è vero che non ci sono uomini o avvenimenti, qui, non c’è stata distinzione fra quello che era o sarà, e per essere onesti oltre il ciglio di questo pa(e)ssaggio a livello non c’è stato nemmeno un presente, quel giorno, ma solo un corto circuito che mi resta nell’intestino a preparazione, forse, di qualcosa che sarà stato, un domani, presto o tardi, fin da quando ero un cuòppo di silenzio con dentro qualcosa.

*

Picture yourself on a train in a station
with plasticine porters with looking glass ties.
Suddenly someone is there at the turnstile,
the girl with kaleidoscope eyes
.

*

– Oh, che è, ti fa male la pancia?
– … eh?

Il passaggio a livello tintinna, le sbarre si alzano, io me ne sono stata per tutto il tempo incollata lì al muro, sulla massicciata, a guardare il treno passare stringendomi coi pugni la felpa sul ventre, tenendo stretto stretto tra le mani il nodo – perché che bisogna conservarli adesso lo so, e questo perché ho trent’anni anche se non si vede. Da qualche parte, in lontananza, ho anche sentito il fischio che la littorina mi ha lanciato, ma non c’ero, non c’ero, non c’ero, ma dove cazzo ero?

– Eh eh, accorta la prossima volta, il macchinista s’è spaventato quando t’ha visto.
– Sì… sì-sì… è vero, mi dovevo mettere più nascosta.

E c’è un lungo silenzio, screpolato e profumato di lillà. Ne stacca un bel grappolo dal ramo che mi pende sulla testa, e a me sembra che questo sia il niente più pieno di senso che mi sia capitato di vedere da almeno… quanto? Boh. Non lo so quanto, si vede che ero passata di livello anch’io.

– Andiamo, ché ci aspetta per pranzo e poi chi la sente.
– Tu, te la senti.
– Ecco… mo’ sì che si vede, che tieni trent’anni.

Cerchi(o)circuito

martedì, 3 Novembre 2009

Oggi che le Isole Polinesiane, soffocate dal cemento armato, sono trasformate in portaerei pesantemente ancorate al fondo di Mari del Sud, che l’intera Asia prende l’aspetto di una zona malaticcia e le bidonvilles rodono l’Africa, che l’aviazione commerciale e militare viola l’intatta foresta americana o melanesiana, prima ancora di poterne distruggere la verginità, come potrà la pretesa evasione dei viaggi riuscire ad altro che a manifestarci le forme più infelici della nostra esistenza storica? Questa grande civiltà occidentale, creatrice delle meraviglie di cui godiamo, non è certo riuscita a produrle senza contropartita. Come la sua opera più famosa, pilastro sopra il quale si elevano architetture d’una complessità sconosciuta, l’ordine e l’armonia dell’Occidente esigono l’eliminazione di una massa enorme di sottoprodotti malefici di cui la terra è oggi infetta. Ciò che per prima cosa ci mostrate, o viaggi, è la nostra sozzura gettata sul volto dell’umanità.

Capisco allora la passione, la follia, l’inganno dei racconti di viaggio. Essi danno l’illusione di cose che non esistono più e che dovrebbero esistere ancora per farci sfuggire alla desolante certezza che 20.000 anni di storia sono andati perduti. Non c’è più nulla da fare: la civiltà non è più quel fragile fiore che, per svilupparsi a fatica, occorreva preservare in angoli riparati di terreni ricchi di specie selvatiche, indubbiamente minacciose per il loro rigoglio, ma che permettevano anche di variare e rinvigorire le sementi. L’umanità si cristallizza nella monocultura, si prepara a produrre la civiltà in massa, come la barbabietola. La sua mensa non offrirà ormai più che questa vivanda.

Un tempo si rischiava la vita nelle Indie o in America per conquistare beni che oggi sembrano illusori: legna da bruciare (da cui "Brasile"); tintura rossa o pepe che alla corte di Enrico IV era considerato a tal punto una ghiottoneria che usavano tenerlo nelle bomboniere e masticarlo a grani. Quelle scosse visive e olfattive, quel gioioso calore per gli occhi, quel bruciore squisito per la lingua, aggiungevano un nuovo registro alla gamma sensoriale di una civiltà che non si era ancora resa conto della sua scipitezza. Diremo allora che, per un doppio rovesciamento, i nostri moderni Marco Polo riportano da quelle stesse terre, questa volta sotto forma di fotografie, libri e resoconti, le spezie morali di cui la nostra società prova un acuto bisogno sentendosi sommergere dalla noia?

