Emigrante, automunita, aspirante immobile.


Lo vuoi sentire un pezzo veramente ignorante
?

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 Avevate una vita che non era male: treni, libri, sole, voci, musica. Lavoro, e pomeriggi domenicali di caffè e chitarre sul balcone appena l’aria si intiepidiva quel tanto che bastava, in primavera. Una vita di luci e ombre, pacifica, artigianale e a suo modo colorata. Di fame, di sete, e – per stanchezza – sonno alla sera. Vi muovevate con e per affetto, intorno alle ossa la carne c’era e si sentiva, i muscoli erano vivi e il cibo era rustico, il legno solcato e pieno di nodi ma solido.
Su tutto questo eri carta da parato, tu (tu chi? Io?). Circondata di musicanti, falegnami e meccanici nati, persone che aggiustano, occhi che vedono. Da loro hai imparato la tua direzione, da loro cui non somigli in niente, da loro con cui non avevi nulla da spartire a parte il pane, su una tavola rotonda dell’anima in cui vi nutrivate a vicenda di mani, di frequenze, di visioni. Potendo, avresti passato metà del tuo tempo a sostenerli, questi com-pagni, e l’altra metà l’avresti tenuta per te. Ti sarebbe sembrato equo. Avevate questa vita, no, in cui gli spigoli delle regole erano smussati talvolta dal buon senso e non ancora dalla cazzìmma. C’era questa vita, c’era e ora che ne fai scatole si vede, chiunque passa di qua fa: ma allora è vero che te ne vai. Sono cinque anni che te ne vai, in effetti, ma ora di nuovo c’è che se vére.
 C’era questa vita niente male in cui eri carta da parato e ora che te ne stacchi si vede, compare il muro sotto di te, sotto la tua presenza che è stata. Bianco. Lo vedi persino tu stessa, lo strappo, che credevi di essere sempre stata invisibile o poco meno che trasparente. Ma allora c’ero ti dici, e solo ora vedi tutto quello che eri riuscita a stipare in quel foglio di spazio tra te e la parete: non le cinquantatré scatole, no, quelle sono solo il resto di quello che nei pacchi non ci sta perché non ci può stare.

 Queste luci e queste voci, allora, chissà dove finiranno. Quei gesti minimi di loro quando sono lì e sono musica, gli istanti quasi imprendibili in cui i muscoli del collo si allentano, la testa si abbandona e ad occhi chiusi verso il cielo d’un tratto non sono altro che quello che sentono – dentro e fuori dissolti nel suono che loro, artigiani, fanno – e quelle parole che si vedono e non si dicono, quell’andare di concerto in cui si sa dove mettere i piedi per non calpestare i morti, i tuoi e quelli di chi ti sta accanto, ecco, tutte queste cose chissà dove finiranno. E questa vita da parato non ti stava neanche male, anzi, ti calzava come quel vecchio paio di scarpe da ginnastica sformate che ormai ti sembrano uscite dalla fabbrica apposta per i tuoi, di piedi. Così bene, ci stavi, serena e nascosta, ché sapevi sempre dove mettere i piedi per non essere vista: nessuno si ricordava mai ma dove ti ho visto sebbene occasionalmente contribuissi a rendere piacevole un ambiente. Così.

 C’era questa vita e l’hai lasciata. Il Nuovo, inclemente, ti tira fuori da te. Ci andrai a sbattere e ti ricorderai di avere un corpo e un’ombra, e di dover stare attenta a quello che dici e a quello che sei, soprattutto per non fare del male.

Insomma, praticamente da parato mi passi a cummo’.

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