E andiamo avanti, allora, in tutto questo grande, immenso niente che continua a succedere. Sotto il sole siamo, ancora, solo ombre piatte che si muovono sull’asfalto.
Alla volta della stazione successiva sotto la nostra sagoma a quattro ruote passa qualche chilometro di strada e di ferrovia: superata Bojano, la via ferrata ci passa da sinistra a destra sotto il cavalcavia che attraversa la cittadina e, poco dopo, un segnale con l’indicazione per San Polo Matese con attraversamento di passaggio a livello attira la nostra attenzione. "Di là!", gli indico, e svolto. Neanche trenta metri dopo l’incrocio, una bella costruzione in divisa rosso pompeiano a ridosso dei binari e del passaggio a livello, appunto. Dall’altra parte della strada solo una casa. Poi sterpaglie, un vecchio gabbiotto da casellante quasi inghiottito dall’edera.
– Ma non mi pare una stazione, però.
– Sì, lo vedo, c’è il numero.
– Una cantoniera, penso.
– Facciamo il giro, vediamo se dall’altro lato c’è la scritta della fermata.
Dalle finestre sfondate si intravede al pianterreno quella che doveva essere una cucina, con le mattonelle a fiori gialli piccoli piccoli, la bocca del forno a legna annerita, foglie secche, pietre, mattoni rotti.
– Guarda il muretto.
– E il giardino.
– Vado a vedere se arrivo alla porta.
Mentre siamo tutti e due, scemi, con il naso per aria a cercare le tracce di una scritta sulla facciata, una voce ci spunta alle spalle:
– Guardate che lì dentro ci sono le vipere. Vi consiglierei di non entrare, eh.
Ci voltiamo di scatto tutti e due – e chi l’aveva sentito arrivare, santiddio? – e ci troviamo davanti un signore alto, magro, in canottiera bianca e calzoncini marroni, la pelle lucida e brunita dal sole come cuoio. Ci guarda facendosi scudo dal sole con la mano sopra gli occhi, si vede che è preoccupato di vedere due sconosciuti girare lì intorno. Si giustifica: lui abita di fronte e ci ha fatto servizio, lì dentro, per questo sa che ci sono le vipere. E mi scappa: "ferroviere?", domando. "Sì", dice lui, "casellante qui per ventuno anni". Così dice, scandendo bene ventuno e anni senza legarli insieme. Ah! Il viso di papà si illumina. Quando comincio con le domande (e in che stato è la ferrovia su quella linea, e quando sono state chiuse le stazioni qui e qui e qui) lui nota ancora un po’ di diffidenza sul volto del tizio, e così mi fa un impercettibile occhiolino e mi insegna: guarda. E parte: sono figlio di ferroviere, mio padre casellante a Caserta per quarant’anni, e le stazioni ci piacciono perché. La verità, dice, semplicemente.
E allora, ecco, il signore di cuoio con gli occhi piccoli ci porge la mano, si presenta con nome e cognome, e vuota il sacco: si scusa per aver inventato la balla delle vipere, è solo che ha sempre paura che i vandali vengano a devastare il casello che lui da anni sta cercando di farsi vendere dalla ferrovia, e i due adulti partono a chiacchierare e si intendono a meraviglia parlando di automazione, cambiamenti e dismissioni, e mentre parlano il signore insiste, "entrate a prendere un caffè, lo faccio preparare da mia moglie", e a un tratto faccio caso al fatto che spesso gli scappa qualche parola in inglese, e quando non sappiamo più cosa rispondere lui gli fa:
– Ecco, visto che il caffè lo abbiamo già preso, al limite potremmo approfittare della sua gentilezza per un bicchiere d’acqua?
– Ma ceeeerto, sure, some water, come with me!
