T’ingo la ria D’aria

Cielo bianco, grigio, azzurro e arancione. Che sonno, che nebbia, che foglie, che fili, che trame, che sogni, che segni, che specchi, che allodole, che tetti, che tegole, che tranvate, che tralicci, quanta elettricità, quanti malintesi, quante parole, quanti binari morti. E nuvole, e ruote, e quote, alte e basse, di volo, di pioggia e di neve.

Sull’autobus il finestrino è largo, alto, fa quasi centottanta gradi di paesaggio, gli occhi respirano più che in auto. Quanto in ritardo viaggi rispetto alle parole che ci vorrebbero, che ci vogliono, che senti e che ascolti, ma anche rispetto alle pause, alle autostrade, alle sagome che sfilano sui piani dell’orizzonte? Guardi il vento (eh, guardi) e fai previsioni sulla giornata che neanche un pignarûl per l’anno nuovo, non avverti necessità, guardi un cappellino di velluto marrone che riposa con la visiera che punta verso il cielo, muri senza intonaco, cancelli senza recinzione chiusi e piantati nel mezzo dello spazio di un campo messo a riposo, il ponte ciclabile sul Piave lucido di umidità che scintilla nel sole, intenzioni senza scopi precisi, finestre senza infissi, radici senza suffissi, numeri senza prefisso.
 
C’è questa ragazzetta bionda con il cappuccio del maglione tirato fin sulla fronte che dorme con il viso appoggiato al vetro e le nuvole del Cansiglio sulla testa, lontane. E il cielo verso sud a strappi, a macchie e a veli. E la laguna che xe acqua e tèra, acqua e tèra, acqua e tèra, e acqua e tèra e acqua e tèra e acqua e tèra…

… e da questa laguna di tempo incongruo e pannoso, fatto di aria e di latte, di filologia e cucine, di interlinea a uno e mezzo e vernice per termosifoni, da questo tempo a pezzi dovrà pur venire qualcosa, da questo buco nero che mangia parole dette e scritte, significanti e significati vecchi e nuovi, e odori e colori che disegnano coste di colline e voci amiche, sì, qualcosa, qualcosa dovrà pur venire.

Sei nata vestita. Che il tuo destino sia mica quello di combattere soltanto entro i confini del sogno?

*

Ehi… ma di chi stai parlando?
– Di me, piccere’.
Ah, mi credevo che ce l’avevi co’ mme. Ma quando li aggiusti ‘sti pronomi, ché così non si capisce niente?

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