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Waving

venerdì, 11 Ottobre 2013

Sei una falce, tagliente, crescente ma cresciuta di un niente. Falci a falcate larghe, spesse, sconnesse, dentro un’ubriachezza di stomaco che ti fa continuamente desiderare d’essere altrove, possibilmente momentaneamente assente, si prega di richiamare più tardi – anche se poi sei a casa. E’ una solitudine di cristallo, quella della Luna, sì, che si snoda nel tempo sopra la coltre di nuvole inquiete dell’autunno. Sole, ma ‘ndo’ cavolo sei? – ti chiedi nel sogno del mattino in cui sei lì, per strada, che aiuti a partorire una donna con la pancia viola melanzana che grida disperata al suo piccolo, ormai fuori e col cordone ombelicale lungo un chilometro, “la vuoi smettere di fare le fusa, perdio?”.

Sole, ma ‘ndo’ cavolo sei? Qui non ci si capisce niente e splendere da sole è una fatica immensa, in certi momenti, specialmente di giorno. Proprio adesso doveva venirti in mente di andare a dar luce da un’altra parte?

*

Turn up the noise
and see if you can maintain your poise.
Edge out the door
And feel it as you swim back to the shore.

(continua)

Voce del verbo: indìce (sogg. sott. terza pers. sing.).

lunedì, 15 Luglio 2013

Hoard
Collect
File
Index.

 

Catalogue
Preserve
Amass
Index
.

*

Ci sono le nuvole tonde e grigie, e lunghe festuche di luce che le pungono sulla pancia infilandosi sotto il cielo da ovest. C’è il ramo di un roseto sfuggito alla potatura che si protende oltre il giardino in cui è nato, fuori, sulla strada, ondeggiando sulle teste dei passanti e tirando il capo verso l’alto con tutte le sue forze, in cerca della luce che gli serve per quegli ultimi boccioli prima che li trovino il primo gelo o le mani degli uomini.

Ci sono poi le filastrocche

e nello
stesso punto
si trovano

una partenza imminente,
una fame da placare,
piccole mani da stringere,
dolori lontani
che vanno
che tornano
a ritmo di marea.

E poi
contrazioni del senso da sorvegliare,
desideri da ancorare alla bitta,
zucchine, carote e patate da bollire,
nuove consistenze da imparare,
equilibri da trovare,
caffè da bere,

abbracci

da

rincorrere:

madovecazzoandate?

Dopo vengono,
improvvise,
le cadute da accogliere con gioia,
gl’incarti di plastica che diventano fantasmagorie di suoni e colori;
dopo ancora, vertebre che si schiacciano
da distendere con riposo e pazienza,
obiettivi da pulire
obiettività da abbandonare,
procedendo di tre in tre,
perché un-tza-tza è la danza
del linguaggio che frantuma
la pazienza e le distanze
.

C’è poi da nascondersi,
da occultare
e giocare a nascondino;
e tenebre diurne,
orrendi chiarori notturni,
pensieri pesanti
e versi avvelenati
[(…) Non ho vissuto la vita di nessuno,
nemmeno la mia:
chi non ha anima
non ha vita. (…)]
da masticare e inghiottire
uno a uno
che poi si annodano
a una voce che si avvita al suo vuoto
coagulandosi
giù
giù
nell’intestino
in sogni densi
di mani che macellano bambini
dietro un bancone scintillante
sgozzandoli dolcemente
finché non li prende un sonno
impossibile da guardare
e che alla fine incartano
per venderlo a un tanto al chilo.

[I’m a collector and I’ve always been misunderstood.]

Fermata non richiesta (10/?) – Sono stato solido.

