Al confine con le pesanti nuvole basse i gabbiani prillano irrequieti, e le rondini stridono disegnando linee spezzate nella fredda luce dell’eclisse. Dai tetti delle case di tufo arriva a fiotti, leggero, pungente, il profumo dei carciofi arrostiti.
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Mezzaluna di sole
mercoledì, 29 Marzo 2006Ferrovia locale
lunedì, 20 Marzo 2006Un venerdì diciassette come un altro. Un appuntamento duecento chilometri più in là. Venti minuti di ritardo.
Con un certo disappunto alla fine lo dice ad alta voce anche il canuto signore seduto qui accanto, che canticchia mentre legge il giornale.
Ma va be’. C’è il tempo di fare due passi verso il deposito, di tendere l’orecchio e restare in ascolto.
E qui sulla soglia, qui che non è ancora là, si vede che ecco, è vero, ma sì… ma sì: l’inverno è proprio finito.
19 : Lin
martedì, 13 Dicembre 2005– Oh, adesso per il dopo cena ci vuole il dolce… ma’, piglia un po’ il dolce friulano che Loredana ha portato ieri… guarda, vedi, si chiama gubana…
– Che? Gubana? Ua’, che nome…
– Eh, sul fuglitiello che ci stava vicino c’è scritto che il nome è di origine slava, che vuol dire arr…
[Lo interrompe con un cenno della mano. Silenzio. Si avvicina ed esamina il dolce]
– Aaaaah, nooooo, ma quando mai! Ma mia nonna la fa tale e quale, chest’ è ‘a PIZZA FIGLIATA!
– …
– …
– Ehm…
3 : Chun / Pi : 8
domenica, 9 Ottobre 2005Nel boschetto dietro casa mia questi sono i giorni della raccolta delle noci. Sta, il contadino, a battere i rami delle sue enormi piante con la misurata violenza (che non può esser solo forza, ché quest’albero scontroso va affrontato in questo modo se si vuole estorcergli in tempo i suoi bizzarri frutti) che gli insegnarono da bambino, per tutto il giorno. Al tramonto gli si fanno infine nere le unghie e le dita, quando c’è da riempire i sacchi con quel che è caduto sulle larghe reti verdi tese a mezz’aria, aggrappate ai tronchi. Così dura, già da una settimana, a dispetto del Levante che fischia feroce dalle Forche Caudine, e a dispetto delle improvvise burrasche di acqua e grandine che vengono a strappar via le prime foglie ingiallite dalle cime più esposte. In volto, nei momenti di pausa, l’espressione assorta e contratta di chi è in ascolto: in questi tempi la terra alza per un’ultima volta la voce prima di scivolare nel torpore invernale ed è, questa, voce che va ascoltata per decifrare i segni della stagione che verrà… sicché, per un poco, in certi giorni pare che direzioni ed elementi si confondano: acqua profonda sopra la testa, e lento, mite tuono sotto i piedi.
Che poi, a fine giornata, viene proprio voglia di cantare.
Angolo di Appia Antica (epilogo)
giovedì, 29 Settembre 2005"I wish that under crimson sky peace was made between you and I.
Streets were clear and we could go to find a life that we don’t know".
(Gazpacho, Ghost, 2003)
Dismessa. L’Appia Antica qui da noi è una strada dismessa.
Ma ‘dismesso’ è una parola che si incontra frequentemente dalle mie parti, ed io stessa spesso non faccio che sorprendermene. Strade dismesse, fabbriche dismesse, beni culturali dismessi, aree demaniali dismesse. Sembra quasi che quest’angolo di Campania in cui sono cresciuta sia esso stesso in via di dismissione. Forse è per questo che qui tutto è così bruciato dal sole, opaco, abbandonato. Ai margini del capoluogo, sorprendemente poco più in là, verso sud, c’è tutto un mondo che langue, dismesso, sì, come un vestito che non si usa più, una striscia di terra di cui nessuno vuole più prendersi cura. Casa mia è un posto dove il tempo incespica, rallenta, poi si rialza, prosegue a passo veloce e salta a pie’ pari qualche fosso, qualche asperità del terreno. Poi inciampa di nuovo su qualche masso di tufo, si ritrova di nuovo a viso a terra, e così via. Nonostante la velocità di certi cambiamenti del paesaggio, nonostante l’avanzare di certi cosiddetti rinnovamenti, questo continua a sembrare un posto di frontiera, di passaggio.
Sarà questa strada, che qui è vecchia come il mondo.
Sarà questa terra, così bella e così stanca, che lasciata a se stessa ritrova in certi angoli l’inaudito vigore che portò qui gente di tutte le razze, in un po’ tutte le epoche. Sarà che al mondo il tempo non scorre allo stesso modo da nessuna parte.
