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Angolo di Appia Antica (quinta parte)

martedì, 30 Agosto 2005

"C’è rummasa ‘a scumma d”a culàta mo’
na chiorma ‘e muscille che s’aggarba
pezzulle ‘e pane sereticcio quacche
"silòca" ‘nfacc’ê pporte arruzzuta
e ‘o viento nu viento ahi na mal’aria
‘a quanno se ne so’
fujute tutte quante secutanno ‘o ciuccio ‘nnante, ‘e notte
cu”a rrobba ‘a robba lloro (‘o ppoco pucurillo ca serve e tene)
e ‘a pòvere s’aiza ‘int’a stu votafaccia
pe’ ll’aria che se tegne d”o janco d”a petrèra"*.

(Achille Serrao, da Mal’aria, 1990)

 Dopo le case e gli esseri umani del vico Marotta, di tufo diventa il mondo intero. E’ qui. La porta. Questo è forse il punto intorno al quale cominciò a gravitare una qualche attività umana, molto tempo fa. Qui, da qualche parte intorno al punto in cui mi trovo, è iniziata tanti secoli fa la vita di quello che doveva essere solo un minuscolo villaggio di contadini, che se non si fosse trovato nei pressi di questa strada forse alla fin fine si sarebbe disperso, e infine scomparso – mi dico con infantile stupore mentre vedo un gruppetto criaturi che gioca con la pièssedue nel bel mezzo del cortile interno di una masseria, dove qualche genitore premuroso ha sistemato loro su un tavolo un televisore da ventinove pollici per farli, credo, stare belli comodi insieme ai pennuti da cortile che razzolano tranquilli intorno ai loro piedi. La gente chiama questo tratto, che dalla piazza d’a Parrocchia porta a ‘o campusanto, ‘a via d’e Nunziatelle a causa di una chiesa dell’Annunziata che sorgeva qui vicino e che, a giudicare da certe cose che ho sentito raccontare dalla panettiera del vico dei Funai (che è molto in avanti con gli anni ma ricorda benissimo quello che le raccontavano sua nonna e la sua bisnonna), verso la fine del Settecento doveva essere già mezza distrutta. Mi fermo, e mi appoggio per un attimo al lungo muro di tufo che qui costeggia la strada, sorrido, penso che non ci vorrebbe poi molto a scavalcarlo, è alto meno di un paio di metri ma a nessun ragazzino di queste parti verrebbe mai in mente di fare una pazzia del genere: alle sue spalle c’è un salto di quasi dieci metri, a strapiombo su una vallata di campagna in miniatura. Mi trovo infatti ai margini di una delle cave di tufo di San Nicola, la più antica insieme a quella d’a Santa Cumaia. Tra qui e Caserta ce ne sono, che io sappia, ancora almeno quattro, tutte incuneate in mezzo alle case e ai palazzi, come enormi buche; da qualche parte lungo il loro perimetro c’è sempre un vecchio cancello o un grande portone dal quale inizia, o iniziava, una strada sterrata in discesa che porta al fondo della cava. Qualcuno, una volta, mi disse che quel che in quel che manca da queste fosse vive quasi tutta la città, e che fu grazie alla roba gialla che da esse veniva estratta che il paesiello di contadini ‘e ‘na vòta si trasformò in un attivissimo centro di  ‘nfelatrici ‘e tabacco e spaccatori e tagliatori di pietre. Tagliatori, sì, senza la dignità del prefisso che designa una più raffinata arte: qui le pietre dolci si tagliavano, venivano selezionate a seconda della misura con la sola arte del piccone, della sega e del fierro felato. A meno di cinquanta metri in linea d’aria da qui c’è casa mia, a cinquanta metri da qui si salta agli anni Settanta, periodo in cui fu tirata in piedi la prima, piccola area residenziale della zona, con quei suoi modesti condomini a quattro piani dalle pareti giallo spento striato qua e là di marrone – a giudicare dal loro attuale aspetto mai ritinteggiate, nemmeno una sola volta da quando fecero la loro comparsa su questa terra accanto alle antiche masserie. Ma è veramente bizzarro, a ben guardare, il modo in cui i più vecchi condomini di Via dei Mille somigliano alle case che stanno al di qua dell’Appia, giallognoli e squadrati come sono, nemmeno siano stati progettati nel sincero tentativo di ridurre l’impatto estetico delle nuove costruzioni. Chissà…