Un altro parallelismo mi sembra ancora più significativo. Questi moderni condimenti sono, che lo si voglia o no, falsificati; non certo perché la loro natura sia puramente psicologica, ma perché, per quanto onesto possa essere il narratore egli non può più presentarceli sotto forma autentica. Per metterci in condizione di poterli accettare è necessario, mediante una manipolazione che presso i più sinceri è soltanto inconscia, selezionare e setacciare i ricordi e sostituire il convenzionale al vissuto. Apro i libri di questi esploratori: trovo ad esempio che certe tribù mi vengono descritte da loro come ancora selvagge e conservanti fino al momento attuale gli usi di non so quale umanità primitiva, messa in caricatura in pochi capitoli buttati giù alla meglio; mentre le stesse tribù io le avevo analizzate per settimane intere della mia vita di studente, annotando opere che ancora cinquant’anni fa, e talvolta anche più recentemente, uomini di scienza hanno dedicato al loro studio, prima che il contatto con i bianchi e le epidemie susseguenti non le avessero ridotte a un pugno di miserabili sbandati. […]

Questi primitivi, che basta aver visto una volta per esserne edificati, queste cime di ghiaccio, queste grotte e queste foreste profonde, templi di alte e proficue rivelazioni, sono, per diversi aspetti, i nemici di una società che recita a se stessa la commedia di nobilitarli nel momento in cui riesce a sopprimerli, mentre quando erano davvero avversari, provava per essi solo paura e disgusto. Povera selvaggina presa al laccio della civiltà meccanizzata, indigeni della foresta amazzonica, tenere e impotenti vittime, posso rassegnarmi a capire il destino che vi distrugge, ma non lasciarmi ingannare da questa magia tanto più meschina della vostra, che brandisce davanti a un pubblico avido gli album di foto a colori al posto delle vostre maschere ormai distrutte. Credono forse così di potersi appropriare del vostro fascino? Non soddisfatti ancora e neanche coscienti di distruggervi, devono febbrilmente saziare delle vostre ombre il cannibalismo nostalgico di una storia dalla quale siete già stati sopraffatti. […]

Insidiosamente, dunque, l’illusione comincia a tessere le sue trame. Vorrei essere vissuto al tempo dei "veri" viaggi, quando offrivano in tutto il suo splendore, uno spettacolo non ancora infangato, contaminato e maledetto; vorrei non aver io stesso oltrepassato questo limite, ma, come Bernier, Tavernier, Manucci… Ma non si finirebbe più di recriminare. Quando, dunque, si sarebbe dovuto vedere l’India? In che epoca lo studio dei selvaggi brasiliani avrebbe dato più soddisfazione, facendoli conoscere nella forma più autentica? Sarebbe stato meglio arrivare a Rio nel XVIII secolo con Bougainville, o nel XVI con Léry e Thevet? Ogni lustro all’indietro permette di salvare un’usanza, guadagnare una festa, partecipare a una credenza di più. Ma conosco troppo i testi per non sapere che, togliendomi un secolo, rinunzio nello stesso momento a informazioni e curiosità che arricchiscono il mio pensiero. Ed ecco davanti a me il cerchio chiuso: meno le culture umane erano in grado di comunicare fra loro, e quindi di corrompersi a vicenda, meno i loro rispettivi emissari potevano accorgersi della ricchezza e del significato di quelle differenze. In fin dei conti, sono prigioniero di un’alternativa: o viaggiatore antico, messo di fronte a un prodigioso spettacolo di cui quasi tutto gli sfuggiva – peggio ancora, gli ispirava scherno e disgusto – o viaggiatore moderno, in cerca di vestigia di una realtà scomparsa. Nell’uno e nell’altro caso, sono sempre in perdita, e più che non sembri: poiché, io che mi rammarico di trovarmi davanti a delle ombre, potrei forse comprendere il vero spettacolo che prende forma in quell’istante, o il mio grado di umanità manca ancora della sensibilità necessaria? Fra qualche secolo, in questo stesso luogo, un altro esploratore altrettanto disperato, piangerà la sparizione di ciò che avrei potuto vedere e che mi è sfuggito. Vittima di una doppia incapacità, tutto quel che vedo mi ferisce, e senza tregua mi rimprovero di non guardare abbastanza.

