Hanno ceduto.
Doveva succedere, prima o poi.
Hanno fatto gli indifferenti. Per anni, anni e anni. Ci hanno tirati su con mazze e panelle e un certo orgoglio tutto loro, instillandoci fino all’ultima goccia tutta l’apertura mentale e l’adattabilità di cui hanno potuto fare esperienza durante la loro vita. Non molta, per alcuni, ma in ogni caso trasmessa con cura, quasi con urgenza si sarebbe detto. Niente vizi, vietato lamentarsi e fare gli schizzinosi. Non si mangia bene solo da noi, paese che vai usanze che trovi, rispetto, rispetto, sempre e solo rispetto, tu non sei migliore di nessuno (anzi, in genere tu sei peggiore degli altri), e quello che sei te lo porti dentro, non dietro. E parla in italiano, chi t’è bbiv’, che poi si sente da dove vieni.
Da sempre stringono i denti nel veder partire tutti, tutti, fratelli, nipoti, amici, i figli degli amici e gli amici dei figli… e i loro stessi figli, in ultimo. Nonostante tutto, forse nutrivano la segreta speranza che non sarebbe toccato anche a loro, senza rendersi conto che se alla fine i loro pargoli hanno avuto il coraggio di rimboccarsi le maniche e andare a cercare da soli la loro strada, be’, è stato anche – e soprattutto, diciamolo – per via di quello che hanno insegnato loro. Poi si guardano intorno, e trovano la forza di dirlo pure ad alta voce: ma sì, meglio così. Ma comunque.
Per anni, allora, hanno fatto finta di niente. Quando noi si partiva facevano finta di non preoccuparsi, loro, ché tanto, ‘nsomma, noi a certe cose non ci teniamo, nonfanniente, nonfanniente… facevano gli evoluti, loro, come se stare al passo con i tempi significasse dimenticare da dove si viene, la terra sulla quale si è venuti al modo e cresciuti. E’ la vergogna silenziosa di chi è emigrante da generazioni, da sempre, che è anche la vergogna di chi è rimasto e ha visto tutti gli altri partire, e per raggiungerli è salito su un treno ogni volta che ha potuto. Perché sul sud è già stato detto tutto e più di tutto e loro, che hanno fatto parte delle generazioni di esuli di cui tutto è stato detto, hanno provato ad affrancare noi, i figli, da facili etichette e luoghi comuni. Perché noi si vivesse in pace anche altrove, senza essere logorati dalla nostalgia. Per questo, era: quello che sei te lo porti dentro, non dietro. Un tentativo. Coraggioso e diverso, per quanto discutibile.
Tutto questo solo perché fino ad oggi non avevamo mai trascorso una festa grossa fuori casa, naturalmente. Ma mi aveva avvisato tante volte, lei, che ne sa qualcosa già da diversi anni: "è solo perché per la maggior parte dell’anno vivi ancora a casa. Ma aspetta che la distanza diventi anche solo una ‘ntecchia più tangibile, e vedrai…". Già. Del resto rimane indimenticabile la performance di sua madre che – quando io e Maria partimmo per andare ad assistere al suo primo concerto in terra d’Albione – non perse occasione di consegnarci "una borsa piccola piccola, niente di che" per sua figlia. "Ve la portate come bagaglio a mano, mi raccomando, non la imbarcate!", ci disse con naturalezza senza nemmeno sincerarsi se noi ne avessimo già uno nostro, di bagaglio a mano.
– "Ma… signora, scusate… quanto pesa? No, è che non sembra tanto leggera, e il massimo peso permesso è…"
– "…cinque chili, lo so, lo so. Comunque quella è di quattro chili e otto, e delle misure consentite. State tranquille".
Ma che ne sapevamo noi, allora, povere anime innocenti? Era tutto studiato, organizzato, perfetto. Tanto d’occhi così, facemmo. Soprattutto quando cedemmo alla tentazione di sbirciarne il contenuto, in aereo. E non immaginavamo che in seguito avremmo fatto da corriere espresso di sapori e profumi e ricordi per tante, tante, tante volte, e che ci sarebbe toccato di rivivere questo piccolo rituale d’affetto e memoria quasi ogni volta che saremmo andati a trovare un amico già trasferito, già partito, già andato prima di noi. Di mano in mano viaggiano, queste silenziose memorie, e trovano la loro strada nel mondo, alimentando e traendo alimento dalle stesse persone cui appartengono.