 Il muro è lungo, e caldo di un sole impietoso, quasi allo zenit. Cerco un po’ d’ombra sotto le edere che straripano dall’interno della cava, accanto al portone che non viene aperto forse da un secolo e che lentamente rovina, marcisce, si disfa a dispetto del bianco marciapiede nuovo di zecca che da qualche mese costeggia il muro a nord del giacimento per merito del mai abbastanza lodato progetto Urban2, mentre esattamente di fronte a me, dall’altro lato della strada, decine di rondini volteggiano sullo spazio vuoto lasciato dal crollo della masseria del Vico Tiscione, abbandonata da decenni e collassata su se stessa alla fine dello scorso anno. E mi sembra, in effetti, di avere anch’io un cuore di tufo, un cuore di quelli in cui il tempo non scorre insieme al sangue ma che al contrario si deposita, come i sedimenti di cui è fatto il giallo della mia terra. Questa porta chiusa e il suo legno che si guasta nel pieno centro della città, devo ammetterlo, fanno un po’ male. Spero che non ci sia un buco come questo anche nella pietra porosa che ora sento pesare al centro della cassa toracica, penso quando riprendo a pedalare per proseguire ‘ncopp’ ‘e Taglie (sulle Taglie), la zona immediatamente successiva a ‘e Nunziatelle e ‘o Campusanto, dove si trovavano i cantieri dei tagliamonti, cioè coloro che facevano a pezzi i monti (le cave, in gergo popolare) "ad uso delle reali delizie". Spero, spero… spero guardando la strada scorrere sotto la ruota anteriore della bici, quando un lampo bianco mi ferisce la coda dell’occhio. Freno, alzo lo sguardo.
Nella monotona continuità delle case del centro storico non l’avevo mai notato. Più che altro, non mi ero accorta dell’arcata priva di portone. E della sgarrupatura sulla parete in alto, sulla destra. Oddio. Da quanto tempo è stato abbandonato, questo cortile? Perché le pareti interne ed esterne sono dipinte di bianco fino a metà della loro altezza? Ci sono i resti di un forno, di una latrina, gli infissi di legno mangiati dalla pioggia e dal sole incrostati della tipica vernice verde che si usava per tutte le imposte del mondo fino a una quarantina d’anni fa, e ha l’aria di non avere l’intenzione di reggersi in piedi ancora per molto. Probabilmente presto le rondini avranno un altro mucchio di macerie dove accomodarsi in pace per le estati che verranno.
Eppure, mi chiedo cosa sia accaduto qui e perché, a differenza delle altre case abbandonate di questa zona, questa sia stata lasciata così, con tutte le porte e le finestre aperte. Sembra che qui, semplicemente, chiunque o qualunque cosa vi abitasse se ne sia… andato. Via. Così. Allé. Gone. Via. Ciao.
Ma magari, in realtà, non è successo proprio niente. Chi c’era se n’è andato, e il rigattiere del Tempo è passato in seguito a ritirare le imposte. A ben pensarci, non c’è ragione per cui questa casa debba aver vissuto una storia diversa dalle altre. E forse non è nemmeno questa casa, il punto.
Il punto, semmai, sta nei verbi che un tempo la abitavano: stare; lavorare; vivere. L’abitare, stesso, pure. Quelli, sì, forse col tempo si sono fatti superflui.
Una fantasia un po’ crudele mi fa tentare di immaginare i visi di quelli che una volta abitavano qui, di quelli che dicevano "stong’ ‘e casa aropp’ ‘o Campusant’, ‘ncopp’ ‘e Taglie". Ma non ci riesco. Credo che l’immaginazione mi si sia irrigidita all’altezza del vicolo Marotta: vedo… sì, che li vedo, i loro volti. Ma sono – ancora! – di tufo. E parlano… sì, parlano di qualcosa… che però non capisco.
Saranno le avvisaglie di un’insolazione?
Mah. Meno male che il centro storico finisce qui.

 Quando riparto, mi lascio alle spalle gli ultimi cortili di questo tratto d’Appia, con l’ultimo mastino da guardia da un lato e l’ultimo tacchino – più pericoloso del mastino, quando c’ha la luna di traverso – intento ad ispezionare la propria aia dall’altro. Si diradano le case, appaiono i campi di mais e di tabacco. E le fabbriche. Le fabbriche. Le fabbriche.

continua

* C’è rimasta la schiuma del bucato ora/ una marmaglia di gatti che assapora / pezzi di pane muffo qualche / "affittasi" sulle porte arrugginito / e il vento un vento ahi una mal’aria / da quando se ne sono/ fuggiti tutti seguendo l’asino avanti, di notte / con la roba di casa (il poco poco che serve e si mantiene) / e la polvere si solleva in questo voltafaccia / nell’aria che si colora del bianco della pietraia.

Angolo di Appia Antica (quarta parte)

martedì, 2 Agosto 2005

"Always in my thoughts you are.
Always in my dreams you are.
I got your voice on tape, I got your spirit in a photograph…
… always out of reach you are".

(S. Wilson, The Start Of Something Beutiful, 2005)