Sarà. Sarà.
Angolo di Appia Antica (ottava parte)
giovedì, 29 Settembre 2005(…) l’estate sul mondo
ombre stampava e pace.
(U. Saba, Chiaretta in Villeggiatura, da Preludio e Canzonette, 1922-1923)
… che scorrono sotto le ruote mentre in apnea attraverso il chilometro delle discariche di San Marco Evangelista. Non ho pensato a portare con me qualcosa per coprirmi naso e bocca, quando sono uscita questa mattina, non avevo pensato che sarei passata di qua. Tra l’altro, in questo momento della giornata – tra mezzogiorno e l’una – il fetore è particolarmente intenso, quasi insopportabile persino per chi vive ogni giorno a pochissima distanza da qui, tuttavia l’idea di tornare indietro non mi piace e così trattengo il respiro, e proseguo. Sono salva – e cianotica – soltanto dopo la curva sulla quale si protende, minaccioso, il contrafforte delle mura occidentali dell’antica Calatia, di cui qui resta a marcire un piccolo tratto, letteralmente tirato fuori dai campi che lo circondano da un gruppo di ragazzi animati da una passione fuori dal comune, la cui opera però oggi giace abbandonata, protetta da una recinzione che potrebbe essere scavalcata anche da un bambino di cinque anni e che, infatti, non ha mai fermato gli atti di vandalismo di questi ultimi anni. Qui nel centosettanquattro avanticristo c’era gente che stava lavorando per rinforzare questi mastodonti di tufo; qui allora c’era qualcuno che tagliava pietre sotto il sole, che scavava fossati, che senza nemmeno saperlo preparava questa strada al passaggio di qualcosa di molto grande.
Gente, erano. Osci, si chiamavano, e Calatia la città legata alla loro sorte. Pastori, e donne che lavoravano l’argilla. Furono i primi ad arrivare qui. Duemila anni prima dell’Anno Zero dell’Occidente, loro erano già qui. Quando si dice costanza…
Vivevano sulle colline tifatine laggiù, laggiù, ma un giorno, visto che là c’era sempre troppo vento quasi tutti i giorni dell’anno, vennero a star qui, nel pezzo di terra che si trova tra questo muro e Villa Galazia, un paio di chilometri più avanti. Non erano in tanti, ci stavano certamente ben comodi tutti. Del resto era gente semplice, senza troppe pretese, che non sentiva il bisogno di viaggiare… quando scesero dalle colline impararono a coltivare, e fu solo quando arrivarono i Greci a Cuma che iniziarono ad interessarsi al mondo esterno: i vicini appena arrivati dall’estero avevano portato ceramiche e certi nuovi oggetti ornamentali che piacevano molto alle signore, e così cominciarono gli scambi e i commerci che portarono gli artigiani locali a diventare per imitazione sempre più abili, e più apprezzati. Capirono che in una situazione del genere non c’era più motivo di restare divisi in tribù, e così da un certo punto in poi demandarono tutte le decisioni per il bene comune ad un anziano che sembrava anche saper dialogare con i piani alti dell’esistenza, mentre loro si divertivano con quei vicini che ne sapevano sempre una nuova, tanto che per raggiungerli e da loro farsi più facilmente raggiungere arrivarono persino a selciare la strada che li univa alle loro terre.
Le donne allora scambiavano i loro vasi con belle spille d’oro oro e vestiti alla moda, mentre certi altri nuovi arrivati che si erano stabiliti non molto lontano – Etruschi, erano – sembravano conoscere un modo di coltivare la vite veramente ingegnoso, che gli uomini di qui non avevano mai visto utlizzare prima; li invitarono qui a farsi insegnare come farla crescere verso l’alto, lontano dal terreno, e a loro volta ricambiarono la gentilezza con i frutti di una terra che qui era generosa come non lo era in nessun altro luogo del circondario. Insomma, gli Etruschi dovettero dimostrarsi proprio dei buoni amici se la gente di qui decise qualche secolo dopo di entrare a far parte della confederazione di dodici città di cui Capua era a capo. Intanto le condizioni di vita migliorarono ancora e – che belli! – iniziarono a circolare anche da queste parti i vasi di bucchero, ma pure quel tempo finì, quando dalle vicine montagne a nord est arrivò un popolo di guerrieri in cerca terra fertile da coltivare e, vista la ricchezza di questa campania, tanto per non sbagliare, ben pensarono di liberarsi di tutti i capi etruschi tra qui e Capua e di prenderne definitivamente possesso. Anche perché quella che passava di qui era la principale via di collegamento con il Sannio, la regione da cui questi fieri combattenti provenivano, e controllarla significava anche potersi difendere dall’avanzata di certi altri signori che venivano da quella grande (ma proprio grande!) città a nord dove sembrava che fosse nato un certo interesse per il destino di questa regione e che nel frattempo non aveva tardato ad allungare le mani fino a Capua portandovi i suoi eserciti con una gran bella strada di recente costruzione. Insomma, insomma, questo collo di bottiglia tra le colline della campania felix e del Sannio pare fosse cosa assai preziosa, e i Sanniti un fastidio per Roma non trascurabile… così anche qui arrivò la guerra, anzi, le guerre, che furono terribili (che brutto filo da torcere, questi Sanniti, che dopo le Forche Caudine si erano pure montati la testa!), e dopo le guerre questo tratto di strada selciata divenne anch’esso Appia, e la Calatia ormai sannita – che non aveva voluto piegarsi all’invasione fino allo stremo delle sue forze – fu punita duramente diventando una cittadina romana senza nemmeno il diritto di voto. L’Appia proseguì il suo cammino nei secoli fino a Taranto e a Brindisi, mentre qui calarono i veli dell’oblìo: un breve passaggio di Giulio Cesare, poi nell’era cristiana gli attacchi dei Saraceni, e infine la definitiva distruzione dell’ottocentottanta (Anno Domini). Calatia fu abbandonata, e ad essa fu preferita dagli ultimi superstiti la vicina città ai piedi delle colline, che allora si chiamava Mataluni.