[Claude Lévi-Strauss, da Tristi Tropici, 1955]

Delle forme del dolore: Frammento

domenica, 30 Agosto 2009

Delle forme della memoria (2/3)

The day you went away
you had to screw me over,
I guess you didn’t know.
All the stuff you left me with
is way too much to handle,
but I guess you don’t care.

You don’t need to preach,
you don’t have to love me all the time.

Whatever on earth possessed you
to make this bold decision
I guess you don’t need me.
While whispering those words
I cried like a baby
hoping you would care.

You don’t need to preach,
you don’t have to love me all the time.

You don’t have to preach
all the time
.

[The Gathering, Saturnine, 2000]

Delle forme del colore: Rubik

mercoledì, 26 Agosto 2009

Delle forme del dolore (1/3)

So there it is in words
precise
and if you read between the lines
you will find nothing there
for that is the discipline I ask
not more, not less.

Not the world as it is
nor ought to be –
Only the precision
the skeleton of truth
I do not dabble in emotion
hint at implications
evoke the ghosts of old forgotten creeds.

All that is for the preacher
the hypnotist, therapist and missionary.
They will come after me
and use the little that I said
to bait more traps
for those who cannot bear
the lonely
skeleton
of truth
.

[Gregory Bateson, 1979]

Mantra

sabato, 11 Luglio 2009

Keep on with the force, don’t stop,
don’t stop ‘til you get enough.

Keep on with the force, don’t stop,
don’t stop ‘til you get enough.

Keep on with the force, don’t stop,
don’t stop ‘til you get enough.

Keep on with the force, don’t stop,
don’t stop ‘til you get enough.

Keep on with the force, don’t stop,
don’t stop ‘til you get enough.

Keep on with the force, don’t stop,
don’t stop ‘til you get enough.

Keep on with the force, don’t stop,
don’t stop ‘til you get enough.

Keep on with the force, don’t stop,
don’t stop ‘til you get enough.

Keep on with the force, don’t stop,
don’t stop ‘til you get enough.

Keep on with the force, don’t stop,
don’t stop ‘til you get enough
.

[M. Jackson, 1979]