venerdì, 26 Ottobre 2012

E’ il 6 settembre 2008, e il signor Edoardo ha settantasette anni, la mano destra deformata da sessant’anni sulle macchine e con una voce roca che sa di segatura fine racconta di come gli fanno strano i ragazzi di oggi che a sedici anni “che devono fa’? so’ ragazzi…” li giustificano i genitori, ma lui dice: “eh, uagliuni. Io a sedici anni mi sono aperto la falegnameria per conto mio, dopo la quinta elementare mi sono messo a imparare un mestiere, era il dopoguerra, e noi nel dopoguerra eravamo poveri. Noi non c’avevamo terre, perché in famiglia mia tutti falegnami, artigiani e commercianti, e mio padre nel Quaranta teneva sessantamila lire, che ci potevi comprare tipo otto appartamenti. Dopo la guerra, invece, valevano cento quintali di farina, così papà li liquidò, come si dice, perché non tenevamo niente da mangiare. Ho imparato il mestiere da mio padre e da mio nonno, e a vent’anni mi sono comprata quella macchina laggiù, che costava trecentocinquantamila lire. Io non avevo un soldo, mi ci volle una colletta di quattro famiglie di parenti per mettere insieme la cifra. Poi negli anni ho restituito tutto. Per fortuna è andata bene”.
Eccome, se è andata bene. Ci mostra i pezzi di cui va più orgoglioso, tre stipi a due ante, e sul fronte delle ante pare un sogno: paesi del Molise ritratti in minuti mosaici di legno. Ci incantiamo davanti al più bello di tutti, uno spettacolo di tremilaseicento pezzi di tutte le sfumature del legno esistenti, un paese incastrato su una montagna investito dalla luce del tramonto, sovrastato da un cielo rosso sangue. Ci dice “questo l’abbiamo fatto io e mio figlio, tre mesi di lavoro. Volevo anche farci delle belle nuvole su quel cielo, ma dopo tanti mesi a lavorarci dalla mattina alla sera mi so’ sfasteriato. Ah, ma tanto finché sta qua… prima o poi lo faccio, e ci metto due nuvole qua e qua, che passano in questa direzione e sono colorate dal tramonto”.
Anche ora, che è estate e si lavora poco, un paio d’ore in falegnameria se le fa tutti i giorni, dice, “sennò passo una cattiva giornata. E’ che ho guadagnato bene e la vita alla fine mi è girata bene, ma io sono rimasto sempre lo stesso!”.
Indica gli abiti da lavoro, una camicia porpora rattoppata e chiazzata di segatura e un paio di jeans che usurati è dire poco. “Per avermi visto col vestito, una volta su in chiesa qua a Castelpetroso, il parroco mi è venuto dietro per strada urlando Edua’, finalmente te vedo vestuto!… vedete, signuri’, come se vestirsi fosse solo quello che te metti ‘o juorno d’a festa cummannàta. Ma io non li capisco, a questi”. Siamo ancora davanti agli stipi, e quando riconosco i paesi sulle ante si illumina tutto e parte a raccontare di come lavorare non sia più gratificante come prima, specialmente in Molise: “non è per dire, ma la gente è ignorante e per ignoranza offende. L’altro giorno è venuto uno che ha detto mh, bellino questo, ma non ci vuole niente a pittarne uno uguale. Pittare. Non s’era manco accorto che era di legno, il disegno”. E continua guardando la sua officina: “l’artigianato è finito, lo vedete, i mobili che durano una vita nessuno li vuole più, è un guaio enorme. Nel periodo che m’è andata proprio bene-bene avevo una ventina di dipendenti, però non era gente che gli piaceva il lavoro, era gente che voleva solo i soldi, allora io ci mettevo mesi e anni per insegnare ma il lavoro non usciva mai come dicevo, mai un lavoro come dio comanda. Ho cominciato a mandare via quelli che non mi piaceva come faticavano, gli altri se ne sono andati da soli quando s’è capito che dovevano lavorare come dicevo io. Finché non siamo rimasti solo io e mio figlio. Guardate che la gente non tiene più rispetto per niente, tanto meno per il mestiere. Ma dico io… se non ti piace, ma che cazz’ ‘o viene a ffa’? Perdonate, eh”.
Ci mostra, infine, il pezzo a cui sta lavorando ora, un quadro con Gesù risorto che offre se stesso bambino, e racconta di quanto ci abbia litigato, con quel Gesù, per un occhio che gli aveva dovuto rifare sei volte prima che venisse come lo voleva lui. Prima che ce ne andiamo fa il diavolo a quattro per offrirci il caffè al bar, e racconta ancora: “ho sempre fatto una vita indipendente, ho lavorato con gente di tutt’Italia, ma la mancanza di rispetto che c’hanno qua negli ultimi anni non l’ho mai trovata da nessuna parte. Mi fanno restaurare mobili di metà Ottocento e poi vogliono pagare quattrocento euro tre mesi di lavoro. Io ho sempre fatto una vita indipendente, capite, lo so come lavorano dalle altre parti, ho girato l’Italia sopra e sotto, e quello che a volte fanno qua da altre parti la piglierebbero come un’offesa. Ma che valore tiene il tempo di una persona, dico io, nessuno? A me tre mesi della mia vita non me li ridà indietro nessuno, manco il lavoro pagato il giusto, figuriamoci le maniere di certa gente. Io lo facevo per la famiglia mia, ma ormai è finita qua. Adesso faccio quello che mi pare, il lavoro che dico io solamente”, e dal bar indica verso l’officina che è lì a pochi metri, e dalla quale si scorge la cornice di un portone che sta appoggiata di fianco su un tavolo che non ne ho mai visto uno così grande. “Guardatelo mo’, e se venite alla vernata poi vi faccio vedere che ne facciamo uscire”, mi risponde quando gli dico che mi piacerebbe vederli lavorare, lui e suo figlio.
“L’importante è conservare la testa”, ci fa alla fine. “Io ho avuto abbastanza, e sto bene accuscì”.

