Fermata non richiesta (3/?)

Oh, vabbuo’, undici anni dopo mo’ che ci penso non è che succede poi chissà cosa.

Succede che il ventiquattro agosto sei lì in giro, verso mezzogiorno, sotto un sole che ti fa i pensieri di lava, vestita come staresti vestita nel chiuso di casa tua quando si muore di caldo, co’ quei pantaloncini corti grigi,  vecchi, larghi, coi buchi di quando quella volta hai preso fogli e stoffa con un punto di spillatrice, e una canottiera gialla colle stelline che in realtà sarebbe un pigiama ma la usi lo stesso perché non ti viene in mente nient’altro di così "fresco" da metterti addosso, tanto che fa caldo. Ci puoi andare tranquillamente in giro così, il ventiquattro agosto, qui, ché tanto non c’è nessuno in giro (a quest’ora chi lavora la terra sta al riparo dal sole, mica è scemo), puoi uscire dalle placche d’asfalto che solitamente delimitano il mondo e attraversare i campi seguando le direzioni che ti pare e andare a vedere tutto quello che ci sta oltre il ciglio delle strade. Pare sempre di attraversare la superficie dello specchio, tanto diverso è lo spazio senza linee da seguire, con le discese e le salite che non c’è niente che ti dice qual è il modo più breve o logico di farle. Ecco, le salite e le discese si fanno. Allora pigli i piedi, li metti dentro un paio di scarpe vecchie – che sono sempre quelle a cui toccano ‘ste passeggiate, e che forse quindi sono quelle che si divertono di più… simpatica, la vecchiaia delle scarpe – e la testa sotto il cappellino da pescatore, e vai. Ti fai la discesa, tutta, giù-giù fino in paese, passi la chiesa, il bar, il vivaio delle trote del ristorante di fronte, la piazzetta, il lavatoio pubblico di pietra che il pianale a quest’ora è della temperatura giusta per friggerci le uova, il laghetto, l’incrocio, il mulino che non c’è più. Finisce l’acqua, qua, e cominciano i campi al di qua della ferrovia. C’avevamo la stazione, noi. Sì, sicuro. Chissà dov’era. Sarà quella casa accanto al passaggio a livello, che mo’ è bianca e ci abitano e pare quasi solo una casa costruita in un posto un po’ strano. L’avrà riscattata qualcuno che ci lavorava.

