E’ il 6 settembre 2008, e il signor Edoardo ha settantasette anni, la mano destra deformata da sessant’anni sulle macchine e con una voce roca che sa di segatura fine racconta di come gli fanno strano i ragazzi di oggi che a sedici anni “che devono fa’? so’ ragazzi…” li giustificano i genitori, ma lui dice: “eh, uagliuni. Io a sedici anni mi sono aperto la falegnameria per conto mio, dopo la quinta elementare mi sono messo a imparare un mestiere, era il dopoguerra, e noi nel dopoguerra eravamo poveri. Noi non c’avevamo terre, perché in famiglia mia tutti falegnami, artigiani e commercianti, e mio padre nel Quaranta teneva sessantamila lire, che ci potevi comprare tipo otto appartamenti. Dopo la guerra, invece, valevano cento quintali di farina, così papà li liquidò, come si dice, perché non tenevamo niente da mangiare. Ho imparato il mestiere da mio padre e da mio nonno, e a vent’anni mi sono comprata quella macchina laggiù, che costava trecentocinquantamila lire. Io non avevo un soldo, mi ci volle una colletta di quattro famiglie di parenti per mettere insieme la cifra. Poi negli anni ho restituito tutto. Per fortuna è andata bene”.
Eccome, se è andata bene. Ci mostra i pezzi di cui va più orgoglioso, tre stipi a due ante, e sul fronte delle ante pare un sogno: paesi del Molise ritratti in minuti mosaici di legno. Ci incantiamo davanti al più bello di tutti, uno spettacolo di tremilaseicento pezzi di tutte le sfumature del legno esistenti, un paese incastrato su una montagna investito dalla luce del tramonto, sovrastato da un cielo rosso sangue. Ci dice “questo l’abbiamo fatto io e mio figlio, tre mesi di lavoro. Volevo anche farci delle belle nuvole su quel cielo, ma dopo tanti mesi a lavorarci dalla mattina alla sera mi so’ sfasteriato. Ah, ma tanto finché sta qua… prima o poi lo faccio, e ci metto due nuvole qua e qua, che passano in questa direzione e sono colorate dal tramonto”.
Anche ora, che è estate e si lavora poco, un paio d’ore in falegnameria se le fa tutti i giorni, dice, “sennò passo una cattiva giornata. E’ che ho guadagnato bene e la vita alla fine mi è girata bene, ma io sono rimasto sempre lo stesso!”.
Indica gli abiti da lavoro, una camicia porpora rattoppata e chiazzata di segatura e un paio di jeans che usurati è dire poco. “Per avermi visto col vestito, una volta su in chiesa qua a Castelpetroso, il parroco mi è venuto dietro per strada urlando Edua’, finalmente te vedo vestuto!… vedete, signuri’, come se vestirsi fosse solo quello che te metti ‘o juorno d’a festa cummannàta. Ma io non li capisco, a questi”. Siamo ancora davanti agli stipi, e quando riconosco i paesi sulle ante si illumina tutto e parte a raccontare di come lavorare non sia più gratificante come prima, specialmente in Molise: “non è per dire, ma la gente è ignorante e per ignoranza offende. L’altro giorno è venuto uno che ha detto mh, bellino questo, ma non ci vuole niente a pittarne uno uguale. Pittare. Non s’era manco accorto che era di legno, il disegno”. E continua guardando la sua officina: “l’artigianato è finito, lo vedete, i mobili che durano una vita nessuno li vuole più, è un guaio enorme. Nel periodo che m’è andata proprio bene-bene avevo una ventina di dipendenti, però non era gente che gli piaceva il lavoro, era gente che voleva solo i soldi, allora io ci mettevo mesi e anni per insegnare ma il lavoro non usciva mai come dicevo, mai un lavoro come dio comanda. Ho cominciato a mandare via quelli che non mi piaceva come faticavano, gli altri se ne sono andati da soli quando s’è capito che dovevano lavorare come dicevo io. Finché non siamo rimasti solo io e mio figlio. Guardate che la gente non tiene più rispetto per niente, tanto meno per il mestiere. Ma dico io… se non ti piace, ma che cazz’ ‘o viene a ffa’? Perdonate, eh”.
