Voce del verbo: cancello

La risposta è dall’altro lato del cervello.
La risposta è dall’altra parte del cancello
.

[Simone Cristicchi, La risposta, 2007]

*
[ma anche: Fermata non richiesta (8/?)]

Ventidue settembre, è quasi un mese che ci siamo messi a camminare sui binari del nostro tempo e ancora non ci siamo fermati. Questa volta sono da sola, lui aveva da fare ma oggi è una di quelle giornate in cui l’autunno sta solo sul calendario, mentre intorno c’è aria d’estate vecchia e grassa di mele mature. Quand’ero ragazzina in giornate così il nonno mi trascinava fuori di casa con la forza, se era necessario, e mi portava in quel giardino fasciato stretto in mezzo al ferro di ferrovia che era il centro di gravità del nostro minuscolo mondo, dicendo che in questo mese non puoi mai sapere quando arriverà il primo vento freddo a portarti via le giornate in cui si può star fuori, e quindi approfittarne non è solo una cosa intelligente, ma una specie di dovere. E quindi, così: in macchina, e via verso la prossima stazione.

 Dopo lo svincolo per Campobasso si trova facile facile, è anche segnalato con un cartello "SCALO F.S.", e quando smonto dalla macchina il colpo d’occhio per un momento mi fa credere che forse è ancora in uso. Ma è mai possibile che sia più frequentata di quella del centro più vicino, sperduta com’è? La mappa mi dice che il paese cui si riferisce il suo nome non è proprio a due passi. Chissà.
Passato il cancello d’ingresso – spalancato come tutti i luoghi in cui è il tempo ad averla avuta vinta – il grande spiazzo porta ad un piccolo capannone dalle finestre e porte totalmente distrutte. Dentro un vecchio materasso, un mare di cocci di vetro, assi di legno marce, l’edera che si avvia a prendere possesso di tutto. No, di certo non è più in uso.
Eppure è una stazione fortunata rispetto alle altre che abbiamo incontrato, abbastanza simile a quella dove passava la maggior parte della posta della valle: anche qui quattro treni al giorno, linea gialla appena rifatta, l’altoparlante con la voce registrata che annuncia i treni in transito ancora funzionante. E come le altre stazioni – tutte, fino ad ora – ha due enormi pini neri ai lati che le fanno ombra, uno dei due proprio nel giardinetto alle spalle della pensilina coperta sui cui muri ci sono scritte a matita datate ’92, ’90, giù di lì.
Mi ci siedo, sulla testa ho l’intonaco che si sfalda e cade a pezzi. Accanto a me ronza il pannello elettronico con gli orari e le istruzioni di viaggio, fa sorridere il fatto che il suo lavoro sia quello di ricordare al viaggiatore di obliterare i biglietti alle apposite "macchinette gialle" e insieme segnalare che qui di biglietteria non ce n’è nessuna. E’ strano, è vero, lo deve proprio dire. E’ così: ci vuole il biglietto ma non c’è chi possa dartelo, c’è una voce che dice di stare lontani dalla linea gialla, ma i treni che passano sembrano solo brevi folate di vento. Ad ogni transito, il campanello del passaggio a livello che suona in lontananza. Ci provo anche, a portarmi via qualche suono, ma proprio lì le batterie della macchina fotografica mi mettono davanti ad una  scelta: solo scatti o niente. Meglio così. Va bene, allora, faccio un giro e metto il naso dappertutto sotto il sole che ancora scotta, poi all’improvviso nell’aria cresce un enorme silenzio. Sono quasi le tre, le ombre non sono più senza dimensioni come un mese fa, e tuttavia. Torno verso la pensilina, mi metto ad ascoltare, sto seduta e non mi muovo. Perché all’improvviso ho preso a sentirmi così piccola?

E’ stato tutto ritinteggiato da poco, qui, e così la stazione alla fine sembra nuova nuova solo perché in realtà deve essere stata dichiarata impresenziata da poco… sicuramente da molto meno tempo di quella di Cantalupo. Qualcuno ha avuto l’accortezza di precisare qualcosa a mano su certi sportellini, di non verniciare le sigle che serviranno a quelli che verranno in seguito per la manutenzione, di grattare e pulire la mattonella dell’altitudine,di dare una passata di stucco intorno al caposaldo. Non è ancora dismessa, dunque, ai piani superiori non ci abita più nessuno ma ancora è forte, visibile la cura delle mani che hanno messo tutto a posto prima di andar via. E’ così un bel posto, col bianco delle scritte, degli angoli e delle cornici delle finestre che taglia gli occhi sotto questa luce. E che bel nome che ha. Prima o poi andrò a dare un’occhiata in paese per vedere che faccia ha la gente di un posto con un nome così.
Dritto davanti a me, oltre la recinzione della ferrovia, ci sono alberi stracarichi di frutta, e biancospino che ha messo le bacche e colora di rosso i piedi di questo piccolo paradiso pieno di pere, e mele, e mele, e così tante mele che qualcuno ha addirittura aperto un varco nella recinzione per farne scorta, e chissà quanto tempo fa, lasciandolo probabilmente in eredità a chiunque si trovasse a passare di qui. Cosa che quel qualcuno evidentemente ancora apprezza. E non è un frutteto, ma solo un trionfo della rigogliosa boscaglia selvatica così tipica di queste parti, un cielo verde costellato di nebulose di stelle rosse e pianeti arancioni. Ah, fratello: hai fatto bene, quel varco l’avrei aperto anch’io.
Alle tre meno dieci il campanello del passaggio a livello torna a farsi sentire. Il buffo pannello elettronico segnala al nulla che il prossimo treno farà fermata in stazione. Non me la sento di tornare sotto il sole, capotreno, perdonami e non spaventarti.

