– Ma ‘ndove xe che ti sìe finìa?
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[Ernesto Calzavara, da Le ave parole, 1984]
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No, niente. E’ che nel frattempo, di stazione in stazione, cercavo la mia. E così sono andata a stare da un’altra parte. Sto invecchiando: ho voluto con tutte le mie forze un pezzetto di terra con cui fare una mente, accanto al letto. Come il nonno. E allora…
Adesso la mia porta si apre su una strada non finita, e la finestra davanti alla mia scrivania dà sul cartello che segnala il punto, no, la linea, il taglio nella tela del paesaggio oltre il quale la strada non può più andare, finisce, e c’è l’asfalto tranciato di netto che forma il gradino di una scala che per salirla o scenderla – transitivo è bello – basta un solo passo. Se scendi c’è un infinito di terra, intero, senza tagli o strade in mezzo. Se sali ci sono le case, una zona tranquilla, giardini belli, il vicino anziano che fa dieci chilometri a piedi al giorno. Finisce la strada, inizia il campo, enorme, l’ultimo vuoto che resta in questo larghissimo rettangolo di case, che buffamente non può penetrarlo ma soltanto fare da orlo all’immane testimonianza dell’immane testardaggine di un contadino che no, proprio non vuole vendere. Durerà ancora per poco, lo so, ma intanto questa enormità vuota di cemento è piena di girini dentro stagni pieni di avena sterile e lepri e gatti e cimici e sassi e zanzare e macaoni. Finisce l’asfalto, comincia il resto. All’altro capo di questa enormità, in fondo allo specchio, c’è il tronco di strada gemello di questo, cui un giorno dovrà congiungersi: l’assedio dura ormai da anni, è un punto scucito nella trama efficiente del piano regolatore, ma già so che questo cartello prima o poi se ne andrà, che lo scalino sull’enormità di terra morbida e grassa verrà cancellato e il taglio ricucito, e così mi attrezzo per serbarne memoria allo spuntare del primo cielo limpido.
Abito, mi sembra, per qualche tempo ancora su una soglia, alla sera la mia è l’ultima finestra illuminata prima del salto nel buio della terra nuda, l’ultima luce prima dell’altra parte. Per qualche tempo ancora questo mi sembrerà un casello, a guardia di un minuscolo passaggio di livello nel paesaggio di questo minuscolo circondario. L’ultima casa, dice in effetti il vicinato: ah, piacere, allora siete voi siete quelli dell’ultima casa? Sì, siamo quelli che stanno alla fine, o all’inizio, tanto è uguale, comunque lì, vede, dove poi un giorno si mischieranno da capo tutte le direzioni, e chissà cosa succederà. Noi siamo quelli che abitano sulla soglia dello spazio in cui il paesaggio presto o tardi cambierà.
No. Mi no me la voglio sparagnar, la vista del fora par vadar solo drento. No.
Strade che no se sa dove finisse ghe n’è ancora.
Dapartuto.
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Ma dove vivo io il cemento è diventato come il mais nell’Unità d’Italia: un’accumulazione primaria di territorio… per la quale non ci chiediamo neanche se esistono delle alternative.
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– Perché non sei venuta a salutarmi?
– Perché è successo di nuovo. Mi avrebbe fatto male.
– Ma io non voglio mica farti del male. Non ho mai voluto fare male a nessuno, io.
– Lo so, ma non puoi. Sei una Voce, succede e basta, è il tuo mestiere. E’ come il mais nell’Unità d’Italia: uno non si chiede nemmeno se ci sono delle alternative.
– Ecco. Ma no va mica ben.
– Be’, sì. Perdonami, sarà per un’altra volta.
– Aspetterai che diventi vecchio?
– No, dai. Mi farò semplicemente coraggio.
– Come quell’altra volta. Brava.
– Eh.
– E allora?
– E allora che?
– Com’è andata stavolta?
– Ma niente. Ti ho odiato, di nuovo.
– Perché?
– Due motivi. Uno: sapevo che dopo, cioè adesso, saresti venuto a rompermi le palle. Due: per il cemento, e la differenza tra abitare e risiedere.
– Eh… cosa.
– Niente. Su queste cose avevo già iniziato a rimuginare, a masticarle. Giorni prima, già un nel po’ prima di ieri.
– E…?
– E chitemmuort’, vabbuo’? Arrivo, e trovo ‘n’ata vota che tu l’hai già detto. Prima, meglio e comunque in un modo che mi fa mettere a fuoco quello che cercavo di dire.
