Turn’azioni

[Era una volta: Voce del verbo: grida (mi), apri (mi), cambia (mi)]

Anìn a grîs usgnot
jenfri erbe e tjere
dongje il Tiliment.

Anin a pièrdisi tal scûr fra sterps e cîl
cence carnîrs nè bês.
Sîors di libertât
a racuei grignei di vite
e respîrs di ajar net
e a durmî di voe sul jèt
d’arint da l’aghe
cence pore d’inneâsi
marivèe di sanc
lontan da gilugne
e dal lisp dai simiteris.
(…)
Anìn a steles usgnot
cun vôj discois e musiche
tal flât cjalt
da nestre picule poesie.

Sîors di libertât
a racuei grignei di vite
e respîrs di ajar net
e a durmî di voe
sul jèt d’arint da l’aghe
cence pore d’inneâsi
marivèe di sanc
lontan da gilugne
e dal lisp dai simiteris
.

[M. Di Gleria]

*

Eravamo marivèe di sanc, lontan da gilugne e dal lisp dai simiteris, e questo è tutto. Eravamo, nemmeno siamo stati. E dopo tanto smarrimento, riempirsi di meraviglia al cospetto di posti sicuri fatti solo d’aria e acqua e terra e parole e luce è ancora possibile. Allora era vero, viene da dire ad alta voce nel mezzo di un letto sconfinato, un mare di costellazioni, di sassi lucenti che arrivano fino all’orizzonte. Questo è un terreno pericoloso, ci si cammina con estrema difficoltà, ogni passo è un pugno sulla pianta dei piedi e non c’è percorso, nessun percorso che sia possibile fare due volte. Ogni volta, ogni passo è l’ultimo in questo preciso punto, e non ce ne sarà un altro. Come quelle ore, come quelle parole. Lo sapevo già mentre accadeva, lo sapevo, me lo sentivo, lo sapevo perché dopo tutto, dopo tutto io so leggere i linguaggi come tu sai leggere i volti. Il tuo vantaggio è nell’immediato – tu sai esattamente cosa accadrà di qui a uno, due, cinque, venti secondi dietro una faccia dopo averlo visto succedere sopra di essa, e quei secondi sai sfruttarli al meglio perché proprio questo è il tuo mestiere – e il mio è su una più lunga distanza: io so cosa succederà alle parole di qui a due settimane, un mese, un anno, e raramente so cosa farmene. Osservo voci e gesti cambiare al mutare degli eventi e non prevedo, ma vedo come sarà. No, non sempre è divertente. O almeno, in certi casi sarebbe più divertente sbagliarsi. E quindi lo sapevo. Ti guardavo cambiare, e lo sentivo. Eppure c’ero, era vero, anche se era tanto tempo fa. E così sei stato, così eravamo: un terreno, una passeggiata pericolosissima. Non ho, non ho mai avuto e non avrò mai riflessi abbastanza pronti per te. E tu, alla velocità della luce sulla quale ti muovi, non riesci nemmeno a vedermi. La verità è che siamo esagerazioni, io da un lato e tu dall’altro dello spettro. Dall’altro capo della gamma ti guardavo e non capivo, e nel frattempo mi ferivi, mi aprivi, mi cambiavi ancora una volta. Non oso e non so immaginare come fosse dal tuo lato del fiume. Mi hai creduto incolore (che non è dato, in natura) per una distanza che era solo apparenza, mentre ogni tuo gesto mi segnava, mi restava, mi viaggiava da capo a piedi andandomisi a stratificare sotto la pelle. Sempre, ogni gesto, anche il più piccolo. Sono fatta così. Dirlo a voce alta non è servito: dopo un attimo ero dimenticata, irrimediabilmente segnata e… passata. Ma ero e sono fatta così, allora come oggi, un corpo molle ad altissima permeabilità, a maggior ragione da mani e occhi che conoscono da tempo le pieghe della mia lentezza. E dunque mi sono dovuta proteggere da te, per la prima volta in vita mia mi sono dovuta proteggere da una voce quando ho sentito che l’affondo s’è fatto troppo doloroso per essere così insensato. Eppure dovevo, avrei dovuto trovarti anche se poi così non è stato. Altrimenti sarebbe stato peggio, sarebbe stato tutto per niente.