Lasciata casa di V. posso anche risalire in sella: sono arrivata a ‘u Trivece, il trivio, la confluenza delle tre strade più antiche di San Nicola – ovvero ‘a via ra ‘Roce (la via della Croce), ‘a Via d’a Pagliara e ‘a via ‘a Maronna. Ormai non sono più in senso vietato, e davanti al municipio posso continuare pedalando verso il cuore giallo del centro, in direzione della sua parte più polverosa e della zona in cui abito. Passo ‘u Trivece, il Municipio, saluto il vigile che piantona la piazza ad esso antistante probabilmente da una ventina d’anni a questa parte, passo il monumento ai Caduti – un orribile parallelepipedo di marmo bianco con uno stellone blu di plexiglass piantato sulla sua sommità, sia stramaledetto ora e sempre l’essere umano che ne concepì a suo tempo la forma – e l’esercito di vecchi che ne piantona i dintorni probabilmente fin dagli albori del mondo, e al bivio che mi ritrovo davanti alle ruote della bici proseguo per la strada che scivola via a destra verso la scuola elementare e la chiesa (‘a Parrocchia). Mi infilo in un paio di vicoli sulla sinistra, qui ci sono piccole corti interne dimenticate cui la luce abbagliante del sole di luglio dona larghe macchie d’ombra dove viaggiano la polvere, il polline e il pungente odore dei mazzi di origano lasciati a seccare sui balconi, colori e profumi che si mescolano sotto gli archi di ingresso oltre i quali le finestre si affacciano sui cortili come in un girotondo. Da alcune di queste finestre sporgono dei visi rugosi, dai capelli bianchi e dalla voce cavernosa che un tempo fu forse di donna, ma che oggi vibra scompostamente su note basse fino a confondersi con quella degli uomini. Si parlano ad alta voce da una finestra all’altra, queste voci che si sono perse tra le pieghe di una vecchiaia passata a infilare il tabacco o a tirare un carretto carico di scaròla in giro per quello che fino a vent’anni fa era solo un paese, si parlano biascicando parole antiche e mi guardano, mi fissano con sospetto anche dopo che le ho salutate, finché resto sotto le finestre che sono i loro occhi aperti sul (loro) mondo. In fondo, anche se questa è una strada comunale, sono praticamente entrata in casa d’altri. Per questo non ho cuore di tirar fuori la macchina fotografica, non ho cuore nemmeno di fare il tentativo di spiegare, e di chiedere se posso… no. La polvere e il tufo qui fanno tutto vecchio, e opaco. Cose e persone. Temo che se la sfilassi dal marsupio mi ritroverei in mano un mucchietto di transistor sgretolati dentro una scatoletta arrugginita. Cinquanta metri più in là c’è la città, la case nuove, le auto, internèt e i cellulari. Ma la macchina fotografica digitale qui, dietro questi muri, non è stata ancora inventata.

Saluto la corte del vico Marotta, e proseguo.

Com’è vecchia, casa mia.
Quanto giallo e quanta luce, ci sono a casa mia.
E quanto tufo, c’è a casa mia.
Sopra e sotto.
Fuori… e anche dentro.

Dentro.

continua

Angolo di Appia Antica (terza parte)

venerdì, 22 Luglio 2005

"And I’ll come home, be a better man,
if you promise not to follow.
And now, before it has begun,
wherever you are from, you can go but you can’t come…". (Gazpacho, Nemo, 2003)

A parte quando si è così scemi da farsi beccare a cantare sotto un semaforo, su questa strada è tutto talmente vecchio, talmente giallo, talmente tufaceo che a percorrerla ci sente scolorire fin quasi a sparire, se solo si ha il tempo di andare piano. Ci sono dei punti in cui sembra di camminare controvento, o in salita, insomma, come se la strada stessa cerchi di farti rallentare. Ce ne sono ancora da qualche parte, credo, di strade così, e trovarle è una vera fortuna.

Una volta attraversato il Vialone di corsa, salgo sul marciapiede imboccando un altro tratto di Appia che qui però si percorre solo in un senso di marcia. Sì, va be’, siccome voglio andare sempre dritto, come i viaggiatori che passavano di qui duemila e passa anni fa, mi tocca imboccare ‘a via ‘e Pagliare – questo il nome che la strada prende in questo punto – praticamente contromano ma, onde non incorrere in qualche incidente spiacevole sia per me che per un eventuale malcapitato quanto innocente avventore, scarto l’iniziale proposito di percorrerla in sella ma sullo spazio pedonale. Smonto allora dalla bici, e mentre ancora cerco di riavermi dall’imbarazzante scenetta dell’incrocio appena superato mi metto lentamente in cammino. Qui inizia la San Nicola vecchia, subito al di qua del Vialone si apre la zona delle masserie e dei palazzi di tufo, costruiti l’uno a partire dai confini della corte dell’altro come si usava un tempo, sicché i lati della strada sono quasi un lungo, interrotto muro giallo spezzato solo di tanto in tanto da stretti vicoli laterali che si intrecciano in un groviglio che serve i portoni di ogni cortile, di ogni casa, anche della più piccola cascina. Alla mia sinistra c’è un alto muro coronato di filo spinato su cui campeggia in bella mostra un cartello inverosimilmente arrugginito che forse una trentina d’anni fa aveva la funzione di segnalare il divieto d’accesso in una zona militare e, poco più avanti, lo stesso muro fa angolo con il vicolo detto "delle Casermette". E’ in questo tratto di Appia che pare ci fosse la ‘Pagliara’, un appezzamento acquistato all’inizio dell’Ottocento dalla Reale Amministrazione in misura di  "moggia 11, passi 15 e passitelli 2 di terreno" (a quanto ammonterà mai un "passitello"?) per permettere il passaggio del Vialone e dei Galoppatoi, allora in costruzione, che dovevano arrivare fino alla Reggia… e oggi? Mah, oggi c’è l’enorme incrocio, case nuove in schiacciante minoranza, il muro con il filo spinato e il suddetto vicolo, che tra l’altro è da una vita che attira la mia attenzione: passando di qui in auto, ogni volta mi riprometto di andare a dare un’occhiata. Poi puntualmente me ne dimentico, e non ci penso più. Ma oggi di sicuro è la volta buona, è ovvio.
All’altezza del mio girarrosto preferito, quindi, attraverso la strada ed entro in questo vicolo, stretto stretto e lungo lungo, anch’esso tutto giallo e tutto tufo, in cui spira una fresca corrente d’aria che porta un intenso profumo di fichi e di umidità. Il palazzo che alla mia destra costeggia la stradina è circondato da grandi protezioni in lamiera per la caduta di calcinacci che chiudono quasi del tutto lo spazio superiore  tra le due pareti del vicolo, così d’improvviso si fa buio e la luce arriva quasi esclusivamente dal portone a qualche decina di metri più avanti. Proseguo, e ad un certo punto il muro sulla sinistra si abbassa, la luce aumenta, finché non riesco a scorgere un cartello giallo affisso sulla volta dell’arco di ingresso:

ZONA MILITARE
DIVIETO
DI ACCESSO

Ah sì? La faccia mi si scompone dal ridere: l’arco e il fianco del palazzo sono percorsi da chilometri di rampicanti che arrivano fino al tetto… ce l’avranno messo le edere, qui, quel cartello? Eppure non sembra molto vecchio. Ma insomma, ormai sono qui… mah, io vado a vedere lo stesso. Al massimo, rimedio una sgridata e un invito a tornare sui miei passi, penso. Attraverso allora l’ingresso con addosso questa strana spavalderia che non mi riconosco, ed ecco che mi si aprono davanti agli occhi un altro tratto di strada, un largo spiazzo invaso dai rovi e infine una stretta curva che si infila a destra sotto un altro arco, evidentemente dotato di un cancello che però è completamente spalancato. Da una delle sbarre verdi e arrugginite pendono una catena e un lucchetto, che al contrario sono nuovi di zecca. Che ci sia qualcuno?
Risalgo sulla bici, e dò un altro sguardo intorno. L’arco è anch’esso quasi del tutto ricoperto di edera, e si apre alla fine di quello che sembra un muro di cinta che corre lungo tutta la stradina. Ma è quando arrivo a guardarmi alle spalle che resto letteralmente a bocca aperta: questa è una caserma… o meglio, era una caserma, ma è un fabbricato enorme, che dall’Appia non lascia intravedere le sue dimensioni perché il lato che dà sulla strada è da decenni totalmente rivestito di impalcature. Chissà quanto tempo fa dovevano averne avviato il restauro, e poi… e poi è finito così, abbandonato, chissà come e chissà da quanto… come un po’ tutto da queste parti, in fondo. Abito qui da sempre, e di questo posto non avevo mai nemmeno intuito l’esistenza. Ma come, come…
… sulla scia di questi punti di sospensione ormai non resisto più alla curiosità: passo l’arco e vado a vedere.
Al di là della porta lo stupore si moltiplica, trabocca, non so più dove far andare gli occhi. Parlo anche ad alta voce, credo.
Sto girando tra le casermette cui è intitolato il vicolo da cui sono venuta, erano forse alloggi questi piccoli edifici alti non più di tre metri con il tetto leggermente spiovente, rettangolari, grigi, con le finestre e le porte di legno e lungo i muri fili dell’elettricità rivestiti di ceramica, di quelli che si usavavo cinquant’anni fa? Ce ne sono tanti, forse una quindicina, ben distanziati e disposti in più file, alcuni ormai privi di tetto. Un dedalo di stradine li sfiora, invaso da fichi ed eucalipti, cespugli di belle di notte, avena sterile e quei bei fiori bianchi che le nonne qui chiamano ‘e ‘mbrellini. Il solo suono che si sente è un dolcissimo ronzare di vespe e api, ce ne sono moltissime, qui di certo avranno trovato da qualche parte un angolo in cui lavorare in pace. Sopra di me rondini, passeri, una gazza ladra. Non un’anima viva in questo posto enorme (chissà quante cose si potrebbero fare qui dentro, con tutto quello che si sente in giro sulla mancanza di "spazi" da queste parti!), che forse era la base militare che faceva capo alla Polveriera che si trovava poco distante da qui, penso a questo punto. Ma, dio, non c’è un’anima viva.
O, almeno, così sembra… finché da una delle casermette non sbuca fuori un cane, un meticcio grigio di media taglia, che abbaia furioso e quasi mi fa prendere un infarto. Dato che non è legato mi fermo per non inquietarlo ancora di più, fino a quando non si calma e dietro di lui non compare sulla… soglia… no, anzi… sul cancello della casermetta un… signore. Guardando meglio, mi accorgo che la casermetta davanti alla quale mi trovo è diversa da tutte le altre, ha in verità tutto l’aspetto di una casa… cioè… come di una villetta, bianca, recintata, le tendine alle finestre. Accanto al cancelletto d’ingresso, all’ombra di un noce, c’è anche posteggiata un’auto. Il vecchio in canottiera bianca che ne esce chiama a sé il cagnone, che subito inizia a scondinzolare e se ne va a distendersi all’ombra del cofano dell’auto. Il signore si asciuga le mani con un panno da cucina colorato, ha la pelle del colore del cuoio e mi fa segno che non c’è pericolo, che il cane è buono e non morde, infine mi domanda se è tutto a posto, o se non stia per caso cercando qualcuno.

– "No no", rispondo, " non sto cercando nessuno… scusi, sa, sto solo facendo un giro. Anzi, buongiorno. Cioè, io abito qui da quando sono nata e questo posto non l’avevo mai visto… non immaginavo che qui dietro ci fosse una caserma… ".
– "E infatti, uagliunce’, sient’ a mme che nun ‘o ssape quasi nisciuno, a fore ‘e chill’ che stann’ ‘ccà tuorno. Da quando non se va cchiù a piére, ‘a gente nun sape cchiù manco chello ca tène ‘n capa, figurate si po’ vere’ chello che tène attuorno. Io stong’ ccà ‘a trent’anne, e tu si’ forze ‘a quarta perzona ca se vene a ffà nu giro ccà dreto int’a tutt’ stu tiempo…". *

Uggesù. Eccone un altro. Ma tutti io li incontro, i filosofi in pensione di questo angolo di mondo?

