Pistol and its pawn:
sell it to the lexicon.
A pistol and its pawn
blood and border lines be drawn.
(…)
I put my cards upon the table
I do this because I am able
One picks his broken down devotion
I threw my pistol in the ocean.
[Anthony Kiedis, 2003]
*
Allora succede così, che le cose che ci mettono tanto tempo a finire sembrano – e sono – infinite. Così restano nella memoria quando sono passate, così si sedimentano e si irrigidiscono strada facendo, sicché nel guardarle non finire per settimane, mesi e poi anni interi, qualcosa nel cervelletto va in corto circuito: sei finita da tanto tempo, e allora perché sei ancora qui? Porca miseria, e levati di torno una buona volta. Tuttavia, questo e solo questo è il momento che per te dà senso a tutti gli altri, quello in cui le cose finite passano al momento successivo, trasformandosi senza andare perdute, irrigidendosi fino a diventare un metàmero della storia contenuta nel recipiente di una vita.
Per dire questo momento così a lungo in-finito ti è capitato, cosa curiosa, di dover usare il noi. Che strano. Ma neanche tanto: con tutte le persone, le città, le voci che ci sono dentro. Quello che è stato veramente buffo è stato il fatto che bisognasse includere, nel noi, anche te. Non solo loro, ma loro e te. S’è detto da solo, dicevi. Ma non è proprio esatto. Te lo sei tenuto dentro per tre anni a prendere forma, prima che venisse fuori da sé. Due anni solo per capire dove stessero le braccia, le gambe, la bocca, un altro per renderti conto che dopo tutto avrebbe potuto anche camminare. Non ne sei stata particolarmente orgogliosa, pure, come ogni volta che qualcosa che deve prendere forma si scontra con il tuo mondo così lento, così dilatato. E che sarà mai?, Perché tutti fanno presto e io no?, Come si fa?. E già: come si fa a dire questa cosa, come si fa a dire il recipiente del mondo, delle forme dell’esistenza, o peggio ancora della fantasia umana? Non sei niente, eppure era questo che avevi nel recipiente della tua testa, niente di nuovo, ma ti piaceva vederci qualcosa di umanamente condivisibile. Qualcuno, tanto tempo fa, ti disse: pensa di doverla comunicare a qualcuno del Burundi. Ora dal quadrato alto del finestrone sotto il tetto la luna inonda la coperta sotto la quale la tua anima lavora per fare, per farsi continuamente, e pensi che quel signore del Burundi non lo raggiungerai mai, e purtuttavia quello che volevi dirgli lo hai detto: guarda, fin da tempi di cui non esiste più memoria, io e te mettiamo insieme le nostre storie nello stesso, identico modo. Ha un senso? Non lo sai ma, come accade per i sogni, il senso non è il punto centrale della questione. Il punto, il senso è il recipiente, e il momento in cui si svuota per poi far posto a quello che lo riempirà dopo, o quello in cui il prima e il dopo vi si trovano mescolati insieme in un impasto che non è più prima né dopo, ma qualcosa d’altro che prima non c’era. Oltre a questo, il resto non ti interessa granché. Quel recipiente di cui hai scelto di parlare è la cosa che più intimamente senti tua, e adesso è lì, nuda, tra una citazione e una nota a piè di pagina, nella forma di quell’odiato corpo quattordici, ormai in-finito anche quello insieme a tutto il resto. Questa fine infinita l’hai parlata, l’hai scritta letteralmente in somnus: insonne, in sogno, cioè nel solo modo e nel solo mondo che conosci per dire e salvare la sostanza di cui è fatto quel noi, del quale tu sei stata nient’altro che un paziente, capiente, ma pur sempre vuoto contenitore.