Quante cose volevo dire.
Non è vero. Non volevi dire niente. Potendo, anzi, avresti detto: volevo solo raccontare una storia, adesso posso andare a casa? E basta. Tre anni di treno, di aereo e di biblioteche rubate a tutto il resto. Niente volevi dire, e niente c’era da dire. Cosa mai c’è da dire, ogni volta, su qualcosa di scritto? Niente. E’ compiuto, s’è compiuto, adesso ce ne possiamo andare. Una cosa scritta si legge, al limite. Dirne… come si fa? Non si fa, secondo te. Non si dovrebbe fare. E così volevi che finisse, che finisse nel più breve tempo possibile nella speranza di non rovinarlo troppo, di non rovinarlo oltre.
Sarà vero?
Avevi cercato conferme che non erano mai arrivate. Ti sembrava, a quel punto, di essere stata portata al patibolo con il compito di difendere l’indifendibile davanti al mondo intero. Al momento di salire tremante sulla pedana, poi, il boia ti ha falciato senza pietà con una carezza da padre, forte e benevola insieme: hai saputo far bene, sono contento di te. Che sia stato un gesto vero o cerimonioso, la sostanza è rimasta nel gesto stesso, e nella meraviglia che ti ha lasciato. In quel gesto di voce e di stima tua madre ha scoperto che quell’assenza di tre anni era stata un viaggio necessario e non una fuga, e tuo padre ha potuto finalmente smettere di parlare poiché il silenzio non doveva più essere riempito.
Ecco il perché.
Sicché questo era il senso. Era così che ci si sente. I nervi impazziti ma controllati per forza di cose, e l’urgenza di finire, l’evidenza dell’inutilità del parlarne davanti ad un pubblico, in un luogo pubblico. E poi quella leggerezza, andando via. Non come di peso lasciato cadere, ma come di tempo lasciato finire.
E’ finita.
E così era questo: un niente. Quel giorno che non arrivava mai è arrivato, quel momento che oltre il quale non riuscivi a vedere è passato, e non è successo niente. Niente. Uno si tiene una parola nuova nella testa per tre anni, poi a un certo punto la scrive su un foglio e viene fuori che aveva anche un senso. Tutto qui. E poi passa, come tutto.
*
Boia, devo dirti soltanto una cosa: grazie. Grazie per avermi fatto morire così.
Adesso posso andare a casa?
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Che meraviglia. Mi annoto “quella leggerezza, andando via. Non come di peso lasciato cadere, ma come di tempo lasciato finire.” (che pare Montale!).
è così, credo, per tutti: la mia tesi l’ho discussa in un pomeriggio afoso, col presidente che si appennicava e un continuo di gente dentro-fuori l’aula. è sempre un fatto di perle ai porci, alla fine.
Perle ai porci, dici? Chi lo sa. Personalmente mi sono persa così tanto che non credo di aver detto proprio nulla di quel che era importante, alla fine. Nessuna perla, insomma. Ma forse noi siamo un poco più fortunati, ché la nostra è un’università di pazzi furiosi, tutta gente piena di fantasie e deviazioni di e da ogni genere… mah. 🙂