Mettersi in cammino a metà mattina e vedere, sentire dove portano i piedi, col sole e le pozzanghere, e guardare la città a rovescio, mettere con gli occhi le voci nei riflessi sull’acqua e costruirsi nelle orecchie un ricordo sottosopra, leggermente increspato di vento. Mettersi a lavorare per un paio d’ore in un caffè, e sentire il tempo passare, pieno e non morto, non ammazzato come si suole fare con quei criminosi atti quotidiani, minuscoli e distruttivi, che gli tolgono la vita. Bagnarsi le chiappe su una lastra di travertino e parlare a voce alta – altra – con un passero, chiedendogli per favore di non farti lo scherzetto… per lo meno non sulla macchina fotografica, dai, che ancora ci devo prendere confidenza. E poi, pensare che se a Roma non ci fossero tante macchine parcheggiate ovunque si potrebbe vederla meglio, e ripiegare poi lo sguardo sui parabrezza e guardarla così, tutta gonfia e storta, che i palazzi sembrano messi insieme con un curvilineo non particolarmente sano di mente. Constatare che oggi è il giorno dopo la pioggia, e ci sono le pozze d’acqua e i lunotti puliti, un bambino che si chiama Matteo che si rotola sui sanpietrini tra le due fontane gemelle e che i genitori non riescono a fermare, e io non so cosa succederà di qui a un’ora né quanto sarò capace di camminare prima che mi tornino i crampi. Sentire alzarsi il vento, e arrivare dai vicoli odore di caffè e pelle umana, sudata, viva, e madonna quanti gabbiani ci sono a Roma, e continuare a pensare alla differenza, no, all’abisso che sempre si spalanca fra quello che si dice e quello che realmente si fa nel momento in cui la sorveglianza si abbassa e la quotidianità ti mostra le cose e le persone per ciò che realmente sono. E alzarsi, infine, e confondersi tra i turisti e sentirsi rassicurati dalla sensazione di invisibilità che danno questi vicoli, del tipo: qui, dietro quest’angolo, nessuno mi trova, nessuno potrà trovarmi mai più. E in giro incontrare voci altre, che parlano linguaggi di luce, diversi e diverse, andar loro incontro a passo svelto o a bordo di una metro sgangherata, e ritrovarsi disarmati davanti a una nebulosa di parole di contorno ad un concetto molto semplice, che traccia un confine scontato ed evidente al punto di chiedersi "ma perché, se ce l’abbiamo sotto gli occhi?". E a sera riprendersi un momento per pensare, di concerto, alle cose dette e fatte, e alla fine andare a dormire immersa in un odore nuovo, che prima non c’era nelle parole come nella memoria, e a mattina ancora sentirlo, e partire portandoselo dietro, sul treno diretto a nordest. E viaggiare così, in mezzo ad altri esseri umani, con i pensieri persi tra pozzanghere e voci, risalire il pozzo-paese e chiedersi cosa verrà dopo, mentre i sensi si fanno strada in un tempo che prima era scorso così, non-sensato, senza senso, senza sensi.