Voce del verbo: (ti) liquido

Il mondo è immenso, immerso, sommerso, deserto, un concerto. Siamo sott’acqua di voci e di odori, dici. Tu i pesci, non si sa come, in qualche mo(n)do li capisci, che odorano l’acqua su cui poggiano e che respirano, lo capisci com’è vivere coi polmoni pieni d’acqua, e il naso e le orecchie, specialmente in quei giorni in cui la luce è calda e l’aria fresca, che nuoti in macchina, a piedi, al mercato, in bici, in biblioteca, sul treno. Ti escono dalla bocca parole, bolle che ti scappano a volte anche dalle mani, ti salgono dentro e poi ti sfuggono fuori e non le puoi riprendere più, alzi gli occhi e sono già in alto che corrono verso una superficie dove non puoi arrivare a meno di un’ordinaria asfissia, del tempo e dello spazio.
E’ tutto cambiato adesso, nuotare prende un mare di energie, a volte le correnti di certe pareti bianche ti trascinano via allo stesso modo di una mappa, e l’impenetrabilità di certe altre ti costringe a studiarle, a tastarle centimetro per centimetro, a capa sotto e ‘e smerzo, finché a un certo punto:

non
me
lo
fai
proprio
piantare
questo
cazzo
di
chiodo
eh
?

Allora nuoti a testa bassa comm’a nu ciuccio ‘nfrustecuto fino ai pastelli, ti arrabbi che ti viene il sangue agli occhi e metti a lavorare la vescica natatoria finché non trovi, feroce, la profondità dove vuoi posare la vista. La prova: non usi più inchiostro ma solo pietra grigia, per scippare la carta, e un pezzo di bianco per correggere il tiro.

E’ tutto diverso, adesso. Tipo che qua (dove?) non è più che xe acqua e tera, acqua e tera. Ma: acqua e fèro, acqua e fèro, acqua che xe fero, fero che xe acqua.

Fèro de binario e de pedale, fèro che xe carne, carne che xe acqua, e acqua che vista da questo fondo di boccia, lassù, in alto dove non ce n’è più, xe – o al manco te par – aria.

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