– E vabbe’, tenete quest’arte nelle mani, e che vi serve più? Sapete fare delle cose meravigliose!
–  Signuri’, non dite così. La gente tiene in testa un sacco di cose stupide: i titoli, le lauree, e poi ci passano in testa a noi che non abbiamo studiato. A me questo mi pare assurdo, perché se poi andiamo a vedere un laureato tante cose non le sa fare. Ma io non dico che uno è meglio e uno è peggio, è solo che loro sanno fare delle cose e l’artigiano ne sa fare altre. Io so fare quello che so fare, e quello che so fare lo so fare bene. Tutto qua.
– Guardate che io quello che vedo qua l’ho solo nella chiesa di Sant’Anna dei Lombardi a Napoli, non so se avete presente…
– E non lo so, io all’inizio ero falegname di mobili, porte e portoni, poi a un certo punto mi sono messo a guardare certi mosaici di legno del ‘500 e del ‘600 che stavano sull’enciclopedia dell’arte di mio figlio, che studiava architettura ma poi ha smesso. Mi parevano disegni e non ci potevo pensare che erano fatti di legno… però se erano fatti di legno forse potevo provare anche io, pensavo. Ho provato a ricopiarne qualcuno, e così ho cominciato.
– Ecco, aiutatemi a dire. Avete fatto e fate cose meravigliose.
– Vabbe’, voi non mi capite. Volevo dire che, se gli piace, lo può fare chiunque.
– Se lo dite voi, don Edua’…

Alziamo le mani in segno di resa, e lui si fa una bella risata.

– Comunque tornate a trovarmi, mi fate tanto piacere.
– Prossima volta che passiamo siamo qua.
– Allora salutatemi Pordenone. E’ una bella zona, ci sono stato quattro o cinque volte per dei lavori…
– Davvero? E che lavori avete fatto?
– Ma niente, cose andate esposte in qualche palazzo che non mi ricordo come si chiama.
– …
– Eh, fate quella faccia ma guardate che non scherzo mica, quando dico che ho girato.
– No, è che… vabbe’, lasciate sta’.
– Comunque non vi dimenticate, mo’ che trasite a Pordenone, di dire “saluti da Eduardo il falegname di Castelpetroso!”.
– Sarà fatto.
– Stateve bbuono!
– Pure voi.
– Ce putite juca’ tutto chello che tenite.

(continua)

Voce del verbo: wibbly wobbly timey wimey

mercoledì, 17 Ottobre 2012

Anni di lavoro per portare a casa una frase.

[Uitanubi]

*

Anni, è vero. Anni per cento pagine che potevano stare in tre righe. Anni per imparare a fendere l’aria dell’alba, a contare le gemme dei rami spogli da febbraio a marzo, e a conservare nodi, quelli che fanno venire il cancro insieme a quelli che scoppiano del cervello come ictus. Mi guardi dalle profondità del sangue che ti ha intaccato il linguaggio, e mentre mi guardi io so che stai morendo, sotto gli schiaffi di una bora che non hai mai conosciuto ma ugualmente fredda, ugualmente impietosa, so che stai morendo e non so che appena aprirò gli occhi non ricorderò più neanche di averti sognato. E poi alla fine l’estate se n’è andata ed è arrivata la pioggia, che ha lavato e lasciato le macchinazioni senza ingranaggio, nutrito la terra riarsa dove per errore era finito il diserbante del vicino distratto, sciolto le merde che i gatti avevano seminato sotto il muschio, resuscitato i fiori falciati da un paio di manine curiose.
Nell’aria, nel frattempo, stagna un costante senso di qualcosa di mancato, di mancante, di mancanza. E’ così facile dannarsi l’anima per una pioggia, così facile che è quasi un piacere: di bene in peggio, a volte è meglio. Le tende restano una cortina fastidiosa e guardare fuori e stringere tra le dita la penna – qualsiasi cosa questo voglia dire – i desideri più grande. Ancora, il pensiero di darsi una piccola disciplina  per non lasciar andare alla deriva né l’uno né l’altro. Aggrapparsi al gancio di una virgola, in vista di un autunno probabilmente più silenzioso del solito, e affondare le mani dentro uno spazio, un angolo più che altro, e in esso esprimere un concetto, forse anche un’idea, e provare una nuova strada. Come da bambini, che al posto dello schermo c’era il muro: computer, adesso torna a margine, e forse per non farmi venire il torcicollo dovrò per forza guardarti di meno. Ricominciare, un poco per volta, con una parola e uno scatto al giorno, una boccata d’aria e una canzone ogni sei ore, almeno, anche se il cielo è coperto di grigio a betoniere, e più in là già si vedono i primi cianotici bidoni d’acqua e vento che arrivano senza far rumore.

