Ho bisogno di un passaggio a livello. Di un passaggio tra livelli. Di un varco, di una soglia tra qui e lì, tra un prima e un dopo, tra un dentro e un fuori. Quali dentreffuori, di chi? Non importa. Io stessa sono un vuoto da riempire, una soglia da oltre-passare per arrivare a qualcosa d’altro. E’ sempre stato così. Sono un momento aperto in tutte le direzioni, transitorio e transitabile – come ogni essere umano – in cui avvengono differenze. Cambiamenti di stato. Attraverso di me la gente cammina, intorno a me aspetta, chiacchiera, si guarda intorno o si fissa le scarpe.
Poi c’è il treno, che passa – e una volta che è passato l’attesa è finita, andate in pace dall’altra parte: della strada, della giornata. Nel frattempo prima è diventato adesso, lì e qui si sono scambiati il posto. Per un attimo ho accolto e raccolto i passi, le voci e i gesti di chi c’era: movimenti orizzontali, di passi e di ferro, e verticali, di sbarre e voci. Passato il treno, io non ci sono più, anche se dopo il vostro passaggio non sono più la stessa di prima. Il vento che insegue il treno, i volti volanti di quelli che sonnecchiano accanto al finestrino, il coro dei motori delle auto oltre le sbarre che si riaccendono una dopo l’altra con un ritmo sempre uguale che non è mai lo stesso, le parole che arrivano dalla strada, e sullo sfondo di queste il campanello di attesa: mi cambiano ogni volta. Sono una casellante dalla memoria strana, buona e cattiva insieme. Avrei voluto essere una persona diversa, una volta, pulita e libera. Invece sono un momento, solo un momento. Trasparente e opaco allo stesso tempo. Una soglia che si apre e si chiude quando lo dice l’orario ufficiale. La mia casa è una V di binari come non ce ne sono uguali in nessun altro angolo del paese a forma di pozzo in cui sono nata, e vivo nell’angolo tra i due fasci di binari che la formano, tra due passaggi a livello, due linee ferroviarie e due metà di una città di cemento e monnezza. E più il tempo passa, meno la mia presenza è visibile. Ero, sono stata, sono e sarò sempre qui. Abito questo nodo di strati, di piani, di direzioni, e non posso abitare altrove. Mi ci sono volute una vita e due morti per capirlo.
Ora di questa soglia ho le chiavi, e non potrei più andarmene nemmeno se lo desiderassi: da un tempo remoto ho ereditato un cancello, un cappello, di paglia, un linguaggio assurdo e pesante, un sonno che i treni non riescono a spezzare, sogni e segni che sono uno. Tutto mi si confonde, intorno e dentro, le persone che sfrecciano, i treni che aspettano, le sbarre che sonnecchiano. Vado, torno, vengo, arrivo, parto, sottopasso, pedalami. Ma non desidero più lasciare questo luogo, anche se non mi dà appigli a cui tenermi se non gli scambi che apro e chiudo, e quel doppio filamento come di DNA su cui scorrono il tempo, le memorie, i chilometri, gli odori e le voci lontane anni luce che mi passano a mezzo metro dal naso ogni giorno della mia vita.