Paesi che passano

sabato, 6 Giugno 2009

    I paesi che passano: sono i lembi di campagna, le istantanee di boschi, di acque, di monti, di mura e di tetti, di comignoli e di campanili, i frammenti di mondo che ci lasciamo dietro ogni qual volta un’automobile, un treno, non importa che, ci porta via per l’orbe terracqueo insieme alla nostra smania irrequieta di mutar sito. La velocità ce ne dà, ce ne toglie, ce ridà inesauribile. E’ come se ci si sfogliasse dinanzi rapidamente un vasto albo di paesaggi colorati. L’uno è una chiesetta abbandonata, chiusa, sommersa quasi nelle foglie di un formidabile tiglio che le è al fianco, e par più umile, si direbbe, all’ombra di quella gran protezione; l’altro, un villaggio chiaro che guarda verso il mare con aperte tutte le imposte verdi delle sue finestre, mentre sopra di lui fa il broncio un rudere che nemmen l’edera più vuole, e forse è di mal umore perché si sente pizzicare in basso dalle ortiche; l’altro, una brughera rossigna, deserta, rotta da pozze livide, dove ci si deve sentire soli angosciosamente, come in esilio, a passarci sull’imbrunire… E via… Ad ogni impeto di stantuffo è una fisionomia nuova, un aspetto diverso. Paesi di un istante, paesi appena intravveduti e perduti, ora immobili e silenziosi sotto l’azzurro come nell’abbandono di un pomeriggio domenicale al tempo che la gente è ai vespri, ora tormentati sotto nuvole di tempesta che li popolano dei loro spettri pallidi o violastri, ora sbocciati nell’alba come fiori, ora spossati di sonno, presi dall’afa, dalla canicola, ora trasfigurati nella nebbia, bianchi addormentati in braccio all’inverno, – paesi fugaci, paesi che un battere di palpebre rinchiude e lascia, quanti ne abbiamo veduti passare nelle nostre peregrinazioni e nelle nostre corse! Alcuni rimangono pur nitidi nel ricordo come rimane nitida la visione colta in un lampo; altri, ci pare, li abbiamo veduti come in sogno in tempi immemorabili, altri si sono spenti affatto da ogni memoria, altri ci hanno lasciato nel cuore una infinita nostalgia.
    Signor lettore, ella troverà che al momento attuale ci sono ben altre questioni cui pensare e altre faccende cui attendere, che divagare dietro qualche aiuola di insalata che scappa rigata rigata di fili di telegrafo, o qualche casa cantoniera – sia pure tutta gocciolante di grappoli lilla di serenelle – che dilegua entro una tormenta di fumo. – Bravo! io sono precisamente dello stesso parere. Ma per le cose gravi, istruttive, solenni, pei grandi ed ardui problemi del momento ci sono le persone
ad hoc che hanno ricevuto dalla divina provvidenza l’incarico di illuminare il mondo. – Ce n’è una, almeno, da ogni barbiere, e almeno dieci in ogni caffè all’ora del vermouth. Poiché il signor lettore e poiché io stesso siamo sicuri che avremo sempre, quando vorremo, a nostra disposizione chi ci schiuderà le arche della sapienza, possiamo pure battere un po’ insieme la campagna. E poi, pigliar aria è sempre di attualità. Senza contare che con poca o punto fatica, solo guardando e immaginando, c’è pur modo di fare bellissime riflessioni.
    Questi paesi che passano, – spruzzi di calce nel verde, – sono molecole spicciole di umanità che ci fan cenno. Noi, molecole spicciole, alla nostra volta, siamo loro legati nel gran lutto più che non pensiamo. Indoviniamo quei cenni.
     Lo dicevo a me stesso, uno di questi giorni, mentre un treno mi trascinava traverso un liscio, vasto, dolce lembo d’Italia, primaverilmente fresco, frattanto che mano a mano, sotto i ponti rimbombanti, in tortuosi e rapidi luccichii, si succedevano l’Arda, il Taro, la Secchia, il Panaro, il Reno…
    Il muricciuolo sgretolato, – striscia di ciottoli fra due prati irta di ciuffi d’erba, – mi evocava una lite di confine e le ire di un Capuleto e di un Montecchio di campagna guerreggianti a colpi di carta bollata; il vecchio fico ramoso al disopra dell’orto della Pieve mi rammentava, – una vigilia di sagra, – un passo tardo di prete in meditazione sul suo panegirico pel domani; fuori del borgo, la pergola della trattoria sul limitare del ponte mi rappresentava la siesta, confortata di pipa, di bicchiere e di chiacchiere, del capitano in pensione e del ricevitore del registro a riposo; la panca sotto il platano a capo della stradetta che fra due siepi diverge al camposanto mi diceva la refezione del merciaiolo ambulante seduto a prendere lena, e la fantasia mi popolava i parapetti dei giardini di testoline di fanciulle, e mi faceva sentire la nostalgia del giovinetto contabile, prigioniero del suo sgabuzzino, che improvvisamente ridestava a sogni di libertà, di viaggi, di luoghi nuovi ed ignoti, lo strepito del convoglio ripercosso un attimo dalle lunghe mura dell’opificio rasente la linea.