Sicché l’Appia se n’è andata avanti correndo verso la Puglia, mentre io sono ancora piantata qui nel centosettanquattro avanticristo, davanti ad un enorme muro che cade a pezzi, pericolosamente consumato alla base dai paraurti dei moderni mezzi di locomozione, e che forse uno di questi giorni deciderà una buona volta di venir giù. Anche Villa Galazia, più avanti, è rossa e cadente, le pareti pazientemente scolorite e scrostate dalla pioggia e dal vento, una grande masseria che si affaccia sull’Appia con accanto una piccola cappella come quelle che spesso erano disseminate sulle grandi vie di comunicazione nei secoli appena scorsi ad uso dei viaggiatori. Senza mai lasciare la strada, nemmeno un chilometro dopo inizia il centro abitato di Maddaloni: dove l’Appia è attraversata dalla ferrovia trovo il passaggio a livello chiuso, così ho il tempo di far salire lo sguardo fino alla Torre Artus, che già da qui lascia intravedere le ferite che da tempo hanno messo in pericolo la sua solidità. Passa il treno diretto a Napoli, ed io proseguo. Al semaforo dopo il passaggio a livello mi fermo, ormai vedo chiaramente che qui posso lasciare la strada. All’incrocio giro a sinistra, e smonto dalla bici nel piccolo piazzale antistante l’ospedale civile di Maddaloni. Di fronte all’ingresso dell’ospedale, nuda si erge la grande porta di Iano Pacifero ormai priva del suo tempio. In strada passa un ragazzino in bici, un paio di ambulanze e qualche auto… è ora di pranzo, e il traffico va scemando come di consueto per la pausa di metà giornata.
Vado, allora…
… ma dove vado?
E come sono arrivata fino a qui?
E’ strano, davanti a questa porta quasi non me lo ricordo più.
Con addosso un inspiegabile desiderio di nascondermi, mi avvicino a questa curiosa rovina dalla sommità coronata di piccoli ciuffi d’erba. In vita mia l’avrò vista e ci avrò girato intorno centinaia di volte, eppure non mi era mai sembrata tanto misteriosa e bizzarra. Sta qui, in piedi, praticamente da sempre e non si capisce bene come sia possibile, cosa ne tenga insieme i resti.
Di un tempio dedicato al dio delle aperture e degli inizi rimane in piedi soltanto la porta – guarda un po’ – tra l’altro chiusa come i romani usavano tenerla in tempo di pace.
Resiste. Si ostina a restare in piedi, la porta di Iano portatore e custode di pace. Solo ora mi rendo conto che verso l’interno del tempio era rivolta alla Strada; verso l’esterno, vegliava sulle colline.
Sì. Allora sì. Sì che è davvero ora di tornare a casa.
E perché mai?
Mah, non lo so. Ma questa è la porta. Tutta questa terra, è una porta. Da qui fino a Capua.
E se questa è la porta, be’, allora è di certo da qui, che si può cominciare a tornare…
–continua–
Angolo di Appia Antica (settima parte)
lunedì, 26 Settembre 2005(…)
poi vennero altri liti, mutò il vento,
crebbe il bucato ai fili, uomini ancora
uscirono all’aperto, nuovi nidi
turbarono le gronde –
fu così,
rispondi?
