Non c’erano virgolette, stavolta.
Siamo arrivati in un giorno d’estate, col sole che brucia persino sulle punte delle dita. L’asfalto incrocia i binari e lì finisce: dopo, solo un’immensa piana di campi gialli già falciati, stoppa abbacinante quasi bianca, che pizzica gli occhi. Due ci guardano sul ciglio della massicciata, ci fanno segno: cercate qualcosa?
Indichiamo le colline alla nostra sinistra: di là. Vogliamo andare di là.
E dice uno dei due: allora voi adesso tornate indietro, prendete la sterrata che sale dopo la stazione e ci arrivate.
Grazie, ma veramente noi cerchiamo solamente la ferrovia. La stazione.
La ferrovia.
Essì.
Allora fate così, arrivate a quel casello, lo vedete?, e fatevi caricare dal prossimo macchinista che passa. Diteglielo, però, dove dovete scendere.
Ah, bene. Grazziassai!
Ci allontaniamo nell’aria e nella terra polverosa senza sudare, no, c’è solo la schiena che brucia in questa enorme padella infuocata senza riparo. Mi indica il casello bianco, pare la Grecia – o Sperlonga, dai. Non c’è marciapiede, ci sbracciamo quando passa uno strano merci, una littorina dell’Alifana che traina un rimorchio per il trasporto della legna vuoto, messo così pare un trattore con il carro vuoto che cammina sui binari.
Ci fate montare?, dobbiamo arrivare là.
Ma ci dovete andare con la macchina, giovani, da qua s’arriva solo alla stazione. E indica in basso, sulla piana.
E lo sappiamo, e là che dobbiamo andare.
Ah, e allora perché indicate il paese?
C’avete ragione, è che la stazione e il paese si chiamano tale e quale.
No, veramente la stazione dopo il nome dice scalo. Comunque saglìte.
Grazie.
Attenzione ai piedi, mi dice.
M’abbraccio al palo, nun te preoccupa’.
Il treno attraversa la distesa secca della pianura biancagialla senza fare rumore, senza fare fumo, anche se la littorina sarebbe un diesel. Ma dico, sai che questo posto me lo ricordavo diverso?
Be’, vediamo fin dove ci porta.
Quando le colline si avvicinano non so che succede, cominciano le prime case e spariscono i colori, il paesaggio diventa un rullo in bianco e nero sovraesposto che scorre, scorre, scorre.
Ma le figure si muovono, eh, mi fa lui indicando le persone per le strade e alle finestre.
Ma come siamo vicini alle case, però…
A un certo punto non metto più a fuoco, il treno mi fa scorrere di lato alle cose ma gli oggetti e le facce mi sfuggono, mi sfuggono, mi sfuggono senza più contorni precisi nel bianco della pellicola, finché
Guarda! Guarda lì dentro, c’è un forno.
E’ una vecchia cascina diroccata, senza tetto e senza più infissi, pure lei bianca, di pietra e di farina si direbbe. C’è uno, sulla soglia senza porta, con in mano una pala di legno enorme, grembiule e mani bianche. Alzo la mano per salutarlo e mi torna indietro un sorriso sdentato, con un gesto della mano mi invita a guardare verso il muro esterno con uno sguardo tipo: vuoi?
E ci sono questi pani, in effetti, lunghi e grandi, allineati contro il muro come su una rastrelliera gli attrezzi agricoli, hai presente, e questi pani sono dorati, mostruosamente grandi e dorati, con gli spacchi diagonali della cottura che fanno tutti i pani arrotolati, e il loro è l’unico colore che si vede tutt’intorno.
E mi ricordo, dico, adesso mi ricordo! Fattene dare uno!, gli grido, e lui allunga la mano fuori dal carrello tenendosi ad un palo, e il fornaio con un gesto veloce carica sulla pala un tozzo che tiene lì vicino e glielo allunga a sua volta. Assaggiate, intanto, dice, e il treno è passato, siamo passati noi ed è passato anche lui, che lo vediamo allontanarsi alla deriva coi suoi pezzi dorati e la sua casa bianca. Ci saluta con la mano bianca, pure.
Quando mi volto verso di lui sta già masticando, e mi investe un profumo di cenere e mollica calda, ancora umida di forno.
Passa qua, per favore… com’è?
Mngfwff.
Oh. Questo, lo sai, è il primo ricordo della mia vita.
Pane?
Questo pane. Di crìscito.
E poi ho pianto.