– Ussignùr. E che c’è di male? E’ tanto brutto?
– E sì, cazzarola, sì! Non ce la faccio più, arrivi sempre prima tu… ma non è perché arrivi prima… è perché così non ci arrivo mai da sola. Mi fai imbestialire, perché io sono lì che ci lavoro giorno e notte per mesi, e poi voilà, arrivi tu e finisce, tu hai già segnato la strada. Così non riesco mai a sapere se ci sarei arrivata o meno!
– Mariavergine…
– Certe volte penso che farei bene a non venire più a cercarti. Se so che sei da qualche parte che posso raggiungere, girare al largo. Smetterla, anche con questa storia che mi hai aperto il cuore.
– Seh. Sono così tanti anni che lo ripeti senza dirlo. Questo vuol dire che non me lo dirai mai.
– Può darsi.
– E non ti vergogni?
– No. Qui posso non vergognarmi della verità, come quando sto con le mani e le braccia affondate nella terra, che posso sporcarmi senza sentirmi in colpa.
– Uh, che pensiero da nonna, questo.
– Lo diceva mio nonno, infatti.
– Va bene, sì, mi hai odiato anche questa volta. E quindi?
*
E quindi è successo che ho deciso di restare qui. Faccio cose da abitante, ecco. Mi lascio assaggiare dalle mosche, bruciare dal sole, attraversare dai lombrichi, che mi ingurgitano e poi mi cacano via, fertile e rinnovata. Sì, sto facendomi terra. E poi bevo acqua di rubinetto e dalle fontane pubbliche, passo interi pomeriggi a cercare di fotografare fiori di una piccolezza estrema, predìco l’arrivo dei papaveri e nessuno mi crede. I residenti mi guardano un po’ male perché sono l’ultima arrivata, ma chissenefotte.
*
Ieri ho attraversato il passaggio, sono andata oltre il segnale di FINE DEL MONDO: è lì che abitano i papaveri che fra poco verranno, e siccome lì non c’è cemento né asfalto a sostenere le suole delle scarpe nessuno ci va mai, e così nessuno sa che fra poco il grande campo al centro di questo piccolo circo massimo di case si colorerà del rosso più bello che l’Italia conosca sui suoi prati. Inizierà prima disegnando costellazioni mai viste prima, e poi alla grande mente del mondo cascherà il secchio, sembrerà un incidente – sembra sempre un incidente per quanto è improvvisa – questa colata di rosso che per tanti giorni cambierà la luce, dell’alba, di tutte le ore del giorno e della sera, fino al tramonto, dopo il quale andrà in quiete fino al mattino successivo. Faccio cose da abitante, dicevo, e vado a vedere cosa c’è oltre il cemento e vado a vedere cosa si vede da lì, del centro dell’altro piano del paesaggio, quello senza cemento, solo per capire com’è. E poi sto qui, sto qui e non mi sposto. Faccio la pianta e la terra, prendo le misure della luce del sole e non vado da nessuna parte: quando c’è il sole sto al sole, e quando arriva l’ombra sto al fresco. Una coppia di passeri mi sta alla larga ma mi studia. Sento il frullare dei loro piccoli voli prima alle mie spalle, poi a destra, poi laggiù (dove?) in fondo, poi sulla grondaia che ho appena sopra la testa. Guardo le nuvole passare, ascolto le voci dei vicini e il rumore che fa quando alzano e abbassano le zanzariere. Da lontano, il treno in corsa e il vento che fa danzare, morbido, il campo coperto di coda di volpe.
E’ vero, per la miseria: fare l’abitante è un ca-si-no.
*
– Ecco. Tu te ne vai in giro a pisciare sulle rotonde, io a farneticare ad alta voce nei campi.
– Continui a parlare da sola, quando sei in giro?
– E sì. Non me ne accorgo neanche, a volte, non lo faccio apposta.
– Sì, lo so. A me capita nelle stazioni.
– S’è alzato il vento.
– Sì. Sai dove sono stasera?
– No. Dove?
– Non te lo dico, scoprilo da sola.
– Senti…
– Cosa.
– Perché continua a succedere? Voglio dire, perché la tua voce non mi lascia in pace?
– Non lo so. Dovresti chiedermelo, un giorno o l’altro.
– Mi risponderesti?
– Non saprei. Io non sono mica io.
– Eh.
– Ma poi perché? Perché non vieni mai, quando ci troviamo a un passo di distanza?
– Non…
– No, lo sai.
– …
– …
– Eh, vabbuo’, occhei, sì: mi vergogno.
(continua)