(E. Montale, Accelerato, da Le Occasioni, 1928-1939)
…eppur si cresce. E, dopo aver saputo come sia andata a finire, succede talvolta di camminare fino ad imbattersi nei luoghi dove una storia si sia conclusa. Pedalando, ci finisco anzi proprio sotto. Perché non resisto: la ciminiera del float glass si staglia ancora oggi fiera e silenziosa tra le rovine dei capannoni abbandonati e arrugginiti del vecchio stabilimento, e il muro che allora segnava i confini del Regno del Vetro non esiste più, abbattuto per far posto al formicaio che verrà. Quel che resta di questa specie di antico tempio al cui interno oggi non ruggisce più la voce del Fuoco, però, conserva ancora qualcosa del suo bianco, potente mistero della mia infanzia e rimane così, immobile, immerso nel sole e nell’aria asciutta di questa giornata, gigantesca testimonianza di mattoni conficcata nel bel mezzo di una spianata di case sulla quale veglierà finché glielo concederà il vincolo di archeologia industriale che la protegge. La si vede da molti punti della città, e naturalmente dalle colline che la circondano… e adesso che sono ai suoi piedi, addirittura posso vedere i luoghi dai quali mi capita di indicarla dall’alto con il dito ad amici e conoscenti dicendo "vedi, io abito lì". Ma, nonostante in essa abiti effettivamente una grande parte dei miei ricordi di bambina, oggi la vedo così da vicino per la prima volta. Non mi ci avevano mai portata da piccola né io, pur passando oggi qui accanto assai spesso, non mi ci ero mai accostata più di tanto, chissà perché.
Nel punto in cui sorgeva il piccolo edificio in cui lavorava mio padre (ed io passavo i miei pomeriggi estivi con nelle orecchie la voce del fuoco dell’altoforno) adesso passa una strada nuova, con belle aiuole sparticorsia alberate nel mezzo e larghi marciapiedi alla cui sinistra gli ultimi appezzamenti di terreno coltivato non ancora strappati via ai proprietari che si rifiutano di vendere si aprono come antiestetiche buche a spezzare la continuità dei nuovi condomini sorti uno dietro l’altro nel giro di un anno e mezzo e ancora disabitati. Qui, sotto la torre, il terreno è invece ancora brullo, calpestato e compatto ma intatto, coperto della sua solita polvere rossa e giallastra, un largo spiazzo in cui rovinano al sole tettoie, grosse lastre di vetro ed enormi traverse di ferro, insomma i resti del capannone della Composizione. Per un attimo mi sfiora la voglia di salirne la scala laterale fino in cima, e mentre studio il modo di raggiungerne la base mi sembra di veder tremolare una specie di bagliore bianco nella coda dell’occhio sinistro. Non faccio allora nemmeno in tempo a voltarmi, che lo stormo di gabbiani che stava razzolando lì prima del mio arrivo si alza improvvisamente in volo, spaventato, lanciando acute grida verso il sole. Ma il chiasso non dura che qualche secondo, e una volta al sicuro nel vento è un incanto vederli iniziare a volteggiare così, come per gioco, intorno a quello che deve essere diventato il loro rifugio. Ecco allora i primi abitanti del quartiere nuovo, ecco chi custodisce la Casa della Grande Fiamma Bianca ora che essa e i suoi Guardani non ci sono più. Eccoli qui, allora, è qui che abitano, non nella discarica che sta cento metri più in là, come invece credevo. Quella, sospetto, sarà semmai il loro MacDonald’s. Andiamo bene.
Era forse per questo che d’istinto mi ero sempre contentata di guardarlo da lontano, questo punto di riferimento visivo, e affettivo… come un faro. Il Regno del Vetro si è fatto Landa dell’Eterno Fetore, e Deserto di Cemento. Nell’estate mediterranea che avanza, le innocenti ali dei nuovi Guardiani sostenute dal Maestrale si allargano con eguale benevolenza su strane rovine di tufo abbandonate ai margini delle discariche, sulla ruggine, sulla strada deserta sulla quale riprendo a pedalare dimenticando la scala della torre, sulle pietre vecchie di ventitré secoli dove termina la vecchia San Nicola e inizia la pianura di Maddaloni, ancora più antica, ancora più ricca di memoria e – qui va da sé – ancora più desolata. Sciatta, in una secca calura quasi insopportabile, si consuma la memoria di questa strada, che ad ogni pedalata riporta adesso indietro nel tempo, sempre più indietro, e ogni cento metri sono stagioni, anni, secoli…
-continua-
Angolo di Appia Antica (sesta parte)
martedì, 13 Settembre 2005C’era una volta il Regno del Vetro.
