Non è possibile non comunicare.
[P. Watzlawick, 1967]
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E poi arriva il momento di arrendersi, e di vibrare. Di mettersi in risonanza con un grido, con uno sguardo, con un silenzio lungo quattro mesi, con una coppetta di gelato, con il lievito che ingravida una ciotola di farina e acqua, con la risorgiva di un fiume carsico, con un minuscolo intrico di germogli d’edera, con un cellulare che squilla, con una domanda di lavoro in inglese, con il motore di un’utilitaria che fa le bizze, con il ritardo di un treno, con una folata di vento che porta il sentore aspro delle piante pioniere che cercano di farsi strada su un mare di ghiaie antiche, con una pozzanghera fangosa, con una strada interrotta e una appena nata, con il ciao! di un amico lontano, con un rastrello e un giardino da liberare, con un cielo bianco e fermo di scirocco, con un incontro inaspettato in una bella giornata di sole in riva al mare, con un matrimonio imminente, con la propria lingua-mondo-madre, con i fili di discorsi da lungo tempo interrotti che chiedono di essere ripresi, con certe virgole che si disegnano nel cielo a partire dalle otto e un quarto del mattino, con l’inutilità di dire mi dispiace, non volevo, non volevo, ti giuro che non volevo. Con il desiderio di sparire per una stagione intera, perché sì, dopo questo interminabile inverno ne abbiamo tutto il diritto. Perché tanto non c’è verso: pure vestirsi di silenzio fin sopra l’ultimo capello significa qualcosa, e non è possibile che sia diversamente. Sta dentro il nulla più ostinato, forse, il più disperato ti prego, ti scongiuro, lasciami, lasciami andare.
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