E che vuoi fare di ventiquattro agosto sotto il sole di quasi mezzogiorno? Qua cominciano i campi, attraversi lo specchio e pieghi a sinistra tagliando per un mare di terra dissodata e secca, secca, secca che si spacca e si sbriciola sotto le suole, ma non affondi proprio perché è secca, secca come la sete che hanno le piante ché qua non ci piove da tre mesi, e cammini facile facile senza fatica, primo perché la terra tiene e secondo perché non c’è nessuno, e dove non c’è nessuno non ti irrigidisci e cammini come meglio ti riesce, e vai leggera anche tu che sei chiàtta, e cammini così liscia e spedita che quasi ti pare di essere appunto una barca e non solo un ingombro. E sì che ne fai di strada, anche se di strade non ce ne sono, e nemmeno sentieri, niente tracce, proprio niente, anzi la traccia la fai tu e ogni tanto ti giri a guardarla, poi alzi gli occhi da terra e fai un giro su te stessa e senti quella cosa che solo qua ti succede, che puoi andare e non ti sparano a pallini in aria come quell’altra volta in quell’altro posto che sta a manco cento chilometri da qua ma è un altro mondo. Qua non hai paura, un po’ perché ti sanno tutti, un po’ perché qua prima di sparare almeno chiedono. Del resto, sei al di qua dello specchio, mo’. E vai. E dove vai? Al ponte di mattoni della ferrovia. Là vuoi andare, a vedere passare qualche treno di quelli che si sentono da lassù, dal balcone di casa, a mezzogiorno e un quarto, e mezza, all’una meno un quarto. Sai a memoria quando passano, hai in testa il tuo orario del treni-che-passano-ma-non-fermano da dieci anni e ogni tanto li vieni a sentire da vicino perché è bello e perché ti dà la stessa pace che ti dava dormire in quella stanza che c’aveva la finestra a tre metri tre dai binari.
 Al ponte, passando per i campi, ci arrivi in… boh, non hai l’orologio ma ci vuole poco. Rimetti piede sulla strada e ti pare di tornare visbile, ma visibile a chi, ché non c’è anima viva in giro? Nemmno gli uccelli si sentono adesso, solo da lontano arriva ogni tanto il miumìu di un qualche gattino. Ti siedi sul ciglio della strada e aspetti, le campane suonano le undici e tre quarti, la pelle frigge, e intorno non c’è nessuno. Tira una brezza calda e secca, manco il mondo fosse sotto il getto di un enorme phon. Che estate. Due giorni fa, di là, in quell’altro punto del pozzo, pioveva, l’erba del giardino era morbida e verde mentre qua è bassa e appiattita, i fili si sono compattati al suolo in un intrico secco che se fai per tirarne un filo viene via una matassa intera, se non si spezza. Solo alle graminacee riesce di alzarsi dal suolo a ciocche, a piccole chiome dove va meglio, per il resto è tutto rovi e acacie, e querce che boccheggiano in una per loro inusuale tinta verde spento, quasi giallo. Secco, tutto secco. Madonna che caldo. Stai seduta sul ciglio della salita che viene da sotto il ponte di mattoni, sul muro che la costeggia. I cardi dovrebbero averci il fiore in questo periodo e invece non ce l’hanno, sono già secchi e ti pungono la schiena. Basta, ti alzi, ja’, si vede che oggi non è cosa.
 Ti alzi in piedi e ti guardi di nuovo in giro, anche se ‘st’angolo di strada lo potresti girare anche senza aprire gli occhi. Alle tue spalle c’è quel piccolo sentierino asfaltato che si perde tra la sterpaglia e che non sei mai andata a vedere dove finisce, e laggiù in fondo quella vecchia casa rossopompeiano abbandonata con le finestre e le porte murate che si vede dalla strada principale. Così tanti anni che ci passi davanti in auto che avevi smesso di vederla. Col sole così a picco, il rosso dei muri si stacca dal verde e dal giallo del paesaggio come un tizzone solitario nella cenere del camino al mattino. Così tanto tempo che ci passi sotto che non le avevi più prestato attenzione: l’ultima volta che avevi pensato qualcosa di quella casa doveva essere stato qualcosa del tipo "mh". E mo’ invece guarda un po’… quanto sembra vicina ai binari vista da qui e non dalla strada.

 Rosso pompeiano. Scema. Non avevi visto abbastanza stazioni per poterla riconoscere, finché l’hai guardata. Solo grandi, quelle che avevi visto tu, mica lo sapevi quanto belle, quanto piccole e quanto rosse potessero essere quelle di certi posti d’Appennino da linea non elettrificata. Sta’ a vedere che.