Nascosto sotto alti capannoni dal tetto trasparente, era un regno scintillante, popolato da alchimisti, governato da maghi con la erre moscia depositari di una segreta eredità linguistica tale da poter declamare la Chanson de Roland o dare della meretrice alla madre del proprio interlocutore con eguale seducente delicatezza. Ma i maghi venivano da un paese che stava al di là delle montagne, e facevano visita agli alchimisti di questa terra dove si parla con una lingua che ti prende continuamente a schiaffi solo di tanto in tanto: come ogni mago che si rispetti, proferivano parole e formule che modificavano la realtà (degli alchimisti), davano di quando in quando un’aggiustatina qui e una là all’ordine delle cose, dopo di che alzavano i tacchi e se andavano così com’erano venuti. In pompa magna.
Altrove nel mondo e in altri tempi, si sa, ‘mago’ e ‘alchimista’ sovente erano parole che si sfioravano, talvolta erano addirittura sinonimi l’una dell’altra. Ma questo era il Regno del Vetro, e qui le cose andavano diversamente… paese che vai, usanze che trovi, no? I maghi qui non erano gli alchimisti né viceversa, e i due ruoli, anzi, venivano sempre mantenuti nettamente distinti, bizzarramente ed ironicamente separati da una perfetta, purissima lastra di float glass.
Dopo ‘o campusanto, stava il Regno del Vetro. A un certo punto finivano cortili e masserie, e andando verso Maddaloni sulla sinistra faceva la sua comparsa il Villaggio Saint Gobain con le sue villette con giardino circondate da cancellate color verde bottiglia, e alle sue spalle la torre dell’altoforno degli anni ’40, gli enormi capannoni dei reparti della Composizione, e il lunghissimo, affusolato dito della ciminiera del float, fiore all’occhiello della produzione locale. Attraverso il vetro che gli alchimisti fondevano sotto quella torre in tanti, forse, hanno rimirato un paesaggio almeno una volta nella vita: da lì venivano infatti i finestrini dei treni che viaggiavano sulle rotaie di tutto lo stivale.
Quando mio padre mi raccontava, da bambina, cosa si faceva laggiù, in quel regno lontano che distava solo un paio di centinaia di metri da casa mia, stavo ad ascoltarlo con gli occhi spalancati, mi dice oggi che sono cresciuta, mitragliandolo poi con milioni di domande. Lui non capiva bene perché mi sembrasse tanto incredibile il funzionamento di un altoforno, eppure non mi negava mai quel racconto ogni volta che glielo chiedevo, ancora, ancora e ancora. Forse lo faceva perché, prima di tutto, lui era il primo a subirne il fascino.
Mio padre non era un alchimista, e neanche un mago. Faceva piuttosto parte di quella lunga catena di esseri umani che stava nella lastra che maghi e alchimisti separava, nel mezzo, come uno dei tanti elementi che compongono il vetro e ne determinano il colore, la trasparenza, la resistenza. Come contabile, in pratica del Regno del Vetro faceva e non faceva parte, stava in Amministrazione, e l’ufficio dove lavorava si trovava infatti all’ingresso, alle spalle della portineria dello stabilimento, simbolicamente sulla soglia del Regno stesso. Lavorava con i numeri che riguardavano sia i maghi che gli alchimisti, e sebbene questo possa far pensare ad una più marcata somiglianza con i primi, in realtà lui si sentiva più affine ai secondi, dei quali alla fine condivise anche il destino.
Il fatto è che al mio curioso genitore l’altoforno piaceva molto. Ci andava ogni volta che poteva, e con il tempo tra gli alchimisti aveva trovato degli amici… erano in tanti, con loro stava bene, e insieme si divertivano molto, da quel che ho potuto capire in seguito. Così, letteralmente a conti fatti, se durante la giornata aveva una mezz’ora libera la trascorreva là tra gli amici che facevano quelle enormi lastre trasparenti lunghe settanta metri e larghe tre, andava a veder fondere la pasta vitrea a millecento gradi, andava a veder fare il vetro tirato e quello galleggiante, e poi stava a studiare il taglio sui banchi a cuscino d’aria, la molatura, la tempratura, la stratificazione. Ma, soprattutto, gli piacevano i Guardiani del Fuoco, gli alchimisti che si prendevano cura dell’altoforno che doveva restare acceso tutto il giorno, tutti i giorni di tutti gli anni.
