Voce del verbo: morendo (ma decido io quando e come)

Nascere, vivere, seppellire, morire nello stesso posto. Non usa quasi più.

[Luigi Meneghello, Pomo pero]

*

Ottantaquattro anni, occhi liquidi, una voce calda e gentile dalle o e le e arrotondate quel tanto che basta: la sola cosa, insieme alle mani, che ti portavi dietro dalla terra da cui eri venuta via da ragazza. Mente sempre lucida, carattere duro in passato, mi dicevano, ma quando ti ho incontrata nel fondo delle viscere ho sentito: ecco, stava qua ed era sarda, la nonna dei miei sogni. Però ogni tanto discorrendo tiravi fuori una forza saggia che doveva essere il riflesso del granito che avevi dentro un tempo, solo forse un po’ invecchiato. Ti sei potuta permettere una cirrosi e un cancro al fegato alla tua età e passarli così, con la calma senza patemi di chi sa quel che c’è da sapere – o ce la faccio o non ce la faccio, e quest’è – e nemmeno questo ha avuto ragione di te. Hai deciso tu il momento di andare, solo quando ti sei accorta che la stanchezza che sentivi non riguardava più soltanto il tuo corpo. L’ultima vecchia di una famiglia dispersa come tante del sud, con l’eccezionale particolarità di essere se-re-na. E sì che ne hai viste tu, venuta via dalla grande isola, approdata prima nel ventre della Sirena e infine in quello della Città Eterna… un vecchio delle mie parti avrebbe passato la vita a lamentarsi di queste peregrinazioni incolpandone i figli, e invece ti ho visto passare le consegne con il sorriso sulle labbra, adesso sei tu la vecchia di casa hai detto a tua figlia che cercava di farti capire quanto penoso fosse vederti morire così, non per malattia ma perché semplicemente avevi deciso così. Perché tanto avevi deciso. Stare sulla terra per l’eternità non è mica possibile, no? E no. Ma in realtà stavi dicendo soltanto va bene, basta, per favore, adesso lasciatemi andare in pace, tanto il mio l’ho fatto. Eri lì con noi, eppure già lontana. Parlavi e ti accomiatavi, ci salutavi come da un bastimento in partenza. Quel pomeriggio ti abbiamo fatta ridere col nostro solito teatrino di coppia collaudata, scherzando su questo e su quello, e tu che non ti facevi una grassa risata da un po’ a un certo punto hai detto a tua figlia aaaaah, ma falli smettere, ‘sti due me fanno schiattare, sono fantastici. E a noi, che di benedizioni non ne abbiamo nemmeno mai cercate, è parso che se qualcuno avesse dovuto benedirci avrebbe dovuto farlo con le tue parole e la tua voce. Sono fantastici. Con la sua risata forte che gli fa sparire gli occhi in una coroncina di rughe, che a me sembrano per la verità raggi di luce, hai visto tuo nipote amato e sereno, e alla fine ci siamo salutate. Sapevo che quella era l’ultima volta. Ti ho detto e cercate di stare bene, però, ché m’era uscito così, il desiderio che avevo proprio nella pancia, col voi affettuoso che ho potuto dare a pochissime persone nella mia vita; e non me ne pento, ché se c’è una cosa che ho dovuto imparare a questo mondo è rimanere limpidi di fronte a chi muore. Stare, insomma, in piedi davanti a chi sta nel gerundio del verbo morire. Mi hai guardato da una distanza immensa, e mi hai preso la mano con una stretta senza quasi più forza (non si tiene, niente più la tiene ormai, pensavo) e hai detto solo: andate tranquilli, ragazza.
State bene, ho detto di nuovo, ma già non lo pensavo più con lo stesso significato di prima. Hai sorriso, e sorridendo ci siamo salutate. Era solo due settimane fa. Dall’altroieri non sei più, è andata come hai deciso. Con gli occhi spalancati sul vuoto fino alla fine, cosciente, ostinata e tenace anche in questo con la fibra che ti è propria. Quando mi parlavi del mondo da cui sei venuta sentivo mordermi qualcosa dentro, e mi dispiaceva che la tua ricchezza dovesse andare perduta così, per mancanza di nipoti vicini nello spazio a cui raccontarla, e per quanto io provassi a raccoglierne qualche brandello, ogni volta che potevo, non bastava mai, era sempre poco, troppo poco tempo. In certi momenti avrei dato un braccio per stare dietro i tuoi occhi, nonna – ché dentro di me ti ho sempre chiamata così anche se.

Ora mi torna in mente solo una voce, sempre quella. E come al solito ci sta dentro tutto.

Dice: un disegno c’era, ma impersonale – è stato tracciato migliaia di anni fa, c’entra col fare le famiglie, il sogno è di farle adorne, coi vestiti dei balli che al mattino fanno sgranare gli occhi dei piccoli, un’armonia di cose gioconde e pensieri gentili – la vera realtà è tutt’altra, qui in paese quando dicono pensieri intendono dal più al meno dolori; dolori attivi, fondati sul dover fare le cose, una serie incessante di cose difficili, è stata una specie di guerra privata senza licenze. (…) Il pensiero che la famiglia andrà dispersa genera una fitta di panico che non è bene ricevere, non ha costrutto – più probabilmente si svuoterà del contenuto che aveva, si riempirà di altro.

Ecco. Così. Le nostre lingue madri condividevano questo senso dei pensieri, e tu hai detto non vi date pensiero per me, casomai è un pensiero per me stare qui ormai. E lo hai detto sorridendo.

E quindi ora un sorriso per te, nonna. Stai bene. Con quel senso lì.

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