Anni. Ricominciare senza paura a metterci anni per portare a casa una stazione abbandonata,  per riuscire a disegnare quella sottile corda di pozzo sulla mappa e, nel gomitolo non lineare e non soggettivo di quello che sempre più chiaramente sembra essere questo tempo, tenere traccia di ogni ramificazione, della trama della tela, dei punti scuciti nell’ordito dei giorni e magari a volte scucirne qualcuno di proposito, perché tutto sia mai troppo uguale, nemmeno la calligrafia: si allunga lo svolazzo sopra le t, ed improvvisamente è quella di prima.

Allora niente è ancora successo, e allora è ieri e ancora adesso.

Se vado indietro di qualche anno, trovo questo:

Allora ci sono questi giorni che il primo freddo fa chiudere le finestre, e allora gli odori di DENTRO si aggrappano ai muri, e ci restano, e svegliano voci. E allora inizio ad immaginare viaggi, e appuntamenti con le voci che fanno eco. Allora succede così, ogni tanto, che mi metto in cammino verso un posto, quello di cui parla questa o quella eus e, intanto, qualcosa di bambino che sta dentro si racconta l’incontro che sarà, il momento in cui i cammini si incrociano, e gli odori, gli sguardi del trovarsi sul ciglio di un binario impresenziato, dentro un altro tempo, dentro un altro dove. Insieme, nel mentre che vado, qualcosa qualcosa sogna e qualcosa sa che il sogno non passerà al di qua del velo, e purtuttavia non gli resiste e lo lascia andare fino a destinazione. E poi c’è la meraviglia della corda nel pozzo-paese, di quello che non è che è, e di quello che è pur non essendo. Parlo ad alta voce e ad altra voce, in questi momenti, masticando le parole come in preda ad una febbre. E’ autunno, i primi freddi sono il momento in cui succede, che non voglio più nessuno intorno e allora mi metto al volante e sparisco per un poco. Il caldo dell’estate mi dissecca e mi tramortisce il cuore, che per un po’ si ferma; solo dopo si riprende, si rimette in moto e ricomincia a spezzare parole e sogni, e a farmi parlare da sola. E’ così.
Domani? Mira-Buse, quasi quasi.

 

Elogio del tempo medio – che non è vero che non c’è più.

martedì, 18 Settembre 2012

 

 

La mezza stagione non è una sequenza di temperature, né di eventi atmosferici, né di medie stagionali. La mezza stagione è una luce, e niente più. E’ il peso di quel tempo arancione che trascina il sole più in basso, e sotto il quale le cose mutano prendendo sagome più oblique e mostrando il fianco, le pieghe, le punte e le rotondità prima appiattite dal bianco accecante dell’estate. Anche l’aria, nei polmoni, si fa più spessa, con gli odori che virano verso il sentore appena alcolico e caldo di una maturazione avvenuta, passata, che risveglia dietro la nuca una silente voglia di scorta, di credenza piena, di parole vecchie ma ancora intatte come una tovaglia della nonna. La prima torta di mele della stagione a venire, il profumo delle noci nell’impasto e il primo freddo al mattino, i caffè che si allungano, una bimba che ancora non parla ma canta, e ride passeggiando nelle foglie secche lungo il ciglio dei marciapiedi per la prima volta nella sua esistenza. La mezza stagione, sì: frusc-frusc, come dice lei. E un sole riflesso che, in qualche modo misterioso che sa lui, dice di più di quello fuori dalla finestra.

Dopo tutto

martedì, 24 Luglio 2012

Forse è meglio che quella lettera non sia mai arrivata.
Forse è meglio essere andati ad annoiarsi al mare.
Forse è meglio essersi sentiti dire che è ora di re-imparare il silenzio.
Forse è meglio mettersi ad aspettare la pioggia e annotare, nel frattempo, il piccolo, l’infimo e il particolare.
Forse è meglio fare l’elenco di tutte le cose che desidero dirle, quando sarà più grande.
Forse è meglio rimettere in moto la memoria, e ricominciare a studiare.
Forse è meglio continuare a non convincersi di un bel niente, e a lasciare sul muro il segnale “SCAVI APERTI”.
Forse è meglio restare qui, in sereno dispatrio, e tenere duro di testa e di parole, e insistere, insistere, insistere ad abitare l’acqua edificabile delle parole-mondo.
Forse è meglio non andarsene e difendere il diritto di rintanarsi, di non farsi trovare, di essere lasciati in pace.
Forse è meglio provare ancora il desiderio di scrivere, qualunque cosa questo possa significare.

Forse è meglio prendere la Settimana Enigmistica e rimettersi ad unire i puntini.

Ché tanto, morto un tutto, se ne fa un altro.