Non mi sorprende quindi che sia questo il ricordo che più vivido mi resta dei racconti di mio padre: la grande, enorme, bianca fiamma chiusa nel cuore della torre dell’altoforno che doveva restare sempre viva, sempre viva, sempre viva, e gli uomini che perennemente si affaccendavano intorno ad essa anche quando tutto il resto del mondo era fermo, tipo ad agosto o a Natale, a prendersi cura della loro concreta, potentissima divinità. Non che fosse del resto esattamente un dogma, no, una più che plausibile spiegazione che avrebbe retto a qualsiasi esame critico c’era, ma a me non importava… non quanto mi importava l’incredibile mestiere di quei signori che non si staccavano mai dalla loro fiamma, nemmeno per un minuto, perché il concetto di turnazione non mi era ancora molto comprensibile e quindi, se c’era un lavoro che andava svolto sempre, io pensavo che ci fossero persone che lavoravano sempre. Se la Grande Fiamma Bianca era sempre accesa, i suoi Guardiani erano sempre lì. E basta. Così me l’immaginavo, questa grande luce dalla voce terrificante che entrava dalle finestre dell’ufficio di mio padre nei giorni d’estate in cui, dopo la fine della scuola, mi portava con sé finché mia madre era ancora al lavoro, ed io troppo piccola per restare a casa. Così me l’immaginavo, perché nonostante le mie continue richieste mio padre fu sempre inflessibile nel suo rifiuto di portarmi a vederla, perché tu non ti rendi conto di quanto può essere pericolosa, è irrequieta, se si innervosisce fa delle scintille che ti bruciano la faccia, e le visite inopportune qualche volta la fanno innervosire. E allora restavo a disegnare nell’ufficio di papà accanto alla finestra con nelle orecchie il rombo del fuoco dell’altoforno che riempiva l’aria di luglio e cancellava le cicale, e al centro della mia fantasia prendeva forma questa luce bianca terribile, scontrosa, pericolosissima eppure degna di tante cure da parte di uomini che per lei erano disposti a non dormire mai. Le si consumavano intorno, forse, i Guardiani del Fuoco, fino a lasciarsi divorare? Dove finivano, una volta esaurito il loro compito, i Guardiani?
Non feci mai questa domanda a mio padre.
Da bambini il più delle volte non si vuol sapere dove finisce una storia, ma piuttosto come…
–continua–
Angolo di Appia Antica (quinta parte)
martedì, 30 Agosto 2005"C’è rummasa ‘a scumma d”a culàta mo’
na chiorma ‘e muscille che s’aggarba
pezzulle ‘e pane sereticcio quacche
"silòca" ‘nfacc’ê pporte arruzzuta
e ‘o viento nu viento ahi na mal’aria
‘a quanno se ne so’
fujute tutte quante secutanno ‘o ciuccio ‘nnante, ‘e notte
cu”a rrobba ‘a robba lloro (‘o ppoco pucurillo ca serve e tene)
e ‘a pòvere s’aiza ‘int’a stu votafaccia
pe’ ll’aria che se tegne d”o janco d”a petrèra"*.
(Achille Serrao, da Mal’aria, 1990)
Dopo le case e gli esseri umani del vico Marotta, di tufo diventa il mondo intero. E’ qui. La porta. Questo è forse il punto intorno al quale cominciò a gravitare una qualche attività umana, molto tempo fa. Qui, da qualche parte intorno al punto in cui mi trovo, è iniziata tanti secoli fa la vita di quello che doveva essere solo un minuscolo villaggio di contadini, che se non si fosse trovato nei pressi di questa strada forse alla fin fine si sarebbe disperso, e infine scomparso – mi dico con infantile stupore mentre vedo un gruppetto criaturi che gioca con la pièssedue nel bel mezzo del cortile interno di una masseria, dove qualche genitore premuroso ha sistemato loro su un tavolo un televisore da ventinove pollici per farli, credo, stare belli comodi insieme ai pennuti da cortile che razzolano tranquilli intorno ai loro piedi. La gente chiama questo tratto, che dalla piazza d’a Parrocchia porta a ‘o campusanto, ‘a via d’e Nunziatelle a causa di una chiesa dell’Annunziata che sorgeva qui vicino e che, a giudicare da certe cose che ho sentito raccontare dalla panettiera del vico dei Funai (che è molto in avanti con gli anni ma ricorda benissimo quello che le raccontavano sua nonna e la sua bisnonna), verso la fine del Settecento doveva essere già mezza distrutta. Mi fermo, e mi appoggio per un attimo al lungo muro di tufo che qui costeggia la strada, sorrido, penso che non ci vorrebbe poi molto a scavalcarlo, è alto meno di un paio di metri ma a nessun ragazzino di queste parti verrebbe mai in mente di fare una pazzia del genere: alle sue spalle c’è un salto di quasi dieci metri, a strapiombo su una vallata di campagna in miniatura. Mi trovo infatti ai margini di una delle cave di tufo di San Nicola, la più antica insieme a quella d’a Santa Cumaia. Tra qui e Caserta ce ne sono, che io sappia, ancora almeno quattro, tutte