– "Ah. Eh… ma scusi, posso? Non le crea mica problemi se faccio due passi? Veramente non avevo proprio idea…".
– "Eh, ‘o saccio, ‘o saccio. Ma tu ‘o ssaje che ‘stu posto sta ccà da cinquant’anni? Io ci faticavo pure. Comunque nun te preoccupa’, guarda tutto chell’ che te pare, che probblema ce sta’? Po’ a settembre vieneme a truva’ n’ata vota, mia moglie te fa ‘u ccafè. Mo’ scusa, eh, ma aggia asci’. Statt’ buon’!", e senza nemmeno darmi il tempo di ricambiare il saluto si gira e sparisce dietro le sue tendine bianche, mentre resto imbambolata e incredula a fissare il cagnone, che ricambia con un’espressione del tipo non-chiederlo-a-me-io-torno-a-dormire.

Ma tu guarda questo tizio come si è sistemato… s’è scelto la casermetta con l’esposizione migliore, con lo spazio davanti e l’albero di noce accanto, se l’è intonacata e verniciata di bianco… e chissà dentro, poi! Ma come… e quando… e all’improvviso nella testa mi salta fuori tutto il coro dell’Antoniano in pausa merenda, una domanda per ogni voce, tutte intrecciate insieme in un chiasso tremendo. E’ evidente che il cane sa bene il fatto suo, ma adesso per le domande è troppo tardi. Resto piantata lì per non so quanto tempo con la mandibola disancorata, indecisa se scattare qualche foto o meno, prima di decidere di saltare di nuovo in sella e proseguire il giro. Nel naso, persiste un forte odore di fichi che non vuole saperne di andar via. Dopo un altro veloce giro intorno alle casermette, mi accorgo che sapere della presenza dell’anziano signore mi ha intimidita. Restare lì mi sembra improvvisamente ineducato, improvvisamente scortese. Io e il mio stupore, allora, altrettanto improvvisamente ci troviamo d’accordo sul fatto che è meglio tornare sui nostri passi, e proseguire il giro sull’Appia.
Fa caldo, oggi. Dannatamente caldo. Forse ho avuto un’allucinazione.
Passo a salutare un’amica che abita poco più avanti, vicino alla villa dei Centore, ramo locale dell’antica famiglia siciliana dei Centorbi, a giudicare dalla divisa riportata sullo stemma dipinto sotto la volta dell’ingresso della villa stessa. Chiedo a V. un bel bicchiere d’acqua, le racconto dell’incontro che ho appena fatto e lei, che vive soltanto a qualche centinaio di metri dalle Casermette, pure sgrana gli occhi per la sorpresa.
"E no, scusa, a questo punto a settembre ci andiamo insieme, a prendere quel caffè". Che bellezza. Meno male che ci sono gli amici.
Finisco il mio bicchiere d’acqua, saluto e riparto.

"Fugat, non fugit". Sembra un indovinello.

La risposta stamattina potrebbe essere: il Tempo.

Con la maiuscola davanti.

continua

* "E infatti, ragazzina, dai retta a me, ché non lo sa quasi nessuno, tranne quelli che abitano qui vicino. Da quando non si va più a piedi, la gente non sa più nemmeno quello che ha nella testa, figurati se riesce a vedere quello che la circonda. Io abito qui da trent’anni, e tu sei forse la quarta persona che viene a fare un giro qui dietro in tutto questo tempo…".

Angolo di Appia Antica (seconda parte)

martedì, 19 Luglio 2005

"Dark is full of rays

and this ocean is a wave

and this desert is a keyhole

of passed dancing days.
(…)
Can you pull down the colossus?

Can you justify her scars?

Can you bring life to a desert?

can you justify her scars?".

(Gazpacho, Desert, 2003)