 Il sentiero è invaso di rovi e sterpi, bassi, che a piegarli con le scarpe si rimedia qualche graffio sui polpacci ma si riesce a passare. Man mano che mi avvicino compaiono sui muri le chiazze dell’intonaco caduto, gli archi di pietra delle finestre che da lontano parevano quadrate, e sul lato sinistro del sentiero, che intanto si avvicina sempre di più alla linea dei binari, emerge da sotto l’intrico dei rametti secchi un muretto basso di mattoni, gli stessi di cui è fatto il parapetto protettivo sopra il ponte, gli stessi del muretto di casa dei nonni, gli stessi della recinzione del giardino dei ferrovieri, gli stessi del muretto che costeggia ancora oggi il primo tratto di Via Ferrarecce. Mi viene da ridere. Che scema, non ci posso credere. Smetto di seguire il sentiero, a un certo punto, e inizio a costeggiare il muretto sgretolato in molti punti, coi mattoni più in alto ormai venuti via. Dopo un poco la sterpaglia si abbassa, e infine si dirada. Mi guardo indietro, avrò fatto poche decine di metri ma ci ho messo un’eternità. No, il campanile batte le dodici e un quarto, davanti a me si apre uno spiazzo asfaltato chissà quanto tempo fa, e la non-casa non sembra più così piccola come dal punto di vista da cui fino ad oggi l’avevo sempre non-guardata, ma adesso non mi frega più. Sulla sinistra, dal muretto che arriva da quella che doveva essere la carrozzabile che portava qui, c’è un bel cancelletto di ferro battuto, tutto ossidato, spalancato, e intrecciato, come a dare il benvenuto, rovi carichi di more, la prime che vedo quest’anno tra l’altro: in giro fino ad ora secco, tutto secco, secche anche le more ridotte a grappoli di pallini neri duri come il cemento. Ma qui no, qui i rami sono spessi e più antipatici di quelli che ho trovato sul sentiero, e quando faccio per passare mi sfregiano le braccia e si agganciano saldamente ai pantaloncini, alla maglietta ai capelli, e mannaggia, e levati, ahia, e mi vuoi far passare, cazzoahiaeLLASCIAMIHODDETTO! E mi lasciano, sì: buchi dappertutto. Un ramo più stronzo degli altri mi lascia persino, senza che me accorga, tutto il suo arsenale sulla fibbia della macchina fotografica come souvenir, ché la prossima volta che la metterò al collo, alla stazione di San Massimo, mi ricorderò nitidamente di questo momento.
Dopo i rovi, però, le ostilità cessano. A destra ho il muro della non-casa, a sinistra un mare di vitalba verde da cui emerge una vecchia rete da paglione arrugginita e a pezzi, e poi altri mattoncini di ferrovia e il profilo di quello che sembra un giardinetto uguale a quello che stava davanti alla casa dei nonni, con quattro aiuole quadrate disposte a crociera e la fontanella al centro. Benedittiddio, è proprio tale e quale. Mi viene da ridere e prendo un respiro, e all’improvviso sento le spalle alleggerirsi del peso del sole che infine svanisce, portato via da una carezza fresca. Alzo gli occhi e mi rendo conto di trovarmi sotto un pino nero enorme, enorme, che impegnata com’ero coi rovi arrivando non lo avevo mica visto. A terra è pieno di pigne e aghi che ha perso forse l’anno prima, ma non li vedo bene e mi tolgo gli occhiali. E vedo… il marciapiede… i binari… la massicciata… un altro pino nero, gemello di questo, dall’altra parte della… non-casa… che da quest’altro lato… ha un caposaldo al muro… una mattonella di pietra che segnala l’altitudine… e le porte, ci sono da questo lato, non le finestre. Ci sono tegole rotte dappertutto, cadute dal tetto, forse. Alzo gli occhi verso l’alto, allora, e la vedo

  .   A   IA  D L     S

Stava qua da sempre, ma l’avevo persa solo perché la non-guardavo più. L’avevo spinta oltre il confine della coda dell’occhio, e non l’avevo vista più. Del resto dalla strada non ci passavo davanti, ma dietro. Qui è davanti, e qui dalla strada non si vede, e non si vede nemmeno quanto è vicina ai binari. Da un altro punto forse anche sì, ma da là la stazione non si vede.

Insomma, la stazione. Con le porte come quelle delle case, tutte murate tranne una che è di ferro ed è chiusa. E due piccole aiuole in pietra all’ingresso centrale, una presa in usucapione da un sorbo degli uccellatori, e l’altra nella quale sembra sopravvivere l’originario inquilino.

C’era gente, qui, che andava e veniva. Mi siedo sul marciapiede, mi tolgo le scarpe, allungo le gambe e appoggio i talloni sui binari. Scottano. Aspetto che il treno passi, come al solito, ma stavolta è diverso. Lo aspetto in una stazione. In una fermata, non più richiesta.

Che estate. Di secco, di silenzio, di ferro e di rotaia.

No, veramente non è successo niente, alla fine. Undici anni dopo la prima volta che gliene parlano, uno ritrova una stazione. Certe volte non ci vuole proprio niente a pensare: che avventura.

(continua)

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