Voce del verbo: chiedi il visto – no, il naso – al direttore.

mercoledì, 6 Giugno 2012

Allora la vita mi ha messo in questo posto dove la luce è bella, e le giornate calde, così gialle, così abitate. Così, allora ora. Si sta bene qui. Si sta. E’ bene. E bene.

*

In ombra e luce, sorridente in quel modo pieno e da fanciullo che ti appartiene. Dov’era non lo ricordo, ricordo solo che era un sogno di quattro anni fa, che era casa tua, un casolare bianco, modesto, nel mezzo di una piana di campagna, giusto sul ciglio di una strada dove non passavano molti esseri umani. Mi ci avevi portato tu, o almeno mi avevi invitato con un gesto gentile della mano, un largo arco del palmo nell’aria. Ecco, entra. Un’offerta ospitale, a cuore aperto. E poi non so, c’erano parole, lunghe e meditate alcune, altre vivaci e goliardiche, ma tutte piene di quel garbo che hai nella voce, in fondo alla gola, che ti fa ragazzetto quando parli, anche quando partorisci le cose più sconce e imbarazzanti. C’era questo che sentivo, una certa soggezione di te che scrutavi, facendo domande e invitandomi a porle. E poi ricordo musica, e un “perché io?”. Perché tu sei musica, ricordo di aver detto. “Come lo sai?”, hai allora voluto sapere. C’è differenza fra chi la fa e chi la è.
Il sole tramontava, dalle finestre filtrava lo stesso giallo di casa mia, ti ricordo dire “sono molto diverso da me stesso”. E “allora?”. E niente, allora voi che siete musica vi distinguete tutti per un gesto. Lo fate tutti, ad un certo momento, e così vi rivelate. Non potete farne a meno, chi è e non solo fa musica non può evitarlo. Sorridevi come intenerito, dall’alto, dall’altro, e insieme mi inchiodavi alla poltroncina fiorata dove mi avevi fatta sedere con uno sguardo affilato che mi fendeva in due. Hai inclinato poi un po’ il capo in un impercettibile movimento di domanda, inarcando il sopracciglio come interrogativo, a uncino.
E’ quel momento in cui i muscoli del collo si allentano e vi abbandonano, e insieme ad essi mollate gli ormeggi e non siete più voi, niente se non veicolo di ciò che siete, che vi attraversa. Quello è il gesto, a occhi aperti voi non siete più, trasfigurati, e nei vostri occhi c’è qualcosa che non è ombra né luce ma entrambe, e interamente vi possiede. Ecco, è questo. Anche tu sei così.
“Sei sfrontata”. Anche tu, ti ho risposto. “Sì, ma io lo sono per mestiere”. Non dire così, per favore, mi incrini. “La carne, si incrina?”. Sì, si incrina come si incrina il suono, penso. “Mi dispiace, non intendo incrinarti”. Cosa vuoi da me? Perché mi hai fatto entrare? “Per sentire com’è essere visti”. E’ che sei così alto, così distante. “Lo so. Non ho mai potuto farci niente… e sì che avrei voluto”.
Poi hai sorriso a lungo, molto a lungo, e sempre con quella tua strana serenità da bambino (perché nei sogni c’è sempre qualcuno che mi fissa per un pezzo senza dire nulla?). “Vieni qui”, hai detto. Ma non era una richiesta. Mi hai preso i piedi fra le mani, erano minuscoli, e li hai chiusi tra i tuoi palmi, enormi, per scaldarli. E sorridevi, sempre sorridevi. Poi ancora parole che non ricordo, era un qualche lungo discorso, tuo. Ed era sempre tramonto, il sole fermo nell’aria gialla. Ti sei passato una mano fra i capelli, a un certo punto, senza però rimettere in moto il tempo. Poi ti sei voltato e a un tratto eri come in quella foto, con il viso a metà inondato dalla luce che arrivava dalla finestra, gialla, e metà completamente in ombra, buio. Te ne sei accorto, e hai detto “è così che sono. Tagliato a metà da questo naso così importante. Luce, buio, e nel mezzo io”. Ti cercavo, sai. “Lo so. Ma non volevo incrinarti. Lo faccio quando devo, ma anche quando non devo”. Troppo tardi.
Mi hai preso le spalle cingendole con un braccio lungo almeno quattro decenni e migliaia di chilometri, e “prendi la stilografica”, hai detto, “continua con quella”. A far che, continuo? “A guardare”.