Il punto in cui ‘prendo’ l’Appia si trova in una delle zone più brutte del circondario. E’ la via d’a polveriera, in cui fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale si trovava un deposito di armi belliche, al cui posto c’è oggi la sede della Motorizzazione Civile. Stamattina il vento è ancora fresco e asciutto, e qui c’è la solita bolgia infernale delle giornate in cui si fanno gli esami di guida, bolgia per fortuna tutta concentrata nei pressi dei cancelli del grande edificio, dove gli istruttori di guida fanno capannello con i propri allievi elargendo gli ultimi consigli su come comportarsi durante l’esame. In questo punto l’Appia è uno stradone largo, enorme. Viene da Recàle e, passando sotto il ponte dell’A1, sfila via dritta verso il centro di San Nicola la Strada, che tra l’altro deve il suo nome ad una scomparsa chiesa dedicata a San Nicola di Bari ad stradam, "sulla strada", cioè proprio sull’Appia. Qui non ci sono ancora abitazioni, la vicinanza dell’Industria Calce Casertana ne ha sempre impedito la costruzione, la via è incassata tra due alte scarpate laterali bruciate dal sole e da un qualche recente piccolo incendio… a guardarla da qui, questa lunga striscia d’asfalto oggi sembra un pezzo deserto di entroterra siciliano: alla mia sinistra ci sono le vetrerie Fiore, che un tempo fabbricavano i finestrini dei vagoni di tutti i treni del Sud, alla mia destra c’è lo scasso dove da qualche parte riposano i resti della vecchia 127 di famiglia, andata in pensione qualche anno fa. Ricordo ancora con una stretta al cuore il momento in cui l’energumeno che ora è lì seduto a riposare sotto quel casotto di lamiera si avvicinò indifferente, cacciavite alla mano, per svitare la targa dall’amata scatoletta… per qualche minuto me ne sto qui, allora, appoggiata al cartello che giustifica i colori – grigio, paglia e ruggine – che mi invadono lo sguardo e lo stato di questo manto stradale pieno di buche e dislivelli da Camel Trophy, con due signori in giacca e cravatta (probabilmente due istruttori di guida in vena di una passeggiatina pre-esami) che mi guardano dall’altro lato della strada scattare foto qua e là evidentemente incuriositi, mentre ho addosso una gran voglia di scomporre i connotati del grassone dello scasso allo stesso modo in cui lui li scompose a suo tempo alla sola automobile a cui abbia mai portato una qualche forma di affezione. Nell’aria c’è odore di sterpaglia, di ferro, degli scarichi del gruppo elettrogeno che alimenta il chiosco abusivo appostato un po’ più avanti a vendere bibite sul piazzale antistante l’ingresso della Motorizzazione. Un cumulo di immondizia alto un metro davanti alle transenne che impediscono il transito all’inizio di una rampa in costruzione di un’altra strada provinciale iniziata e lasciata da circa un decennio così, a mezz’aria, è l’ultimo angolo di campo visivo che mi lascio alle spalle.
Una folata di vento si alza e mi fa pedalare via – come spesso è accaduto in altre occasioni e in altri luoghi – sull’impercettibile pendenza di questa discesa verso la città vecchia. Mi sfilano a destra e a sinistra le grandi sagome gli stabilimenti chiusi della sopra menzionata ICC, la Motorizzazione e la sua folla di patentandi, la stradina laterale dove anch’io otto anni or sono guadagnai il permesso di circolare impunemente a bordo di una qualsiasi quattro-ruote, un mastodontico concessionario di auto e la sua colorata mercanzia esposta a sviluppare calore sotto il sole, la Tipo-lito Saccone esseppià, il distributore di carburante gestito dal pittoresco Toro Seduto, il benzinaio così chiamato dai ragazzini della zona per la particolarità di tenere il suo esercizio sempre aperto, a tutte le ore e in tutti i giorni dell’anno (Natale, Pasqua e Capodanno ivi compresi), e con le chiappe perennemente posate su una grande e comoda, per quanto usurata, sedia da ufficio rivestita in pelle marrone sistemata sotto una artigianale tettoia di legno o sotto l’albero di fico che cresce accanto al distributore, a seconda delle stagioni. Quell’uomo taciturno e la sua pompa di benzina blu sono qui almeno da quando anch’io mi sono materializzata su questa terra e, io ragazzina, lui era già un punto di riferimento topografico  per la zona. Non mi meraviglierei nemmeno se sulle Pagine Gialle, alla voce "distributori di carburante", si trovasse il suo soprannome invece del marchio della compagnia di cui distribuisce la benzina… quell’omone ormai vecchio, canuto e dalla faccia truce, di cui non ho mai saputo il vero nome, con ogni probabilità non è mai stato nemmeno una persona troppo raccomandabile – "e nun ‘u sfruculiate, uagliu’!", dicevano i nonni sannicolesi ai nipoti quando dovevano mandarli da lui ad acquistare una tanica di miscela per certi loro attrezzi agricoli… eppure eccolo lì, ancora lì, sempre lì. Mah. Un mistero sotto il cielo, per noi ragazzini di allora.
Quando lo supero, sono ormai arrivata all’incrocio con ‘u Vialóne, il grande Viale Carlo III che porta alla famosa reggia borbonica. Qui l’Appia è il confine tra San Nicola e Caserta, ma oggi il grande palazzo settecentesco non mi interessa più di tanto. Mentre attendo il verde al semaforo per attraversare il Vialone e proseguire verso San Nicola, lo sguardo cade sulla vecchia masseria alla mia sinistra: parecchi anni fa questa vecchia struttura di tufo ospitava un ristorante, ancora prima sarà stata forse un’osteria, un ricovero per i viaggiatori di passaggio. Oggi è abbandonata, qualcuno ne coltiva a tabacco il terreno annesso dove di tanto in tanto, a raccolto ultimato, si vede pascolare un gregge. C’è una corte, sul lato nord della masseria, delimitata da un muro di cinta la cui sommità straripa di un verde scuro, luccicante, rigoglioso, che al primo sguardo attira e ferisce l’occhio, e poi dopo lo consola. A vista si riconoscono noci, tigli, un paio di magnolie, e un mare di edera e vitalba che ha riempito completamente il cortile, forse fin quasi all’altezza del muro. Sembra anzi che sia sul punto di colare fuori, e invadere il campo oltre il recinto.

Verde. Mamma mia, quanto è verde.

[Verde!]

Verde…

[Verde!]

Eh…

[VERDE!]

