La sua storia è qui.
Eccolo infine disponibile a tutti, fino al suo passaggio sulla Strada.
Grazie a Matteo.
Sabato, ore 11.30 a Cordovado, piccolo borgo del Friuli meridionale ad un tiro di schioppo dal confine con il Veneto.
Nel bar della piazza entra un omone con un sorriso largo così.
– Ooooh, signori, ma buongiorno a tutti, anche a quelli di Portogruaro!
Scoppiano tutti a ridere, anche i bicchieri.
Arrivo correndo, trafelata e sudata per la salita sotto il sole di mezzogiorno.
– Papà! Papaaaaà!
Dalla porta si affaccia una testa dai capelli radi tutti costellati di minuscoli trucioli gialli. Si pulisce le mani nere di grasso con uno straccio vecchio.
– Eh! Oh, che c’è?
– Pa’!
– Ma! Oddio! Che hai combinato! Che hai fatto alle gambe!
– Pa’, l’ho trovata!
– Cos… no, aspe’… Mari’, vieni un attimo, per piacere… col disinfettante!
– Pa’, senti un attimo, prima…
– No, ma tutto ‘stu ssanghe… che hai combinato?
– L’ho trovata, t’ho detto!
– Ma cosa?
– La stazione!
– Eh? La stazione?
– EH! La stazione!
– DOVE?
– Giù, vicino al ponte di mattoni, a lato della strada che sale…
– Oh! Ma ovèro dici?
– Sì!
– Uh, la voglio vedere! Andiamo!
– Eh, per questo ero sagliuta a te chiamma’!
– Eh!
– Ok, allora fammi prima disinfettare un secondo e po’ jamm’…
– Noooo, lo fai dopo!
– Papà, ma prima stavi dicendo…
– E vabbuo’, so’ dduje scippi, ja’…
– …
– Jamm’!
– Papà!
La ‘gnora intanto è sopraggiunta munita di bottiglietta verde e ovatta. Sorride, divertita e intenerita, poi ride.
– Ma quant’ site sciemi, tutt’i dduje… giusto per dire da chi hai preso.
– Grazie, eh.
– Prego. Guardate che fra mezz’ora si mangia…
– Siiiiine…
– … e se non tornate ve scasso ‘a chiangolétta pe’ ‘mpasta’ arét’ ‘e rìni.
– Eh, non ha pigliato sulo ‘e me, quest’è sicuro.
Camminando su un prato di cenere, rompere un silenzio di quasi trent’anni e sollevare piccole volute grigie che incorniciano i piedi ad ogni passo: paf, crac, paf, paf, paf. E il giorno dopo rimettere le stesse scarpe, chinarsi per allacciarle e sentirsi pungere il naso, a fiotti, dall’odore ancora intatto della menta selvatica.
direzione N —> E
° "Apri?", "ok", "oddiochiudi!"
° "Ciao ma’… siamo partiti…sì… da una mezz’ora scarsa, più o meno…"
° "… e lo sai a cosa servono le righe, sul segnavento?"
° "Pronto? Buongiorno, vorrei segnalare un incendio…"
° "…e il miele… e poi fanno ‘ste ciambelle di pane lievitato poco poco coi semi di anice dentro che venivamo a prendere il sabato al mercato…"
° "… sta in alto in alto, mi diceva il nonno, per questo si chiama così…"
° "Che dici, ci fermiamo a mangiare?"
° "Speriamo casomai che a Roma non c’è traffico…"
° "Oh, finisce che ce la caviamo con poco…"
° "Evvai!"
° "Uah, ma magari piovesse un po’…"
° "Mi passeresti l’argent, por favor?"
° "Uh, che sonno… ci diamo il cambio?"
° "Uh? Eh?… ah… iaaaaahhh… oh, già qua, siamo?"
° "Rooooonfffff…. roooooonf….. rooooooooonf…."
° "AH!"
° "No, ma tu hai capito? Guarda, ma se lo fa un’altra volta, gli… gli… gli seco le cosce!"
° "Oh, abbiccànn’ l’autostrada…"
° "No… non mi dire che quella è coda…", "eeeh, no… cioè sì, lo è" – TUD! (craniata su volante)
° "AAAAAAAAAAAAAAAAHHHHH!" (in coro, dopo due ore di coda)
° "Eh… eh, sì… dove siamo adesso, dici? Aspe’…", "siamo al Foro Boario!" (ride), "… eh, siamo a Foro Boa… a Boara, mamma, BOARA!" (ridono, al telefono e in auto)
° "Uh, guarda, qua ha piovuto…"
° "….."
° "Uh…"
° "Siamo tornati ai Ponti Rossi, eh…"
° "…."
° "…." (tremano)
° "Dove le tre province si incontrano…"
° "Sì.. sì sì, arrivati… ciao, eh, a domani"
° "…." (sorridono)
* Resina: grande mercato dell’usato di Ercolano (Napoli) nato durante la Seconda Guerra Mondiale, quando si smerciavano oggetti e vestiti trafugati ai convogli americani. Ancora oggi in piena attività.
Dopo averla sentita, non è più la stessa cosa. Tu non sei più la stessa persona di prima. Niente è più come prima. Guardo la crepa sul muro che ho di fronte, che mio padre non volle mai stuccare. No, davvero nulla resta uguale, dopo il passaggio di questa Voce nella minuscola vita di un minuscolo essere umano.