Spiegami una cosa, Federico. Spiegami come si resta innamorati di tutto, come si resta presi e compresi da ogni cosa, ché nulla sia mai troppo lontano, spiegami come si fa a guardare in volto chi ti sta di fronte con quegli occhi affilati e ‘sto sorriso da ragazzetto che hai tu. Spiegami com’è avere nella testa così tanta musica e parole, e riuscire sempre a riderne.
“E’ il naso”. Cioè? “Come posso dire… è ‘sto naso da Dante, o da pugile, a seconda di come lo guardi, che mi taglia a metà e mi tiene in piedi le due parti del viso. E’ su quello che per me si regge tutto. Senza questo naso io non esisterei, e forse nemmeno molte cose intorno a me”. Be’, se è come dici tu, in effetti non avrei mai potuto ascoltare l’Atenaide, per esempio. “Né fare questo sogno”. Non mi hai risposto, comunque. “Non ti ho risposto perché non è vero che si riesce sempre a riderne. Comunque”. Mh, e me l’aspettavo. “Chi credi che sia, io? Quello che disegna l’omino della merda o quello che batte il bastone a terra per dare il tempo all’orchestra?”. Mah, credo che quello che sei tu non si vede. O forse sta veramente nel naso, o in quel gesto della testa che fai quando svanisci in quello che senti. “Forse. O forse è in quello che dipingo”. Ah, quello. L’avevo dimenticato.
E poi mi hai spinto fuori, per strada. Abbiamo camminato a lungo, senza parlare (perché nei sogni c’è sempre qualcuno che mi accompagna per lunghe distanze, senza dire niente?). Mi indicavi i campi al tramonto. Era Toscana, forse Lucca. Le case, ecco, mi ricordo le case. Cosa vedi?, avrei voluto chiedere anche a te, quando fissavi i tuoi passi per chilometri e chilometri. Ancora avevo il tuo braccio intorno alle spalle, e ancora mi sentivo piccolissima.
“Finirà presto”, hai precisato sorridendo, senza mai smettere di sorridere. Spargevi amore per tutto, con quel tuo sorriso  divertito, pieno, bello. “Mi hai incrinato anche tu”. Io. Ma. E come? Io non. “Hai preso la stilografica. E mi hai visto“.

Voce del verbo: nel continuo mi (ri)(con)figuro. [sogg. sott.: I pers. sing.]

martedì, 22 Maggio 2012

Somewhere in there there is light
Somewhere in there there is someone who wants to shout.
Somewhere under all that garbage,
Somewhere under all that nonsense,
Somewhere under all that fear,
Somewhere under all that best form of defence,
There’s you.

*

Lascio aperto, se non altro per una questione di luce interiore. Non parlo con nessuno, non parlo di nessuno, ho solo sete di ridondanze e relazioni. Uso matite e non penne, cancello, riscrivo mille volte, cerco costole, colonne vertebrali e metameri, sequenze, immagini uguali che ripetendosi testimoniano di stati diversi nel tempo. Strutture dalle quali emergono storie, poiché le somiglianze sono comunque più antiche delle differenze: tratti di binari abbandonati, strade interrotte, case vuote, terreni lasciati incolti, così sono le parole e le voci di cui tento di seguire le tracce. Di tanto in tanto, nei segni e nei sogni tornano dalle sponde dei miei tempi più remoti volti che mi guardano muti, senza emettere suono ma che non hanno ancora il pallore del passaggio: lineamenti rigidi ma scolpiti nel legno piuttosto che nella roccia, espressioni che non dicono, ferme da mezza vita fa in stato vegetativo. Altre volte arriva una voce nuova a spingermi in un angolo, soltanto parlandomi, sapendo che non mi ritrarrò subito. Sono voci dal sorriso obliquo e un tocco caldo che invece tempo non conosce, io credo sempre che siano una minaccia e invece poi scopro, durante il giorno, che venivano a proteggermi da un male più grande, da un buio più profondo che si nascondeva giusto dietro le spalle dello sguardo che volevo fuggire, appena dentro la tensione del ventre che così disperatamente desideravo liberare, appena sotto il pelo dell’acqua dove mi affannavo per riemergere. Come quella volta che per parlarmi ti sei dovuto chinare su di me, dalla tua infinita altezza fino alla mia minuscola figura in un gesto che è stato un viaggio lungo un cielo intero, una discesa lenta e attesa, che aveva il suo giusto peso.
Occuparsi, trascurare, accorgersi e negligere, attendere e disattendere, sono incessanti le oscillazioni tra quel che facciamo e quel che potremmo, tra quel che sentiamo e quello che ci sfugge, tra quel che scegliamo di dire e di tacere. E’ tutto così chiaro, nelle profondità delle immagini, che tutto quel che resta sono solo giri e rigiri di frittata, altre facce di una stessa cosa che non potrà fare a meno di ripresentarsi – solo, nel tempo, un po’ più cotta, un po’ più indigesta, fino a che non si sia completamente bruciata, ormai del tutto immangiabile.
Allora ti prego, gigante, torna di nuovo a parlarmi dalle tue altezze immense, e scendendo smuovi ancora le nuvole e l’aria intorno: lo spavento si porterà via le spighe e i papaveri, va bene, ma almeno per qualche tempo si potrà respirare di nuovo.

