Voce del verbo: facciamola sconta

Sì, ci può essere il rumore di fondo… ma la voce lo buca, lo bucherà, lo bucherà come la gramigna buca il cemento.

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Spogliandosi con sorrisi che sono operazioni a cuore aperto, rivoltarsi come un guanto davanti a una pizza fatta in casa, profumata di origano e dolori invecchiati, istinti feroci, di fame e verità taglienti cui è serenamente inutile sottrarsi, e come creature ataviche muoversi su storie già accadute, a noi e a chissà quanti umani prima di noi. Ci ascoltiamo a vicenda e sì che lo sappiamo e insieme quasi non ci si può credere, come doveva essere e com’è andata – e chissà come sarà poi, e sotto tutta la cenere di e se conservare dopo tutto un qualche sogno disperso nel mare dei segni, piccole risposte alla domanda che nessuno ci ha mai posto mentre noi ce la portavamo piantata nelle viscere, nascosta e protetta da qualsiasi sguardo, persino quello del tempo. Sgranare poi gli occhi per la sorpresa di vedersi quasi allo specchio, e poi alzarsi e uscire, all’aria aperta, aperta, aperta, a caricarsi di scintille di Bora bianca ridendo forte, con tutti i pori, e sconfinare, andare a giocare con i nomi belli delle cose piccole di un’altra lingua,  e ancora abbracciarsi e salutarsi con una qualche leggerezza, prendendo in giro questa vita come una pentola che ci ha cotto, prima, e che infine si è aperta come un mare, lasciandoci andare alla deriva. Senza paura, se fosse per noi. Come appena fuori dalla Siberia.

A Sesto al Reghena, verso  le montagne, un granello di spazio profondo ha tagliato in due il cielo con un bagliore acuminato. Ecco, lascia che facciamo a metà – gli ha detto una qualche parte di me. Lascia che facciamo a metà.

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