    E ad una visione seguiva un’altra visione.
    C’è un’arte di «vedere il paesaggio». I luoghi hanno una loro propria fisionomia, e la fisionomia ha un significato, rappresenta quasi un carattere, uno stato d’animo. I salici lungo i fossi soffrono d’ipocondria, certe casupole chiuse sull’orlo dei boschi cospirano e pare meditino un agguato, la terrazza della villa è beata che tutti l’ammirino ad allargare le braccia sul parco, i pioppi del viale si seccano di stare eternamente uno in fila all’altro come collegiali in processione e vorrebbero sbandarsi; lo stagno immoto guarda rassegnato il volo delle nuvole libere, che appena lo toccano di un riflesso dileguano, le cancellate hanno l’aria di schiere di sentinelle colle aste, il villaggio in cima al poggio ha una piccola anima civettuola e festosa, e si lascia volentieri corteggiare dai gelsomini rampicanti e dai vigneti, che salgono ad abbracciarlo; e ci sono i paesaggi appassionati, scenarii di tragedia; i paesaggi raccolti, fatti pel romitaggio di qualche studioso meditabondo; i paesaggi innocenti, le grandi praterie aperte, senza misteri, che si lasciano leggere fino in fondo all’orizzonte; i paesaggi irritanti, malevoli, aggressivi, che non hanno amici, i paesaggi da luna di miele, i paesaggi da rapimento romantico…
    E ciascuno suggerisce un nome. Qual è il loro vero? Non importa. La fantasia gliene adatta uno, ed è quello che conviene. Ecco «l’oratorio di Santa Maria dell’Acqua». Ai suoi piedi si allarga in laguna il gomito del fiume, e l’acqua, gli anni cattivi, deve essere salita ad inondarlo e fu miracolo se non lo travolse. Come si chiama quel paese? Non lo so, ma io lo battezzerei «Biancolano». E’ come un immenso bucato steso sull’erba. E quest’altro? Mettiamo che si chiami «Monastirolo della Torre». E’ facile comprendere il perché. E questo ancora? Regaliamogli il nome di «Borgocivitella». E’ un borgo che si industria, che fa tutto quello che può per parere una piccola città. Ci ha i casotti del dazio, un edificio che deve essere un collegio, un viale, quattro campanili, due carabinieri fermi al passaggio a livello in attesa che s’aprano i cancelli passato il treno. In questo momento la figlia del notaio (è impossibile che non ci sia un notaio a «Borgocivitella» e che il notaio non abbia una figlia) sta studiando (me lo immagino) la sua lezione di pianoforte con grande diletto dei vicini, e nel Caffè della Piazza (è l’immancabile caffè dell’immancabile piazza) il bellimbusto del luogo fa il galante colla graziosa padroncina seduta al banco, e a un tavolino due pacati borghigiani – due luminari di «Borgocivitella» – levano tratto tratto il naso dalla chicchera del caffè e dai giornali del mattino a scambiarsi le loro vedute sulla politica. Il portalettere ha recato questa mattina, alla moglie dello speziale, una lettera del figliuolo che si trova al fronte e durante tutta la giornata se ne parlerà…
    Ed il treno corre verso altri paesi, a rasentare altre vite, vite occulte, ignote che tuttavia continuo a dilettarmi a figurare. Afferro anche, nell’aria smossa, a lembi, il sentore particolare proprio di ciascun luogo. Uno mi avventa alle nari un acuto odore di vernice di ferro, e passa; un altro sa di legnami piallati di fresco, un altro sente di terra lavorata e paglia antica, l’altro di sterpi bruciati, l’altro pute di pellami messi a macerare nella conceria, l’altro mi manda incontro aromi sottili di caffè tostato, l’altro è imbalsamato di catrame.
    E paesi passano, passano… Un gruppo di lavandaie, raccolte intorno ad un’acqua, levano la testa dai battitoi a guardare; il ciclista, sulla strada maestra parallela, ha il capriccio di tentare una gara colla locomotiva… e scompare; un monello da una siepe si diverte a far tanto di naso e a gridare parole incomprensibili ai passeggeri affacciati agli sportelli; un signore – qualche gentiluomo campagnolo – segue attento l’argine di un prato.
    Occorrono altri nomi. La fattoria laggiù, potrebbe chiamarsi «la Bicocchetta». Sembra nata dall’incrocio di una bicocca con un mulino. Ha un curioso aspetto tra il bellicoso e l’agricolo che colpisce. Questo gruppo di fabbriche armate di alti fumaiuoli in eruzione, accecate dal fumo che l’aria spinge in basso, annubilate e annegate in volute di carbone sprigionato in gas avrebbe tutti i diritti di andar conosciuto sotto l’appellativo di «Nubilecchio«». Questo tenimento che tagliamo per mezzo, se non ha nome «Stornelloro» ha torto. Lungo i solchi folti che si perdono all’occhio, dev’essere un trillo solo di stornelli, di canzoni i giorni di mietitura.