*

Tornato a casa nel pomeriggio, mi distesi stanco morto sopra un duro giaciglio, aspettando il sonno lungamente agognato. Esso non venne; caddi invece in una specie di dormiveglia, nel quale ebbi improvvisamente la sensazione di sprofondare in una forte corrente d’acqua. II suo romorío mi determinò ben presto come un suono musicale, e precisamente l’accordo di mi bemolle maggiore, dissolto in arpeggi continuamente ondeggianti; questi arpeggi si configurarono in forme melodiche sempre piú mosse, ma senza mai uscire dalla triade pura di mi bemolle maggiore, che con la sua continuità pareva prestare una significazione infinita all’elemento in cui io sprofondavo.

Gravità (chiéna ‘e vacanterìa).

sabato, 19 Maggio 2012

Love it or leave it, she with the deadly bite,
quick is the blue tongue, forked as a lightning strike.
Shining with brightness, always on surveillance
the eyes they never close, emblem of vigilance.
Oh, no, no, no.

Said don’t tread on me.

*

Perché la parola scritta pesa così tanto? Le stesse, identiche parole quanto diversamente lasciano il segno a seconda che si scelga di dirle o scriverle?

– Be’, è il motivo per cui anch’io a un certo punto ho smesso di leggere quello che scrivevi.
– Perché?
– Perché ci stavo male. Perché quando uno che ti conosce ti legge, si aspetta un atto comunicativo. Invece per te non è così… l’ho capito col tempo. Scrivere per te è un modo di pensare, di… tessere i pensieri. Quello che metti lì sul blog, paradossalmente, può essere condiviso solo con chi passa di là per caso e non ti conosce, non con le persone con cui condividi o hai condiviso la tua vita.
– Sì, è vero. Ultimamente sto incappando un po’ troppo spesso in questa specie di tranello, e spiegarlo mi è quasi impossibile…
– Già, chi ti sta intorno dovrebbe sapere quanto poco importa il motivo per cui scrivi lì. Per gli altri, intendo. Quelle non sono cose che devi dire a qualcuno di specifico, è più una specie di lavorìo che fai su te stessa…
– Sì. E’ come sognare, ma mentre sono sveglia. Le forme sono quelle della mia vita ma nel tempo si trasformano, anche profondamente, e il significato che prendono a volte non lo conosco nemmeno io. Si cristallizzano, diventano simboli, si rimescolano e diventano qualcosa d’altro.
– E poi se ti capita di rivolgerti a qualcuno che ti sta intorno, in questa specie di forma di scrittura, succedono i casini. Perché loro si aspettano che lì ci sia un messaggio, come quando parlate nel quotidiano… ma tu quando sogni e insieme fai segni perdi ogni forma di tatto, scrivi per te, procedi per immagini, usi pronomi di seconda persona per quelli di prima. E’ un casino!
– Eh, lo so…
– E poi non c’è messaggio.
– No, be’, non è proprio che non c’è messaggio. E’ solo che il messaggio è un filo di pensieri che non voglio perdere, e per certi versi si può anche condividerlo. Però sta un piano che non è quello del quotidiano. E’ qualche altra cosa che non so nemmeno io. O meglio, io ce l’ho ben chiaro qui, solo che non lo so dire.
– E’ per questo che in quel posto solo con chi capita lì per caso puoi alle volte intenderti.
– E sì, perché contesti e dettagli e messaggi di un certo tipo sono necessari solo con le persone con cui hai effettivamente un rapporto. Ma il cammino inverso è pure possibile… a volte gli incontri casuali che quel filo di pensieri che non voglio perdere mi ha portato sono stati incredibili, e nel tempo, poi… vabbe’, ok, l’ho detto già un miliardo di volte.
– Eh, infatti. Ma per esempio, no?, adesso come lo spiegheresti che a questo punto io non sono già più il tu con cui stavi parlando all’inizio di questa chiacchierata, e che solo due frasi di tutto quello che ora ti sta venendo fuori sono state realmente dette da qualcuno?
– Uhm. Non lo spiegherei, come ho sempre non fatto. Oppure puntualizzerei che questa non è una chiacchierata, presumo. Boh.
– E mettici anche che questo non è nemmeno un diario.
– Anche.
– Però quello che dici a volte pesa.
– E lo so. Ma è perché c’è uno strato della mia voce che è soltanto scritto, e su questo non posso farci niente. L’altro problema è che mi viene di parlare soltanto di immagini che si svuotano del loro senso originario, e che mescolandosi ad altre diventano qualcosa che prima non c’era.
– Quindi questo cos’è?
– Sta scritto là sopra: è un posto densamente vuoto.
– Ma capiente.
– Pure troppo.
– E vivo.
– Purtroppo. Per me.