E così sei tornato ancora una volta, mentre ti raccontavo senza nominarti alla Voce amica di lunghe passeggiate, caffè e buon cibo e parole. A sua volta, lui tirava fuori dalle tasche il suo, di irrisolto, altrettanto pericoloso del mio. Nel suo caso, anzi, ben più insidioso. C’è poi un tipo di musica, al mondo, che un poco alla volta si tira dietro il battito del muscolo che ci si muove sotto lo sterno finché non l’ha accordato al proprio. Sicché a un certo punto hai le montagne, ENORMI, a destra, il sole in faccia e il solco del fiume – quello della mano, dice lui – a sinistra, e il cuore che ti sembra uscire direttamente dalla canzone che hai nelle orecchie. Allora io lo vorrei tanto sapere, cosa ci rende così. Cosa ci fa così permeabili, tanto che persino il cuore non riesce ad andare esattamente per i fatti propri? Che consistenza abbiamo, noi, io, chiunque sia fatto in questo modo a questo mondo? E guardo lui, che è felice e sembra che i polmoni gli siano improvvisamente diventati più capienti solo per aver visto le montagne, appena al di là del muro delle case del centro. Dalla pancia mi sale un sorriso, che non può vedere perché ha gli occhi immersi nell’intercapedine in cui questi luoghi si sovrappongono tra questo e quell’altro tempo, tutto suo, in cui li ha conosciuti. La luce, gli odori, gli occhi… è vero che è diverso, è sempre tutto diverso. Cambiano le relazioni fra le cose, non le cose stesse. Per me è finita perché dovevo proteggermi. Con te c’era da farsi molto male, per me. Un male contro il quale ero e sono del tutto priva di difese e che pure, vista la mia altissima soglia del dolore, avrei forse anche retto bene. "Se ti dò una caròcchia in testa, così, ti fa male?", "No". "E vedi, questo è il tuo problema: abbassa la soglia del dolore, senti male, proteggiti, urla, di’ AHIA!", "Ma perché, quell’era ‘na carocchia?", "Aaaaaah, MA LO VEDI?".

Avevi ragione. Sono fatta a strati e per me niente è mai veramente passato. Irrisolto, al limite, quand’è passato senza essere passato bene. Mi resta qui, tra uno strato e l’altro, e non mi è possibile tirarlo via senza che caschi l’intero mio edificio. Così è per tutto quello che mi tocca, in un modo qualsiasi. E lui, che si crede pessimista, dice: irrisolto non è perso. E’ vero. A me risolverti, risolvere la tua voce del resto è costato, ancora, l’essere cambiata una volta per tutte. A occhi non solo aperti, ma spalancati. Le Voci sono spietate, su questo non c’è alcun dubbio: il grande, il piccolo… te lo fanno misurare tutto.

Ho abbassato la mia soglia del dolore, allora, a partire da te. Quella volta che hai detto "che tristezza", denigrando la più degna delle fatiche umane e tutte le lingue diverse dalla tua messe insieme… è stato lì che ho sentito ogni cellula parlarmi nella mia, di marilenghe: ennò, vafammocc’, chisto nun sta scritto a nisciuna parte ca me l’aggia tene’. Un calcio nel mezzo delle costole, di punta, non sarebbe stato altrettanto insopportabile.

Da quel momento eri risolto. Diverso, da quel momento tutto era cambiato e nulla più era come prima. L’ultimo tratto del gioco: uniti tutti i puntini, quasi non riuscivo a credere alla figura che ora avevo davanti agli occhi. Risolvendoti, è vero, ti ho perso, infine e finalmente. E così sono tornata a casa, con i capelli un po’ più lunghi e un po’ più bianchi, e una sfumatura del rispetto che ancora non avevo conosciuto in tasca. Quanto pesava, quella tasca. E quanto sa essere leggero, il dolore, anche se ben al di sopra della soglia, dopo una passeggiata così pericolosa e così preziosa dentro uno strato di vita mai visto prima con i propri occhi.

Eravamo marivèe di sanc, lontan da gilugne e dal lisp dai simiteris, e questo è tutto.

Il processo è (in)finito.

Si va a grilli e a stelle, stasera.

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Un Commento a “Turn’azioni”

  1. macca ha detto:

    Una cara persona diceva che siamo una razza a parte, Noi.

    Nascosta agli occhi dei più, che ci ferisce tutto, anche il vento, ma che sappiamo amare più degli altri.

    E’ possibile far venire i brividi alle otto di mattina?

    Io ci sono sempre.

    Questo sì.

    Andiamo a grilli.

    Dan

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