Il marciapiede dei transiti è mangiato dal sole e dal tempo, non ha più spigoli ma la linea gialla lo taglia a metà come una riga di trucco troppo evidente su un viso pieno di rughe. La littorina che arriva ha due vagoni è di quelle vecchie, che fa braaaaaaaaam-rrrr-ra-tatatatatatatatatatata rimbombando sui binari vuoti. Il macchinista apre le porte, si affaccia a controllare la coda del treno. Ha il sole in viso, e la sua porta di spalanca di botto proprio davanti alla pensilina sotto la quale siedo: all’inizio non mi vede, poi si fa ombra con la mano sugli occhi e stringe le palpebre per mettermi a fuoco. Alzo la mano e lo saluto, lui fa lo stesso e sorride generosamente di rimando. E’ uno di quegli omoni di ferrovia locale che si riconoscono lontano un chilometro, mi sa di famiglia tanto che sto per dirgli "posso saltare su a fare un giro?", ma poi non lo faccio. Papà glielo avrebbe chiesto senza problemi, credo, ma quanto ho ancora da imparare? Il macchinista, prima di girare la chiave del comando che chiude le porte, mi fa cenno senza parlare: "devi salire, mica?". Rispondo di no, ci salutiamo. Ciao macchinista, alla prossima.

Con l’odore di nafta che la littorina si lascia dietro, all’improvviso mi rendo conto che questo posto sa come quello da cui vengo: le traversine del binario di incrocio e la cornice della passerella tra i binari che si sta sfaldando come cartone sono ancora di legno, quindi oltre al ferro, alla corrente elettrica e al diesel c’era anche quello del castagno di Sardegna catramato e indurito dal sole. Ero all’università quando ho cominciato a sentirmi spaesata in ferrovia, è stato quando le traversine di cemento sono arrivate anche nella mia stazione. Ma allora non lo capivo, sentivo solo che ad ogni grande intervento di manutenzione cambiava qualcosa e io mi sentivo sempre meno a casa. Ci ho messo anni per capirlo, che sul fondo dell’odore della ferrovia c’era questo legno che a un certo punto le stazioni avevano perduto.

Perché continuo a camminare questa ferrovia, perché continuo a venirci, perché mi ostino a voler vedere  e mettere i piedi in questo mondo morto che neanche più somiglia a quello che era?
C’è qualcosa, oltre il cancello di queste stazioni, che è andato perduto, che è stato cancellato dal paesaggio-paese da cui vengo e che sto per lasciare per andare ad abitarne uno nuovo. Mi sa che è questo qualcosa di cancellato dietro il cancello – che sta anche dall’altra parte del cervello, come dice la canzone – che cerco. E che ogni volta lo trovo, puntuale, in ogni stazione a dirmi che sì, ormai posso andare perché di quello che mi tratteneva non è rimasto più molto. Quello che vengo a cercare è il segno tangibile della continuità interrotta tra me e quello che mi stava intorno, gli strappi nella trama della tela in cui sono nata e dentro i quali voglio guardare per poter capire e infine partire serena con la valigia che pesa il giusto, ché qualcosa dovrà essere lasciato indietro. Ecco, questo vengo a fare: a passare cancelli di tempi cancellati, scendo alle fermate che nessuno chiede più e che portano fino all’altra parte del cervello, per sapere cosa portare via con me e cosa no sul treno che mi porterà dall’altra parte del pozzo-paese.

 Questa stazione forse per qualche tempo è stata salvata da quella fabbrica abbandonata laggiù: ghiaia, lavoro, uomini, voci con la polvere nei polmoni. Ma poi anche qui il mondo è andato avanti. All’angolo dell’incrocio che porta qui c’è una croce di quelle che recano gli strumenti della Passione e, ai suoi piedi, spaccata, la targa di marmo che dice che è qui da cinquantasette anni. Mi ci voglio sedere, in mezzo a questo binario di legno, di erba secca, di mele e di fiori, voglio aspettare qui e mi ci voglio disfare. Quando mi rialzerò, così disfatta, dopo la disfatta, sarò forse pronta per andare avanti anch’io.

(continua)

Tag: ,

I Commenti sono chiusi