E davanti alla prima Pasqua che passeremo lontani dalle nostre famiglie, succede infine anche a noi. Che nel nostro caso ha il sapore di un piccolo miracolo. Cedono. Hanno ceduto.
Mentre si parlava delle imminenti elezioni, ad un certo punto la madre di M. mi fa: "ah…. eh… a proposito, poi oggi mi trovavo a passare per di là, e ho pensato di prendere qualcosa che, se avete spazio in macchina, vi potete porta’ quando partite…".
– "Sì? Uh, speriamo, siamo stracarichi… ma che hai preso?"
– "Eh, vieni di là che ti faccio vedere, così facciamo prima…"
Mi invade una leggera inquietudine. Se preferisce mostrare quello che ha comprato invece di dirlo, allora c’è da preoccuparsi… ma poi lo vedo. Il miracolo si presenta in forma di una inconfondibile busta trasparente di un formato assai particolare. Quando inizia a indicarmene il contenuto credo di vedere una tenue luce soffusa emanare dalle scatole blu, ma è solo l’effetto delle lacrime che mi velano gli occhi per la commozione e la sorpresa.
– "Guarda, allo’… qua ci sono due uova di Pasqua, qua il casatiello, qua la pastiera, qua i taralli…"
– "I taralli? Hai pigliato pure i taralli?"
– "Embe’, sì, certo, andavo da Leopoldo e non vi pigliavo i taralli?"
– "Oddio…"
– "Che c’è? E’ troppo? Non avete abbastanza spazio?"
– "Nooooo, Annamari’, piuttosto me la faccio io in bici fino in Friuli… GRAAAAAAZIIEEEEEEE!"
Al mio piccolo grido di gioia accorre pure lui dall’altra stanza, e mi trova in pieno stato di ebbrezza, abbracciata alla santa donna che lo ha generato. Vede gli inconfondibili scatoli blu provenienti dai gironi più profondi dell’inferno alimentare denominato Tarallificio Leopoldo e perde l’uso della parola. Resta in contemplazione per una buona mezz’ora, senza proferire verbo. Sua madre lo guarda, sorride, non si preoccupa e passa senza pietà alla busta successiva.
– "Qua invece c’è un po’ di spesa, guarda, ché arrivate di domenica e non avete niente a casa… pomodorini, un po’ di odori, olio, pane, frutta. Di qua, invece, ci stanno i friarielli…"
Alla vista del bustone che straripa tenere cimette verdi da tutte le parti sono io ad avere un mancamento. Riprendo conoscenza nel paesaggio rugginoso della zona di Narni, con la primavera che esplode di luce alle porte dell’Umbria, in un abitacolo che sa di mandorle, pane e pomodori. Ad ogni curva i friarielli tentano di liberarsi dalla busta di plastica in cui sono stati rinchiusi per impedir loro di prendere il sopravvento, con il casatiello che vigila su tutti con il suo aroma antico, pieno, benevolo, mantenendo l’ordine con consumata autorevolezza. La pastiera sorride tranquilla, sul sedile posteriore, da qualche parte.
E noi? Gongoliamo senza ritegno, ça va sans dire. Smaltita la sorpresa, ragioniamo sorridendo su come entrambe le metà del parentado abbiano risposto a questa sorta di richiamo di sangue e di terra… perché ognuna ha reagito nel modo che le è più congeniale, è ovvio. La sua con il gesto d’amore che sta dentro ogni pezzo di pane condiviso, anche da lontano; la mia con quell’altro, di gesto, pure tipico degli esuli: metter due panni nel sacco e partire. E non è ‘a festa grossa, il punto, né la cosiddetta tradizione. No. E’ proprio un’altra cosa, questa.
Arrivano domani, questi viaggiatori che altri viaggiatori hanno generato. E poi dicono.