incuneate in mezzo alle case e ai palazzi, come enormi buche; da qualche parte lungo il loro perimetro c’è sempre un vecchio cancello o un grande portone dal quale inizia, o iniziava, una strada sterrata in discesa che porta al fondo della cava. Qualcuno, una volta, mi disse che quel che in quel che manca da queste fosse vive quasi tutta la città, e che fu grazie alla roba gialla che da esse veniva estratta che il paesiello di contadini ‘e ‘na vòta si trasformò in un attivissimo centro di ‘nfelatrici ‘e tabacco e spaccatori e tagliatori di pietre. Tagliatori, sì, senza la dignità del prefisso che designa una più raffinata arte: qui le pietre dolci si tagliavano, venivano selezionate a seconda della misura con la sola arte del piccone, della sega e del fierro felato. A meno di cinquanta metri in linea d’aria da qui c’è casa mia, a cinquanta metri da qui si salta agli anni Settanta, periodo in cui fu tirata in piedi la prima, piccola area residenziale della zona, con quei suoi modesti condomini a quattro piani dalle pareti giallo spento striato qua e là di marrone – a giudicare dal loro attuale aspetto mai ritinteggiate, nemmeno una sola volta da quando fecero la loro comparsa su questa terra accanto alle antiche masserie. Ma è veramente bizzarro, a ben guardare, il modo in cui i più vecchi condomini di Via dei Mille somigliano alle case che stanno al di qua dell’Appia, giallognoli e squadrati come sono, nemmeno siano stati progettati nel sincero tentativo di ridurre l’impatto estetico delle nuove costruzioni. Chissà…
Il muro è lungo, e caldo di un sole impietoso, quasi allo zenit. Cerco un po’ d’ombra sotto le edere che straripano dall’interno della cava, accanto al portone che non viene aperto forse da un secolo e che lentamente rovina, marcisce, si disfa a dispetto del bianco marciapiede nuovo di zecca che da qualche mese costeggia il muro a nord del giacimento per merito del mai abbastanza lodato progetto Urban2, mentre esattamente di fronte a me, dall’altro lato della strada, decine di rondini volteggiano sullo spazio vuoto lasciato dal crollo della masseria del Vico Tiscione, abbandonata da decenni e collassata su se stessa alla fine dello scorso anno. E mi sembra, in effetti, di avere anch’io un cuore di tufo, un cuore di quelli in cui il tempo non scorre insieme al sangue ma che al contrario si deposita, come i sedimenti di cui è fatto il giallo della mia terra. Questa porta chiusa e il suo legno che si guasta nel pieno centro della città, devo ammetterlo, fanno un po’ male. Spero che non ci sia un buco come questo anche nella pietra porosa che ora sento pesare al centro della cassa toracica, penso quando riprendo a pedalare per proseguire ‘ncopp’ ‘e Taglie (sulle Taglie), la zona immediatamente successiva a ‘e Nunziatelle e ‘o Campusanto, dove si trovavano i cantieri dei tagliamonti, cioè coloro che facevano a pezzi i monti (le cave, in gergo popolare) "ad uso delle reali delizie". Spero, spero… spero guardando la strada scorrere sotto la ruota anteriore della bici, quando un lampo bianco mi ferisce la coda dell’occhio. Freno, alzo lo sguardo.
Nella monotona continuità delle case del centro storico non l’avevo mai notato. Più che altro, non mi ero accorta dell’arcata priva di portone. E della sgarrupatura sulla parete in alto, sulla destra. Oddio. Da quanto tempo è stato abbandonato, questo cortile? Perché le pareti interne ed esterne sono dipinte di bianco fino a metà della loro altezza? Ci sono i resti di un forno, di una latrina, gli infissi di legno mangiati dalla pioggia e dal sole incrostati della tipica vernice verde che si usava per tutte le imposte del mondo fino a una quarantina d’anni fa, e ha l’aria di non avere l’intenzione di reggersi in piedi ancora per molto. Probabilmente presto le rondini avranno un altro mucchio di macerie dove accomodarsi in pace per le estati che verranno.
Eppure, mi chiedo cosa sia accaduto qui e perché, a differenza delle altre case abbandonate di questa zona, questa sia stata lasciata così, con tutte le porte e le finestre aperte. Sembra che qui, semplicemente, chiunque o qualunque cosa vi abitasse se ne sia… andato. Via. Così. Allé. Gone. Via. Ciao.
Ma magari, in realtà, non è successo proprio niente. Chi c’era se n’è andato, e il rigattiere del Tempo è passato in seguito a ritirare le imposte. A ben pensarci, non c’è ragione per cui questa casa debba aver vissuto una storia diversa dalle altre. E forse non è nemmeno questa casa, il punto.
Il punto, semmai, sta nei verbi che un tempo la abitavano: stare; lavorare; vivere. L’abitare, stesso, pure. Quelli, sì, forse col tempo si sono fatti superflui.