*

So be it
Settle the score
Touch me again for the words that you’ll hear evermore.

Sì.

martedì, 8 Maggio 2012

Wish I was old
and a little sentimental.

The more you like it, the more it hurts: why stop now?

*

Quanti anni ci ho messo a capire che in fondo non c’era niente di sbagliato? Un’adolescenza e mezza vita adulta, grosso modo. Questo è un altro dei tuoi innamoramenti, mi dicevi ogni volta, e sotto la pelle di queste parole la domanda: insomma, ma ti decidi a crescere?
No. La risposta era no, ma io conservavo una relazione troppo importante con te e troppo poco importante con me stessa per non mettere in dubbio la mia visione delle cose. Avrei forse dovuto accorgermi che stavamo già crescendo, allora, ma semplicemente in due direzioni diverse. Tu stavi facendoti la scorza, mentre io stavo abbandonando a piccoli pezzi quella che avevo tentato – senza alcun successo – di costruirmi fino a quel momento. Tu la strada andavi facendotela, io la mia la stavo prendendo. Sono due cose assai diverse. Io ho fatto una scelta morbida, alla fine, quella cioè di restare molle e flessibile e vaga e sognante, mentre tu ne facevi una per certi versi contraria, fatta di chiarezza, praticità e determinazione. Naturalmente, nel mondo e nel tempo in cui viviamo, al tuo tipo di deriva viene di norma assegnata un’etichetta più adulta, quindi da ammirare. E infatti ti ho sempre dato ascolto come a nessun altro, ho sofferto dei tuoi giudizi negativi anche quando me li comunicavi con i sorrisi che non mi hai mai risparmiato, e io ridevo di rimando anche se l’intestino mi strideva di quella strana vergogna che si sente da bambini quando mamma e papà ti sgridano davanti agli altri. La cosa buffa, in quei momenti, era che i genitori e gli altri coincidevano in un unico punto, cioè tu, per cui non c’era via d’uscita. Allora dubitavo. Sempre e solo di me. E non so per quanto ho lottato contro le cose che di me non ti piacevano: solo perché me lo dicevi tu, che non andava bene, allora doveva esserci qualcosa che non andava. Oggettivamente. Per forza. Lei capisce tutto, lei non si sbaglia.

Un’ironia enorme.

Perché era proprio allora che stavo iniziando a crescere, al contrario. Perché, al contrario, la risposta non era no.
Sì. Questa era la vera risposta.
Sì, io mi innamoro. Sì, le mie amicizie sono degli amori. E sì, mi innamoro anche di cose. E diciamo anche che le cose di cui mi innamoro sono le sole che riesco a portare a termine, o a portare avanti nel tempo. Sì, mi innamoro continuamente di cose e persone, anche perché quando non mi innamoro resto indifferente. Perché se non mi innamoro non provo alcun desiderio: di toccare, di ascoltare, di annusare, di abbracciare, di approfondire, di capire.

Quindi era vero, avevi visto giusto anche in questo caso. Quello che non ti è mai riuscito di vedere, però, era che i miei innamoramenti non erano semplici infatuazioni, ma amori veri e propri che sì, a volte facevano il loro corso e, finendo, mi spezzavano il cuore. Tu credevi che mi stessi rifiutando di crescere, quando invece stavo solo imparando il mio modo di essere. Ho detto di sì un po’ a tutto e a tutti, nella mia vita, è vero, e ogni volta mi sono messa in gioco. Ho amato, sempre, e molte volte ho perduto, nella tua ottica, ma per me è sempre stato il contrario. Ogni volta ne è valsa la pena, ogni santissima volta.

E poi: hai sempre creduto che mi innamorassi solo dei miei amici maschi.
Ecco, questa tua piccola malizia è stata sempre la cosa che forse mi ha punto più spesso, negli anni.
Perché non ti sei mai accorta che i nostri modi di essere sono in certi aspetti così diversi che solo la profondità di un sentimento senza nome avrebbe potuto tenerci insieme fino ad oggi. Se ancora oggi riesco a darti ascolto e a volerti bene, è solo perché di quei miei innamoramenti fai parte anche tu. E non potrebbe essere altrimenti.

E infatti sì, è vero. Mi innamoro, mi sono sempre innamorata, e non posso farne a meno. Non c’era niente di sbagliato, niente che andasse cambiato, nonostante gli errori, il dolore, la cecità e tutto il resto.

Sì, insomma. Mille volte sì.

*
Ma era tutto sbagliato, naturalmente. Il mezzo, il tempo, le parole stesse. Tutto c’entra sempre con tutto, e questa era solo la scintilla di una miccia ben più lunga, che finalmente ha trovato la via verso la deflagrazione. Benedetto sia l’errore, sempre ben detto.