Lo seguiamo in casa dentro una tavernetta buia ma molto fresca, dove l’acqua si mescola alle parole e il signore, ormai tranquillizzato, non la smette più di parlare. La diga di diffidenza ha ceduto, il tizio è ormai un fiume in piena. E ci dice che loro sono della provincia di Foggia, che la stazione di Santa Maria è secondo lui chiusa da trent’anni, che il capostazione si chiamava Marsilli, che aveva a sua volta due figlie capostazione che ormai saranno in pensione. Che questo capostazione era amico di Ennio Morricone, e che quando lui (il tizio di cuoio) aveva diciotto anni Morricone era venuto a trovare questi suoi amici con tutta la famiglia. Che poi all’epoca il tizio di cuoio aveva una Aurelia 24 e non sapeva nemmeno chi fosse Ennio Morricone. Comunque lui aveva lavorato in quel casello per ventuno anni, fino al ’91-’92 che avevano soppresso tutte le stazioni ancora in funzione (San Polo Matese era quella a meno di un chilometro più avanti), e suo figlio aveva fatto domanda di acquisizione perché giusto alle spalle ci stava costruendo un bar ma niente, non glielo davano anche se era su tutti i lati circondato dalle sue proprietà ("e che, mi faccio rubare in casa, secondo loro?"). E poi insomma, che peccato che la linea ferroviaria venga lasciata così a marcire sotto il sole, e perché non ammodernano e velocizzano invece di chiudere, con tutte le buone cose che si potrebbero fare per migliorare i trasporti della regione? Eh, eh, EH?
Eh, bella domanda.
Mentre ringraziamo per l’acqua e i signori (la moglie, una donna piccola sulla sessantina, non proferisce verbo per tutto il tempo) ci accompagnano verso l’auto, il tizio di cuoio si lancia in un’ultima, accorata invettiva contro l’Italia e gli italiani per i quali forse, siccome non sono capaci di tenersi niente, "ci vorrebbe una bella dittatura, o no?". Non sapendo come rispondere, sorvolo con una mezza risata accelerando il passo verso mio padre, ma ancora mi insegue il racconto di un lungo viaggio fatto tre anni prima negli Stati Uniti – "Michigan, Tennessee e un sacco di altri, sa, e mi scusi se a volte parlo inglese, lo faccio per cercare di non dimenticarlo" – per andare a guidare la limousine al matrimonio di una coppia di amici. La conversazione termina che ci sta dicendo che prima dei ventuno anni in ferrovia era un imprentitore: "costruivo case… eh, ho toccato tiverse cose nella mia vita, potento tovrebbero farlo tutti".
Appena ripartiti lo sento tirare un sospiro. La stazione che cercavamo spunta improvvisamente dagli alberi a lato della statale e ci sfila via accanto oltre il muro che la rende inaccessibile da questa parte della strada. Cercando un passaggio che ci porti alle sue spalle, superiamo un passaggio a livello nel mezzo di una pianura che si apre in tutte le direzioni fin sotto le pendici del massiccio del Matese. Scendiamo un attimo, papà, vorrei fare una foto. L’aria è calda e secca, e del sole si sente sulla pelle ogni singolo raggio come uno spillo. Chissà come si chiama questo posto, mi chiedo. Ci voltiamo a guardare i binari, ed è scritto lì: su un muro spellato dal tempo, la prima stazione che incontriamo su questa linea che non è esposta a nord, la più piccola che abbia mai visto in vita mia, e la prima che troviamo senza cercarla. Guarda alla grande montagna che ha di fronte, e me la immagino avvicinarsi, ingrandirsi sempre di più sul finestrino del treno fino a occuparlo del tutto poco prima della fermata. Qui c’era gente, qui qualcuno arrivava, e partiva, e arrivava, e partiva. Pochi, forse, ma comunque qualcuno. Chi erano? Si riparavano all’ombra dei grandi pini gemelli piantati anche qui, come in tutte le altre stazioni della linea, nell’attesa? E i custodi? Mettevano anche loro le loro conserve nel casotto dietro il forno in mattoni che c’è lì in mezzo ai rovi, forno e casotto identici a quelli dove la nonna faceva il pane e mi mandava a prendere i buccàcci per il sugo delle feste?
Ma è ora di rientrare anche oggi, alla fine.
[che poi l’avevamo anche trovata, la strada di accesso all’altra stazione. Transennata. Facendo benzina prima di ripartire ci siamo accontentati di guardarla dalla statale, dall’altro lato del muro. Portava i segni del fuoco, come ci aveva anticipato il tizio di cuoio. Vandali, aveva detto. "E’ solo che è… passato", ha detto dopo lui, passando con aria trasognata al posto di guida.]
(continua)