Una fantasia un po’ crudele mi fa tentare di immaginare i visi di quelli che una volta abitavano qui, di quelli che dicevano "stong’ ‘e casa aropp’ ‘o Campusant’, ‘ncopp’ ‘e Taglie". Ma non ci riesco. Credo che l’immaginazione mi si sia irrigidita all’altezza del vicolo Marotta: vedo… sì, che li vedo, i loro volti. Ma sono – ancora! – di tufo. E parlano… sì, parlano di qualcosa… che però non capisco.
Saranno le avvisaglie di un’insolazione?
Mah. Meno male che il centro storico finisce qui.
Quando riparto, mi lascio alle spalle gli ultimi cortili di questo tratto d’Appia, con l’ultimo mastino da guardia da un lato e l’ultimo tacchino – più pericoloso del mastino, quando c’ha la luna di traverso – intento ad ispezionare la propria aia dall’altro. Si diradano le case, appaiono i campi di mais e di tabacco. E le fabbriche. Le fabbriche. Le fabbriche.
– continua –
* C’è rimasta la schiuma del bucato ora/ una marmaglia di gatti che assapora / pezzi di pane muffo qualche / "affittasi" sulle porte arrugginito / e il vento un vento ahi una mal’aria / da quando se ne sono/ fuggiti tutti seguendo l’asino avanti, di notte / con la roba di casa (il poco poco che serve e si mantiene) / e la polvere si solleva in questo voltafaccia / nell’aria che si colora del bianco della pietraia.
Angolo di Appia Antica (quarta parte)
martedì, 2 Agosto 2005"Always in my thoughts you are.
Always in my dreams you are.
I got your voice on tape, I got your spirit in a photograph…
… always out of reach you are".
(S. Wilson, The Start Of Something Beutiful, 2005)
Lasciata casa di V. posso anche risalire in sella: sono arrivata a ‘u Trivece, il trivio, la confluenza delle tre strade più antiche di San Nicola – ovvero ‘a via ra ‘Roce (la via della Croce), ‘a Via d’a Pagliara e ‘a via ‘a Maronna. Ormai non sono più in senso vietato, e davanti al municipio posso continuare pedalando verso il cuore giallo del centro, in direzione della sua parte più polverosa e della zona in cui abito. Passo ‘u Trivece, il Municipio, saluto il vigile che piantona la piazza ad esso antistante probabilmente da una ventina d’anni a questa parte, passo il monumento ai Caduti – un orribile parallelepipedo di marmo bianco con uno stellone blu di plexiglass piantato sulla sua sommità, sia stramaledetto ora e sempre l’essere umano che ne concepì a suo tempo la forma – e l’esercito di vecchi che ne piantona i dintorni probabilmente fin dagli albori del mondo, e al bivio che mi ritrovo davanti alle ruote della bici proseguo per la strada che scivola via a destra verso la scuola elementare e la chiesa (‘a Parrocchia). Mi infilo in un paio di vicoli sulla sinistra, qui ci sono piccole corti interne dimenticate cui la luce abbagliante del sole di luglio dona larghe macchie d’ombra dove viaggiano la polvere, il polline e il pungente odore dei mazzi di origano lasciati a seccare sui balconi, colori e profumi che si mescolano sotto gli archi di ingresso oltre i quali le finestre si affacciano sui cortili come in un girotondo. Da alcune di queste finestre sporgono dei visi rugosi, dai capelli bianchi e dalla voce cavernosa che un tempo fu forse di donna, ma che oggi vibra scompostamente su note basse fino a confondersi con quella degli uomini. Si parlano ad alta voce da una finestra all’altra, queste voci che si sono perse tra le pieghe di una vecchiaia passata a infilare il tabacco o a tirare un carretto carico di scaròla in giro per quello che fino a vent’anni fa era solo un paese, si parlano biascicando parole antiche e mi guardano, mi fissano con sospetto anche dopo che le ho salutate, finché resto sotto le finestre che sono i loro occhi aperti sul (loro) mondo. In fondo, anche se questa è una strada comunale, sono praticamente entrata in casa d’altri. Per questo non ho cuore di tirar fuori la macchina fotografica, non ho cuore nemmeno di fare il tentativo di spiegare, e di chiedere se posso… no. La polvere e il tufo qui fanno tutto vecchio, e opaco. Cose e persone. Temo che se la sfilassi dal marsupio mi ritroverei in mano un mucchietto di transistor sgretolati dentro una scatoletta arrugginita. Cinquanta metri più in là c’è la città, la case nuove, le auto, internèt e i cellulari. Ma la macchina fotografica digitale qui, dietro questi muri, non è stata ancora inventata.
Saluto la corte del vico Marotta, e proseguo.
Com’è vecchia, casa mia.
Quanto giallo e quanta luce, ci sono a casa mia.
E quanto tufo, c’è a casa mia.
Sopra e sotto.
Fuori… e anche dentro.
Dentro.
– continua –