Ci mostra, infine, il pezzo a cui sta lavorando ora, un quadro con Gesù risorto che offre se stesso bambino, e racconta di quanto ci abbia litigato, con quel Gesù, per un occhio che gli aveva dovuto rifare sei volte prima che venisse come lo voleva lui. Prima che ce ne andiamo fa il diavolo a quattro per offrirci il caffè al bar, e racconta ancora: “ho sempre fatto una vita indipendente, ho lavorato con gente di tutt’Italia, ma la mancanza di rispetto che c’hanno qua negli ultimi anni non l’ho mai trovata da nessuna parte. Mi fanno restaurare mobili di metà Ottocento e poi vogliono pagare quattrocento euro tre mesi di lavoro. Io ho sempre fatto una vita indipendente, capite, lo so come lavorano dalle altre parti, ho girato l’Italia sopra e sotto, e quello che a volte fanno qua da altre parti la piglierebbero come un’offesa. Ma che valore tiene il tempo di una persona, dico io, nessuno? A me tre mesi della mia vita non me li ridà indietro nessuno, manco il lavoro pagato il giusto, figuriamoci le maniere di certa gente. Io lo facevo per la famiglia mia, ma ormai è finita qua. Adesso faccio quello che mi pare, il lavoro che dico io solamente”, e dal bar indica verso l’officina che è lì a pochi metri, e dalla quale si scorge la cornice di un portone che sta appoggiata di fianco su un tavolo che non ne ho mai visto uno così grande. “Guardatelo mo’, e se venite alla vernata poi vi faccio vedere che ne facciamo uscire”, mi risponde quando gli dico che mi piacerebbe vederli lavorare, lui e suo figlio.
“L’importante è conservare la testa”, ci fa alla fine. “Io ho avuto abbastanza, e sto bene accuscì”.
– E vabbe’, tenete quest’arte nelle mani, e che vi serve più? Sapete fare delle cose meravigliose!
– Signuri’, non dite così. La gente tiene in testa un sacco di cose stupide: i titoli, le lauree, e poi ci passano in testa a noi che non abbiamo studiato. A me questo mi pare assurdo, perché se poi andiamo a vedere un laureato tante cose non le sa fare. Ma io non dico che uno è meglio e uno è peggio, è solo che loro sanno fare delle cose e l’artigiano ne sa fare altre. Io so fare quello che so fare, e quello che so fare lo so fare bene. Tutto qua.
– Guardate che io quello che vedo qua l’ho solo nella chiesa di Sant’Anna dei Lombardi a Napoli, non so se avete presente…
– E non lo so, io all’inizio ero falegname di mobili, porte e portoni, poi a un certo punto mi sono messo a guardare certi mosaici di legno del ‘500 e del ‘600 che stavano sull’enciclopedia dell’arte di mio figlio, che studiava architettura ma poi ha smesso. Mi parevano disegni e non ci potevo pensare che erano fatti di legno… però se erano fatti di legno forse potevo provare anche io, pensavo. Ho provato a ricopiarne qualcuno, e così ho cominciato.
– Ecco, aiutatemi a dire. Avete fatto e fate cose meravigliose.
– Vabbe’, voi non mi capite. Volevo dire che, se gli piace, lo può fare chiunque.
– Se lo dite voi, don Edua’…
Alziamo le mani in segno di resa, e lui si fa una bella risata.
– Comunque tornate a trovarmi, mi fate tanto piacere.
– Prossima volta che passiamo siamo qua.
– Allora salutatemi Pordenone. E’ una bella zona, ci sono stato quattro o cinque volte per dei lavori…
– Davvero? E che lavori avete fatto?
– Ma niente, cose andate esposte in qualche palazzo che non mi ricordo come si chiama.
– …
– Eh, fate quella faccia ma guardate che non scherzo mica, quando dico che ho girato.
– No, è che… vabbe’, lasciate sta’.
– Comunque non vi dimenticate, mo’ che trasite a Pordenone, di dire “saluti da Eduardo il falegname di Castelpetroso!”.
– Sarà fatto.
– Stateve bbuono!
– Pure voi.
– Ce putite juca’ tutto chello che tenite.
(continua)