Ventitré novembre millenovecentottanta. Duemila e settecento morti in novanta secondi. Oggi, non se ne trova parola da nessuna parte al di fuori delle mura di queste province. Per fortuna, c’è qualche voce che ancora si pone delle domande. Ma cosa sono ventisei anni? Niente. Ventisei anni non sono niente.
E’ tutto ancora qui, nel nastro di quella radio dove si stava registrando nel momento in cui.
E ancora.
E ancora.
E ancora.
E ancora.
E ancora.
E ancora.
Per chi riesce a sentirlo.
[Grazie a: max31055, Paolo Subioli, Orlando e Chiara Marra]
Quasi mezzogiorno, e un’ombra che appena si vede. Appena appena. Da sentirsi trasparenti, quasi. Appena appena presenti.
Questo è il tempo che più riconosco a questa città: cielo bianco, umido e tiepido di scirocco e di un sole pallido. Pallida. Di tutte le volte che ci sono venuta, solo in un’occasione l’ho trovata inondata di sole, sotto un tetto di un blu uniforme come non l’avevo mai visto. Ma mi era sembrato quasi un altro posto. Ricordo un giorno d’inverno che tirava un vento così così freddo che decidemmo di rientrare perché non avevamo addosso vestiti abbastanza pesanti. Ne ricordo un altro che i tetti da quassù si vedevano a stento, non un filo di vento, il piccolo anemometro a coppe che sta sopra la banderuola a forma di leone quasi del tutto immobile. Quando venivamo qui al cinema, era sempre così. Sarà che ci si veniva col freddo, più che altro. Sarà.
Ecco, anche adesso la banderuola è ferma. Quante cose di questo posto non conosco… e tu, che mi passi davanti per la terza volta, che fai fotografie dall’alto delle mura… anche te non conosco. E’ vero che si è ombre, spesso, nel mondo. Per molto meno di una parola, per molto meno di uno sguardo, per molto meno di un passo, per molto meno di niente.
C’è un angelo qui sopra davanti a me (qui sopra davanti?) con il braccio teso davanti a sé, che indica con prepotenza un punto da qualche parte alla mia destra. Non so dove guardi, lui. Glielo vorrei domandare. Dove guardi? Come vorrei domandare a quel signore sulla panchina laggiù, vicino alla scalinata, cosa sta fissando da almeno dieci minuti, e a quei ragazzi dall’altro lato, seduti sugli scalini del pozzo vicino al muretto di cinta, per quale motivo ridono, ché le loro risate sono tanto forti da risuonare per tutta la spianata del castello. Cosa guardi, signore? Perché state ridendo così forte?
Alle mie spalle sento il ronzare, ovattato dalla foschia, di un cantiere al lavoro, mentre un elicottero dei Carabinieri per una decina di secondi copre tutti gli altri suoni con il secco frullare delle sue pale.
[tototototototototototototototototototototototototototo…]
Sul tetto del castello c’è una torretta che sembra un faro, solo che al posto del faro c’è un tricolore, moscio lungo l’asta ché vento non ce n’è più. L’aria ha smesso di muoversi del tutto. Sul muretto qui dietro la panchina dove siedo ritrovo la stessa pianta di quel giorno di un mese fa in Costiera, che ne avevo preso una foglia ma poi non ero più riuscita a sapere quale pianta fosse. Vedo ora che non mi ero accorta che si trattava di un’edera. Mah. La cicatrice sul polso è arrossata, stamattina, e pizzica da morire. E il sole è bianco e, invece di infilarmi nel groviglio di stradine ai piedi di questa collinetta (come forse dovrei fare) me ne sto qui, su questa bella panchina rossa ad annegare nel suono di questi tre quarti d’ora d’attesa. Che finiranno tra un quarto d’ora. Ma che ci devo fare, certe volte invece che camminarci sopra, a uno spazio, preferisco aspettarci dentro. E’ mezzogiorno. Udine è piena di campanili, si stanno mettendo a suonare tutti insieme. Di tutte le panchine, qui (ma a chi gl’è venuto in mente, di continuare a chiamarlo castello, ‘sto posto?), solo questa e quella del tizio che prima fissava non so cosa e adesso legge il giornale laggiù, vicino alla scalinata, sono occupate. Sul belvedere qui a sinistra c’è un signore con i capelli tutti bianchi che fuma la pipa e guarda la città. Il sole s’è fatto ancora più pallido, non scalda quasi più. Anzi, proprio per niente. Ancora campane… campane di mezzogiorno e sferragliare di lavori in corso.
Rintocchi più lenti, adesso.
Anzi, no.
Finiti.
S’è alzato un alito di vento. La bandiera sopra la torretta del castello non è un tricolore, ma quella del comune di Udine. Passano tre turisti, che spariscono dietro un albero. Ma che ci faccio dentro questa scrittura, ogni tanto mi domando. C’ho qua ‘ste due voci, distinte e separate, che viaggiano per cazzi loro, ognuna su binari e incontro a destinazioni totalmente diverse, nel tempo e nello spazio. Dico, ma che ci faccio io qui? Per il momento, sto seduta su una panchina di ferro rossa, si direbbe, e aspetto.
Mannaggia, ma è ora.
Non aspetto più.
Vado.
Arrivo.
Qualcuno mi insegni a disegnare.
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