No, veramente è successo proprio niente, alla fine, solo che certi niente ci mettono più tempo di altri, a smettere di succedere. Così è stato per quel niente di ferro, di secco e di rotaia in cui ci siamo trovati impigliati quando a un certo punto i fili del tempo si sono tesi annodandosi tutti nella stessa matassa, e noi ci siamo messi a seguirli. Non che volessimo arrivare da qualche parte, eh. Era solo un fatto di… famiglia. Storia di famiglia, diciamo.
Perché succede così. Ogni volta che trovo una stazione, o un posto che mi sembra avere a che fare con quella sottile doppia linea di ferro, sassi e legno (una volta, mo’ il legno è diventato cemento), torno a prendere lui prima di addentrarmici, specie se è abbandonato. Lui conosce i segni, sa leggere la ferrovia meglio di me, come è giusto: siamo scesi e cresciuti in questo mondo per mezzo della stessa guida, solo che per me è arrivata più tardi e se n’è andata prima, sicché ora tocca a lui continuare per quel che è possibile. Forse persino senza saperlo è lui che adesso tiene insieme per me i frammenti di questo sangue pieno di ruggine che ci ritroviamo, e che senza queste lunghe passeggiate sotto il sole forse non sarei nemmeno in grado di capire.
Del resto sa tutto quel che c’è da sapere, lui, che è cresciuto tra binari ancora più belli e vivi di quelli che sono toccati a me: personale non viaggiante in servizio era lui, mentre io ero a sei anni ero già personale non viaggiante in pensione. Il tempo visto dagli orologi fa un po’ sorridere, certe volte. E lui, poi. Quante cose sa, quante cose ricorda ogni volta soprattutto nelle stazioni abbandonate, che da più tempo sono abbandonate e meglio sa leggerle!
Per l’entusiasmo che gli prende quando gli dico della stazione non riesco a tenerlo nemmeno quel tanto che basterebbe per tornarci a piedi, no, vuole andare subito, subito, si siede al volante che ancora mi sto disinfettando i graffi dei rovi e mi aspetta col motore già acceso. Poi a un certo punto mi dà uno sguardo impaziente dal finestrino e farfuglia qualcosa, mentre lo raggiungo lo vedo scendere in fretta, andare sul retro del cortile e tornarne con due cesoie enormi, con il manico lunghissimo.
– Ma dov… dove le tenevi?
– Di là, eh, mi servono per potare, lo sai che a settembre là dietro dalla montagna scendono dei cespugli che non si capisce più niente…
– Azz’. E mo’?
– E mo’ ci servono.
– Eh?
– Eh.
Quasi tutta la stradina d’accesso, mi fa decespugliare appresso a lui ripetendo continuamente "così, così, fai dall’altra parte la stessa cosa che faccio io di qua, eh, così, a posto, là, là, là". "Così poi ci torniamo più facile, e nessuno si fa male". Ecco. Io pensavo che era pazzo e invece stava solo facendo il suo doppio lavoro di papà e di creatura. E una volta aperta la strada in effetti è tutto più facile, arriviamo persino a poterci portare la macchina. "To’, fino al parcheggio della stazione!", fa. Ride.
Gli mostro il cancelletto di ferro e gli vado dietro, e ancora una volta mi sorprende come cominci a muoversi sicuro come nel cortile di casa, e dopo un poco anch’io con lui. Si guarda intorno, vede cose, ne cerca altre, indovina cosa è questo e cosa è quello, mi spiega gli ingranaggi, le rotelle, i cavi, dà una scotoliàta alla porta di ferro che non si apre, ci resta un po’ male, si rammarica di tanto abbandono. Quante cose ci potrebbero fare su una linea così, pensa ad alta voce, e si vede che nel suo sguardo così assorto il suo mondo gli riappare in filigrana sovrapponendosi a quello su cui cammina, agli odori e ai rumori che sente. Stiamo per tornare verso casa – il pensiero della ‘gnora che ci aspetta con una chiangolètta pe’ ‘mpasta’ sotto il tavolo pronta all’uso è difficile da far passare in secondo piano – quando un tintinnìo familiare ci pietrifica entrambi sul marciapiede.
– Lo aspettiamo?
– E certo.
La stazioncina è in curva, per cui sappiamo che non lo vedremo arrivare fino all’ultimo secondo. Indoviniamo la direzione solo perché il tutùm-tutùm non cresce piano piano da lontano ma si sente d’improvviso, vicino: sappiamo che sotto il monte lì a est c’è una galleria, quindi ci arriverà da sinistra. Senza nemmeno parlarci ci spostiamo insieme un po’ più indietro, dietro la linea gialla che qui non è mai esistita, e un po’ più a destra.