"He found himself a private desert,
and sometimes he feels that it expands,
it’s like it’s got him mirrored
the way it fits into his hand
as if it’s tailored.
If you smash yourself against his wall
then you’ll never trip…
you’ll never faaaaaaaaaaaaaaaaaaaall…".

"SIGNURI’, E’ VERDE! Vulimm’ canta’ tutta ‘a jurnata?" – grida contrariata una signora sporgendosi dal finestrino dell’auto dietro di me.

Schizzo via in volata, novella Cipollini in gonnella.
Che vergogna…

continua

La sveglia

martedì, 28 Giugno 2005

Li ho trovati comodamente installati tra le fronde di un albero sotto la mia finestra una decina di giorni fa, al mio ultimo rientro. Sono venuti educatamente a presentarsi appena si sono accorti del mio ritorno, e ormai sono diventati una compagnia fissa per tutta la giornata: spesso si fermano senza timore sul davanzale che è accanto alla mia scrivania, forse rassicurati dalla zanzariera che ci separa, danno uno sguardo al di là della cortina e poi beccano con calma le briciole che lascio loro ogni mattina. Sono una coppia, e il loro attico non dista più di tre metri – in orizzontale – dal mio assai meno sciccoso primo piano. Mah, sarà questione di prospettive. Sospetto, inoltre, che stiano per metter su famiglia, perché di norma vanno a dormire relativamente presto, e si svegliano tutti i giorni alla stessa ora per andare al lavoro, un po’ prima del sorgere del sole, anche al sabato e alla domenica. Tutti i giorni. Alle quattro e mezza.
Ora, ho provato in vari modi a spiegar loro che in realtà non ci sarebbe bisogno di svegliare anche me, a quell’ora, perché i miei orari sono diversi, e li ringrazio della gentilezza ma non devono disturbarsi, ecceteraecceteraeccetera, ma loro niente. Sono talmente premurosi che non vogliono sentire ragioni, dicono che il mattino ha l’oro in bocca. Sarà. Insomma… cortesi, loro, ma irremovibili. Che carini.
Devono essere di sangue elvetico, per altro: so di per certo che non hanno orologi in casa, eppure sono di una puntualità impressionante.


[Avvertenza: la destinazione del link è un file audio di 1.2 Mb. Mi scusino il fruscio…]

Di Tempo e Deriva – (Fin dove arriva il Mare?)

mercoledì, 18 Maggio 2005

Dopo anni di università a Napoli per la prima volta oggi a via Marina, alla fermata dell’ANM di fronte al palazzo di vetro della Federico II, sento l’odore del mare. E’ salito dal porto, improvviso e stupido, salutato da un del tutto casuale alzarsi in volo di uno stormo di gabbiani. Attratta dall’inatteso frullare d’ali ho alzato lo sguardo e, come spesso si vede accadere in questa città in casi simili, metà della piccola folla di persone assiepata intorno alla fermata si è girata a guardare nella stessa direzione per qualche secondo, dopo di che ognuno è tornato al proprio telefonino, alla propria bestemmia, ai propri pensieri.
Sono qui da più di un’ora, e da qualche minuto il vento ha iniziato a girare, da nord è sceso a sud ovest (sceso, perché qui tutto quello si muove dalla terra al mare va giù), e ora si è piantato con decisione ad ovest, tanto per non sbagliare. Forse è proprio per questo, che ho beccato questo maledetto buco.
Già, buco: a Napoli, quando si è in attesa di un qualsiasi mezzo pubblico su gomma o su rotaia non sotterranea, si chiama buco quel mostruoso e assolutamente imprevedibile quanto non quantificabile lasso di tempo che inghiotte i sopra menzionati mezzi, tutti, in qualsiasi direzione vadano e per ragioni del tutto ignote ai comuni mortali ne costituiscono la principale fascia di utenza.
Il buco colpisce inesorabilmente a caso, in qualsiasi punto della città, a macchia di leopardo, e spesso il suo raggio d’azione comprende diversi chilometri, di una linea o di una intera zona. Ragion per cui non serve a nulla nemmeno cambiare fermata o linea… se ci si trova in un punto della città-budello lontano da una qualsiasi fermata della metropolitana, tanto vale mettersi l’anima in pace ed aspettare, o decidersi a camminare. Fra gli studenti universitari pendolari, infatti, dire di aver preso un buco equivale spesso a raccontare di essere drammaticamente rimasti bloccati per due o tre ore, con armi e bagagli, in balìa delle intemperie e della grande rete dell’ANM, oppure vantarsi di essere sopravvissuti ad una traversata a piedi dal retrogusto epocale (del tipo – che so? – dalla Stazione Centrale a Nisida, per intenderci), di quelle che un giorno si potranno raccontare ai propri nipoti. Che poi vorrei proprio vedere cos’abbia, di ‘mobile’, l’esseppià che porta in giro la varia umanità di questa città. Scherzando, non si potrebbe nemmeno pensare agli orari, per esempio, visto che non ne esistono…
Ad ogni modo, sono le tredici e trentotto e sono ancora qui, in questo avamposto affacciato sulle sconfinate lande del Regno dell’Attesa – che ormai mi figuro come la bassa pianura trevigiana d’inverno, fumosa e perennemente opaca di caligo – uno dei luoghi migliori per riflettere sul senso della vita e sul desiderio di un pranzo che si fa lentamente irraggiungibile, quando il vento gira e porta fin su quest’arteria stradale intasata di auto nell’ora di punta l’odore del mare. Dopo un’ora di attesa sotto il sole, arrivo a pensare che forse il buco di oggi ha addirittura qualcosa di karmico… al che, provo l’irrefrenabile istinto di strappare via di mano al distinto uomo d’affari che alla mia destra sta fumando a centimetri tre dal mio naso il suo sigaro, e di spegnerlo in faccia alla simpatica vecchina di San Giovanni a Teduccio che alla mia sinistra sta lamentandosi dal almeno tre quarti d’ora dei trasporti pubblici tenendo un comizio a centimetri dieci dai miei padiglioni auricolari, cercando approvazione negli astanti e tentando, ripetendo sempre le stesse cinque frasi, di fomentare un’estemporanea sommossa popolare contro il-sistema-che-non-funziona. E vabbuo’. Karma, oggi non te la cavi solo con una zaffata di addore ‘e mare. Ripassa un altro giorno, per favore.

