Ho viaggiato Treviso per la prima volta all’alba di una mattina di febbraio, umida ma senza nebbia, a bordo di un’autolinea cittadina che passa per piazze, quartieri, canali e calli profonde come piccole ferite di pietra. Le voci che vi ho incontrato erano basse, profonde anch’esse, assonnate, stanche ma ancora avviate alla nuova giornata, ancora e ancora. Operoso nordest. Mi ha intimidito per anni, questo posto, con il suo sindaco e il fantomatico ottantapercento al suo fianco che gli permetteva di dire qualsiasi cosa gli passasse per la testa… e adesso, sull’autobus pieno che scivola dal centro alla periferia mentre il sole si sforza di salire oltre le nubi basse, siamo solo in quattro ad averci la pelle di quel colore spento che tanto piace a quelli là. Lo sanno tutti che è così, lo so, ma io con i miei occhi non lo avevo ancora mai visto, e dopo tanti anni di cortese distanza questa città mi appare così, spezzata e spezzettata in fermate, stazioni, voci diverse e pelli ambrate, mentre i canali, i ponti, i frontoni delle chiese e gli slarghi fra i vicoli scorrono sovrapposti alle macchie di luce dei neon dell’autobus riflessi nei vetri, sicché fuori, che in mezzo alle case è ancora buio, si vedono passare facce e cemento sfregiati da lame di bianco che ne alterano il sembiante solo per un secondo, e quando sono passate tutto è ancora al suo posto.
Treviso.
Ma quante facce hai? Almeno tre, a occhio e croce. Due si vedono, la terza no. Ho intravisto le case dei ferrovieri e un bel ponte in pietra bianca che sotto ci passa il Sile, accanto alla fermata dove ero in attesa che un conducente benevolo venisse a portarci verso l’ennesima partenza, la mia e quella di tutti gli umani assiepati intorno all’edicola aperta già da ore, con l’edicolante che non risparmiava un buongiorno a nessuno, persino a me che era la prima volta che passavo di là. Ho intravisto una via Fra’ Giocondo, un airone che sfrecciava alto puntando il Piave venti (sì?) chilometri più a est, il viso implorante e tirato di sforzo di uno studente pallidissimo che ha corso per decine di metri verso la fermata accanto all’autobus, proprio all’altezza del mio finestrino. Ho visto acqua grigia e l’osteria Fuori Porta, che le luci gialle sapevano di voci, caffè, calore e grappa anche da dove le guardavo. In fondo alla stessa strada, lontana, una delle porte della città.
Treviso.
Spiegami perché ti piace così tanto farti cordialmente detestare, se poi di primo mattino sei così, di acqua e pietra, che per essere febbraio non fa nemmeno freddo e anzi, fai quasi venire voglia di smontare alla prossima e fare un giro per venire a sentire parlare quella lingua che ormai comprendo e conservo nella memoria come una delle cose più preziose che ho imparato da te pur senza averti mai camminata prima – potenza delle Eus! – per merito di qualcuno da cui pure hai saputo farti detestare, finché non lo hai buttato fuori dalle tue mura a calci, ingrata e cieca come quel primo cittadino che ora è il secondo, ma fa lo stesso, che ti sei voluta e a vederti così non si capisce come ti sia passato per la testa. Ma chissà cosa riposa, dietro ‘sti muri tagliati dal neon, e chissà che abisso c’è anche per te, aperto e doloroso come una ferita, tra quello che dici e quello che fai. Io stessa arrivo in treno che è ancora buio nelle tue strade, e ti lascio solcando il cielo, con lo spettacolo del dorso del Montello che emerge come il guscio di una enorme tartaruga preistorica dalle nubi basse ormai rosate dal sole che finalmente è riuscito a sorgere.
Ma la prossima volta non mi freghi, Treviso.
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