    Del resto, avete notato che ogni paesaggio richiama alla mente una musica? Così, come ogni musica s’inquadra in un paesaggio. Balaustrate avviticchiate di rose, siepi di bosso avvivate di linee di statue bianche, gradinate sospese si acque silenziose, tramonto di settembre intorno: musica di Rameau. Filari di cipressi, neri sotto la luna: musica di Chopin. Sfondi luminosi di colline apparite al di là di fughe d’archi di chiostro: musica di Bach. Impeti di cascate tra rovine di rupi, e arcobaleni accesi nelle spume, e frondeggiare tempestoso di rami sui cigli, e teneri velluti d’erbe in fondo agli abissi: musica di Beethoven. Qui, la pace della pianura pingue soprattutto vi anima, al pensiero, di canti villerecci: «Stornelloro» è proprio il nome che conviene al luogo.
    E questo canale, striscia pallida e rettilinea, ove nemmeno l’azzurro riesce a specchiarsi in riflessi nitidi, ricacciato dall’ombra degli argini, per me è il canale «Fil-di-Noia». Ho sempre pensato con un certo senso di compassione e di tristezza all’acqua dei canali. E’ lo stesso senso che mi fanno gli uccelli tenuti in gabbia. Si sente che deve annoiarsi, che deve essere malata di malinconia, la povera acqua, e la sua malinconia la sua noia si effondono anche in chi la guarda. L’hanno tolta alla bella libertà del fiume, dove era così garrula, dove aveva così lieti gorgogli, dove rimbalzava così viva in spume bianche tra i ciottoli e l’hanno costretta – ella, la sempre ribelle – a diventare obbediente agli uomini, epperò si è immusonita e fatta taciturna. Ora va, va, sempre eguale, serrata entro due piatte sponde parallele, rigida e geometrica come la formula in virtù della quale l’ingegnere idraulico l’ha catturata, rassegnata a perpetuo tedio.
    Ma il «Fil-di-Noia» col suo tedio è già lontano.
    Rossa di mattone, entro una nevicata odorosa di fiori di pero, l’osteria della «Piccola Nuova York» mi si affaccia e mi è portata via. E’ un baleno, ma riesco tuttavia a leggere le lettere dell’insegna. Non lontano è un fiume. Ci si deve pescare una buona frittura di pesce. Sicuro, il proprietario deve essere stato in America, dieci o dodici anni a Nuova York. ed ora ha un bel gruzzolo da parte e dinanzi una bella pancia.
    Una villa chiusa, come dimenticata nello squallore di un giardino abbandonato da anni, una residenza che non ha più nessuno e nessuno più vuole, entro un muro di cinta che la isola anche in una maggiore solitudine, e sul muro di cinta, a grandi pennellate, l’annuncio: «Villa da vendere»: è un’altra visione che passa e dilegua. La villa è morta, una famiglia, già tanto opulenta, è forse oggi esule, raminga pel mondo, forse rovinata, forse spenta! I bimbi che giocavano al cerchio tra i suoi viali, che tendevano dal cancello le manine ai passanti, fatti uomini, forse l’hanno perduta una notte in una bisca. I nonni vi accoglievano cari ospiti un tempo!
    Altri paesi ed altri paesi. E quelli che solo si indovinano? Donde viene quel filo di fumo verdognolo che si attorce in fondo al cielo? Che cosa c’è dietro il brusco svolto del viottolo? A che s’accompagna, in basso, il culmine aguzzo del campanile che s’alza, unica vetta bianca, sulla marea del bosco che cancella il resto?
    E le vite, le vite che per qui sono trascorse, da tempi immemorabili! Falangi di antica umanità tormentata popolano i luoghi. Genti cacciate da orde barbariche, lasciano le capanne di mota e di paglia, e fuggono; cavalcate di legati pontifici, di messi imperiali, di podestà armati, di vescovi ferrei, calpestano l’erbe e recano odii e stragi. Bagliori d’incendi, la notte, guizzano sulla pianura. Le epoche seguono alle epoche, generazioni surgono e si spengono, clamori d’uomini succedono ad altri clamori, la vita irrequieta mai non ristà… Il treno segue… E genti e paesi passano… Sono passati
.

[Ernesto Ragazzoni, articolo apparso su La Stampa il 25 aprile 1916]

Retro/azioni

mercoledì, 20 Maggio 2009

It’s in my heart, it’s in your soul
You choose to judge,
is that your role?
Don’t analyze or complicate,
you’ll criticize, you can’t relate…

… and now you want some understanding,
what’s my point of view?

Then I’ll just fade away.
(when I hear all your lies I choke)
Then I’ll just fade away.
(suffering from the times you spoke I fade)

Regarding more? Just seems much less.
So cynical, you must confess.
I’m dying here, completely blind.
Your will to live just dampens mine…
 
… and now you want some understanding, what’s my point of view?

Then I’ll just fade away.

[Paradise Lost, Fader, 2001]

Segnali

giovedì, 7 Maggio 2009

– AAAAAAA, E’ ARRIVATA LA PRIMAVEEEEEEEEEEEEEEEEERAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!

disse, passando di lì, il fratello del ragazzo del negozio di autoricambi che stava montandomi il portabici sul tettuccio della macchina.