 Arrivata alla fermata alle dodici e venti, soltanto ora, alle quattordici e sei minuti, sono riuscita a saltare sul primo treno utile per percorrere quei trenta chilometri scarsi che mi separano da casa. Inutile dire che ad un certo punto, stanca del signore con il sigaro e dell’anziana vajassa rivoltosa, ho salutato il buco e mi sono avviata alla stazione a piedi… se l’avessi fatto subito dopo essere uscita da Palazzo Giusso, adesso sarei a casa già da mezz’ora. Ci si casca sempre, ogni tanto. Altrimenti, in fondo, che buco sarebbe?

 Sul finestrino accanto al mio posto in treno, in trasparenza, è impressa la macchia di sebo cutaneo lasciata da un viso… forse assai curioso, perché è evidente che questo visetto ci si è stampato di fronte, sul vetro. Chiari si distinguono il triangolo dagli spigoli arrotondati lasciato dalla fronte, l’ovale del naso schiacciato e il tondino un po’ irregolare della pelle sottostante. Doveva essere un bambino, perché i più grandi queste cose non le fanno, e poi le proporzioni della macchia stessa ne lasciano quasi affiorare grosso modo i lineamenti… e mi chiedo cosa mai guardasse con tanto interesse…

Uh. Ma guarda… di questi tempi è un giardino, la massicciata della stazione. Ranuncoli… papaveri… tarassaco… e un mare… un mare di borragine… viola… un mare viola, e giallo, e rosso… che strano… che strano mare… mare…  "che magnifico mareper chi non sa nuotare!".

Ma… cosa c’entrano quelli della Luna, adesso?

Mammà: un corto circuito di Memoria Arcaica?

giovedì, 10 Febbraio 2005

 Le varie culture del Meridione – quella campana, siciliana e pugliese su tutte – sono tendenzialmente conservative. In condizioni di sviluppo sociale ed economico che non ne permetterebbero più la sopravvivenza, questi arcaici bagagli cutlurali sono oggi i più longevi, i più ostinati, i più resistenti ai rivolgimenti strutturali della cultura dell’Era Moderna. A Napoli, nel caso specifico qui preso in considerazione, la figura di mammà all’interno della famiglia ha ancora tratti simili a quelli dell’organizzazione del nucleo familiare pre-medievale, in cui la trasmissione del nome, dei beni e del legame di sangue era matrilineare. La famiglia cosiddetta allargata, poi, è un concetto naturalmente generato da questo tipo di assetto del gradino di base della società: oggi a Napoli, infatti, si chiama famiglia allargata quello che fino a poco meno di dieci secoli fa era il clan, cioè il rigido sistema di sostegno reciproco – chiuso su se stesso per evidenti ragioni – da parte dei consaguinei di uno stesso gruppo familiare, che garantiva il mantenimento dell’ordine quando il quieto vivere era basato sul sistema della faida, e non sul ricorso ad un’autorità superiore riconosciuta da tutti e incaricata anche di vigilare sull’ordine della vita sociale. Nei secoli, questi antichi retaggi sono sopravvissuti in maniera più o meno evidente a seconda del grado di presenza dell’autorità centrale riconosciuta, e quindi… le mamme di Napoli e la famiglia allargata oggi restano sotto gli occhi di tutti come tracce, segni della Memoria di un popolo coriaceo che si fa strada da solo nella propria, personalissima storia, ma purtroppo anche ignorante e dimentico delle proprie radici.
Dov’è il corto circuito?
Nell’occhio innocente del ‘foresto’ che, pensando di aver osservato un aspetto apprezzabile della cultura ‘altra’ che ha di fronte, ci dice: "è bello il modo in cui da voi ci si sostiene in famiglia, bello il modo in cui si può contare gli uni sugli altri…", senza ri-conoscere il lato estremamente invasivo – che oggi non ha più ragione di esistere – di rapporti familiari che troppo spesso da sostegno mutano violentemente in una ingiustificata e ingiustificabile limitazione alle libertà e alla crescita culturale individuali. Qui si interrompe il circuito memoria-comprensione: il Foresto chiede "perché?", e il Napoletano sa rispondere soltanto: "pecché accussì è cchiù bbell’!".  Invece di: "pecché ‘na vota era mammà ca dev’ ‘o cugnome a’a famiglia, e tutta ‘a famiglia avev’a pruteggere ‘a terr’ ‘e mammà, si cocc’rune s’a vulev’ arrubba’ ".

Come al solito il punto è: chi è lo Straniero?