Ed eccola che sbuca, la trenina a due vagoni, e da uno dei suoi occhioni di vetro si vede il macchinista che fa un salto, suona, fì-fì, e noi per tranquillizzarlo alziamo la mano e salutiamo, e facciamo vedere che non siamo scemi e mica ci muoviamo, e allora anche lui alza la mano tutto carico ‘e meraviglia, e sorride, e sparisce in un soffio d’aria calda che sa di nafta e che scuote i cespugli di ginestre pieni di baccelli rinsecchiti dalla siccità. Che poi sembravano morti da centinaia d’anni, ‘sti baccelli, e invece all’improvviso si mettono a fare tac, tac-tac-tac, tac, e – uh! – si aprono in due ali che con un colpo secco fanno schizzare via decine di semini neri in tutte le direzioni.
– Hai visto!
– EH!
– Ecco com’è che arrivano dappertutto!
– ‘zzarola!
– Eh!
– Dopo pranzo torniamo, vero?
– Ci mancherebbe altro.
*
E io, poi, che mi sorprendevo di come questa mappa e queste stazioni fossero riuscite ad arrivare persino fin dentro i sogni. Come avrebbe potuto essere altrimenti?
Ci siamo messi in cammino lungo i binari di quest’estate assetata così, per il puro piacere di farlo, tastando ed esplorando una linea ferroviaria che non esiste più, una ricchezza che cade a pezzi ma ancora visibile tra le pieghe verdi del silenzio che è proprio di queste montagne. Ci muoviamo come ombre – anche se è passato del tempo ancora succede, è ancora estate – con i ricordi di famiglia sotto la superficie di una curiosità che emerge inaspettatamente intatta ogni volta in questo presente progressivo facendoci parlare ad alta voce, bimbi, un figlio e una nipote di ferroviere, tutti presi e compresi dal momento, dalle cose che troviamo in mezzo ai rovi tra una stazione e l’altra. Nell’ultima tappa di questa giornata ci siamo ritrovati a bere un sorso d’acqua metallica da una fontana che sta per essere inghiottita dall’edera, e a sfogliare registri della corrispondenza dei primi anni ’60 induriti dalla polvere, in una stanza dalle porte spalancate e i vetri sfondati che ne aveva il pavimento coperto – sia di registri che di polvere – e nella quale i nomi dei destinatari e quelli dei paesi, letti ad alta voce, sono rimbalzati sulle pareti grigie vibrando leggeri; e infine davanti a un vecchio deposito dal tetto sfondato da decenni di intemperie, seduti con le gambe penzoloni ad ammucchiare le pietruzze della massicciata sopra il paracolpi di un binario morto. "Sediamoci, va’, mi pare il posto adatto per aspettare". A furia di camminare e raccontare, ci siamo ritrovati a diversi chilometri da casa. Quasi buio. La ‘gnora sta venendo a prenderci.
– Vedi, questo lo hanno fatto piantando una traversina dei binari direttamente sul muro.
E mi racconta ancora di come gli uomini della ferrovia avvitavano i binari alle traversine (in due, con una grossa chiave a T alta come un bimbo di sei anni, che giravano A MANO), o come piantavano le puntazze della messa a terra (sempre in due, mazze alla mano, puntavano questi pali alti due metri del terreno a martellate facendo un tintinnìo che spaccava i denti se ci stavi troppo vicino). E poi c’è nel deposito diroccato quello scivolo per scaricare le merci dai vagoni che io senza di lui avrei scambiato per una scala. A terra, tutt’intorno a noi, lo spiazzo tra la stazione e il deposito è disseminato di bulloni, molle per viti che pesano mezzo chilo, tutta roba sostituita in quello che lui pensa essere stato l’ultimo intervento di manutenzione prima che la stazione fosse chiusa e dichiarata impresenziata. Non abbiamo saputo resistere e abbiamo raccolto di tutto. Guardiamo i nostri trofei, le mani sporche di ruggine e terra. A me piace in particolare l’enorme vite che ho deciso di portarmi a casa: penso che ha assicurato un pezzo di binario e una traversina alla terra, e alle vibrazioni che ha sopportato. Ha una filettatura splendida, una spirale che l’ha piantata al suolo tenendo insieme tutto quel che c’era da tenere. E così tutte le altre viti come questa, per migliaia e migliaia di chilometri in questo paese. E prima che il pensiero vada a piantarsi da qualche parte, un clacson che strombazza allegro ci dice che è ora di rientrare.
Come scorre veloce il tempo… due stazioni, ed è già sera.
(continua)
non voglio togliere la poesia, ma ho sempre avuto un debole per la resistenza a fatica 🙂
http://it.wikipedia.org/wiki/Fatica
fra
Anch’io! Solo che non sapevo come si chiamava. 🙂
(maledetta, su quel link dovrò passarci dei giorni per cercare di capirci qualcosa…!)