Quanti eravate?
All’inizio ti sentivi l’essere più solo della terra, come l’ultimo esemplare di una specie. Ogni partenza era un mese di lotta sfiancante, un’inquietudine che ti mordeva le viscere, nel bene e nel male una piccola liberazione. La minuscola epifania mensile di una ventiduenne che litigava, si faceva il sangue amaro – e che altro vuoi fare, a vent’anni? – e per la quale alla fine lo sbuffo di pressione della chiusura delle porte del treno era un mostruoso misto di sollievo e stanchezza.
Macchittelofaffàre?, ti dicevano tutti quanti. E che dovevi rispondere? Non era mica brutto. Se con una persona ci vuoi stare e quella persona non si può muovere da dove sta tu cosa fai, non la vedi mai più? No, scusa, fai il biglietto del treno e vai. Mica si trattava di andare a scava’ ‘e ppatane a mille lire ‘a jurnata, come si dice… e la famiglia? Eh. Bisognava litigare, indurirsi, alla fine scegliere. Stavi crescendo e non lo sapevi. Quello che sapevi era che, anche con quel carattere così molle, se volevi partire non c’era altro modo. Dove li trovavi allora dei genitori (del sud, poi) che a ventidue anni lasciano andare la femminuccia di casa dall’altra parte dell’Italia – del pozzo – solo perché ce vo’ bbene a uno? E quando mai s’è visto? Loro facevano il loro mestiere di genitori strattonando e cercando di accorciare il cordone ombelicale, e tu facevi il tuo di figlia cercando di reciderlo. Solo che allora non era tutto così chiaro. Si litigava e basta, era solo un macomedobbiamofaresennò! contro un no, piccolo, secco senza nemmeno il punto esclamativo.
Non era per quello che si partiva, a quei tempi lì: vacanze, concerti. Il tempo del lavoro doveva ancora venire. E così: chittelofaffare, ne’? Che ne sapevi, del resto, di quello che sarebbe venuto dopo, grazie a quei viaggi? Niente, manco ce lo avevi ancora, un altro motivo oltre quello. Niente, sapevi, di tutta l’Italia che avresti incontrato, delle Voci, del pozzo, e di tutta la gente che viaggiava – pur chiamandolo con un altro nome – per il tuo stesso motivo. Come abbia potuto mai sentirti sola in mezzo a tutta quella carne che si muoveva così, per il pozzo-paese, sfatta da anni di viaggi ma senza alcuna intenzione di smettere tanto che a volte hai pensato questo qui ci finisce i suoi giorni, sul treno – come tu abbia potuto sentirti così, ecco, adesso pare proprio un mistero. Con tutto quello che c’era da fare tra esami e tutto quello che si poteva e doveva fare per mettere insieme i soldi del biglietto una volta al mese e guadagnarsi la possibilità di decidere per sé… dove l’hai trovato anche il tempo di sentirti sola? Eh, no sta preocuparte, putea, i xe i vent’ani, t’hanno detto, sempre sul treno, qualche anno dopo.
Quanti eravamo?, ti chiedevi ogni tanto. C’erano delle volte in cui sembrava di incontrare solo gente spinta a mettersi in cammino da una qualche forma d’amore: per una famiglia, per un luogo, per un lavoro, per una persona chissà dove, per un ammalato, per un morto, per se stessi. In altri momenti, invece, c’erano quelli che se lo dicevano da soli per tutto il viaggio machimmelofaffare, ammé, EH? Arrabbiati, uh, e capaci di distruggere con poche parole anche le storie degli altri intorno. Brutto affare, ‘sti qua, peggio di quelli che straparlano.
Quanti eravate, allora? E non lo sai. Ma tanti che eravate, così stanchi e instancabili, non te l’immaginavi mica. Dopo qualche anno partire era diventato, nonostante tutto, anche una piccola festa. Ormai sapevi la carne sudata che avresti incontrato, e sapevi che in quei vagoni avresti puntualmente ritrovato – chi l’aveva detto? – quella cosa antica che il viaggio era forse per tutti, una volta: O-di-sse-a. Sì, così. Dove l’unica cosa che conta è arrivare a destinazione, ovunque si trovi e per qualsiasi ragione. E, nel frattempo, stringersi intorno a un discorso, uno qualsiasi, e scambiarsi una storia prima di ogni fermata, per far passare il tempo da qui a lì, ché quelle dieci ore erano lunghe…
Quanti eravate? Cinque anni dopo che la tua lunga partenza verso l’altro capo del pozzo era iniziata, avevi preso nota di ogni cosa con quella piccola, feroce e invisibile costanza che ti è propria. Volevi capire, ricordare, non scordare, conservare, scomporre e ricomporre nella memoria questi viaggi che col tempo avevi iniziato a sentire in qualche modo connessi a quell’altra traccia che ti portavi dentro. Era bizzarro: una viene da una famiglia di ferrovia non viaggiante, e come trova la via del suo destino? Saltando dieci, venti, cinquanta, cento volte su un treno. Avresti potuto rendertene conto anche prima, del resto: di otto anni di università da pendolare, non c’era stato un solo giorno in cui la zòzza ferrovia locale su cui facevi la spola cinque, a volte anche sei giorni alla settimana ti fosse venuta in odio.
Il nonno lo avrebbe trovato perfettamente logico. Soltanto per quel quanti… ecco, lì una bella chiantòzza non te l’avrebbe tolta nessuno.
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