Voce del verbo : domanda

Sono due, tra gli scaffali della libreria. Chiacchierano serene, di questo e di quest’altro autore, di questa e quell’altra storia. Si vede che si conoscono, si leggono, si ascoltano. Sfogliano volumi qua e là, raccontano ricordi pescati con l’amo di un titolo, di una copertina familiare.

– Oh, guarda qui chi c’è!
– Cosa!
– Questo!
– Di chi è?
– Uno svedese…
– Mai sentito. E il libro com’è?
– Molto molto bello, secondo me.
– Vale?
– Uh, sì. Bello assai, anche se doloroso. L’ho letto nel momento più brutto della mia vita, e m’ha persino dato una mano a superarlo.
– Oh.
– Eh.
– …
– …

All’improvviso c’è un silenzio tosto come una gomitata. Lei smette di parlare, finge di leggere il risvolto di copertina. L’altra prende un’espressione imbarazzata e preoccupata. Non si conoscono così bene, forse. La gomitata non è il silenzio, no, è una domanda. Semplice e limpida, la si vede scivolare via nel timore di essere inopportuna, o spinta via da un paura ancora più blanda, più vuota, non si sa.

Cosa ti stava succedendo quando hai letto questo libro, ragazza?

C’è, si vede, avrebbe voluto fargliela ma è già troppo tardi, troppo invadente, forse non è il caso. Lei che le aveva lanciato l’appiglio pure attende, e attende. Aspetta la domanda e non riesce ad alzare gli occhi verso l’amica. Racconterebbe volentieri, in poche frasi che forse aprirebbero la strada a parole, storie, fiducie future, ma adesso la domanda nel silenzio ha risuonato fino a farsi eco, e adesso che si spegne lei già teme di aver detto una sciocchezza e non più di aver lanciato un segnale.

Le parole forse non erano quelle giuste?
Troppo teatrale?
Forse non mi crede.
Starà pensando che voglio deprimerla.

I pensieri si vedono passare sulla faccia che le si arriccia di preoccupazione nel silenzio che continua, breve e insostenibile, e a un certo punto pare persino che: accidenti, farei meglio a non accennare più con nessuno, mai, a quel periodo, ché la reazione tanto è sempre la stessa. Se l’altra la guardasse lo vedrebbe anche lei. Poi i lineamenti le si piegano d’un colpo verso il basso: gli angoli degli occhi, delle labbra e delle sopracciglia, anche le guance sembrano cedere al rimorso di aver parlato a sproposito. Si sente in colpa, così tanto che decide di sollevare l’amica dall’ingombro della domanda e di provare a spezzare il silenzio. Ha gli occhi lucidi.

‘nsomma, è bello, per me andrebbe letto.
Oh, allora appena ho tempo me lo prendo.
Che facciamo, mo’? Ci andiamo a pigliare un caffè?
Essì, dai, ci allunghiamo alla Veneziana.

Il libro torna sullo scaffale e sul ripiano resta incastrato anche il silenzio che dentro c’aveva la domanda che dentro c’aveva qualcosa d’altro che non si sa cos’era ma c’era. Loro si allontanano, io vado alla mensola e lo prendo, ancora tiepido della mano dalle dita sottili che l’ha appena lasciato. Doveva essere una domanda semplice semplice, di quelle col verbo dentro. Avrebbe dovuto essere.

Cos’è successo quella volta?
Perché fai così?
Mi racconti?

Dove vanno a finire, ogni volta, quando qualcosa impedisce loro di essere fatte?
Me la leggo anch’io, quella quarta di copertina che – guarda caso – già conosco, e al secondo rigo sto già pensando ad altro. Avrei potuto essere io. Mi torna in mente quel venerdì d’estate su in montagna – lontana lontana, la montagna – che si mangiava su tavoli di legno, al sole, in compagnia di altri tranquilli esseri umani che passavano di là. Sulla panca di fronte alla nostra stava seduta una famiglia – mamma, papà e due bimbi di cinque-sei-sette-otto anni: il più grande, maglietta azzurra, con la manica sinistra che gli pendeva vuota dalla piccola spalla. Intorno era tutto un distogliere sguardi e brevi sorrisi nervosi di chi li guardava giocare sotto il tavolo. Finché il vecchio che aiutava in cucina non venne a sparecchiare, lo vide, sgranò gli occhi e, intenerito e meravigliato, domandò:  "Ehi! E tu, piccolo? Cosa t’è successo?".
Così.
Il tavolo trattenne il respiro solo per un momento, ché la risposta arrivò subito, secca, semplice come la domanda:

Da piccolo sono finito col braccio nel tritacarne.

Occhi sgranati. "Nella macelleria dei nonni", precisò il papà verso il quale quegli occhi si alzarono tutti insieme. La cortina d’indifferenza era svanita, d’un colpo. Qualcuno chiese l’età del piccolo, qualcun altro si lasciò scappare un oh! di tenerezza, una mamma tirò su col naso, commossa ma con contegno, qualcun altro disse qualche altra cosa e così via, le parole si rimisero in circolo, i bimbi tornarono a giocare e i sorrisi intorno non erano più stirati come prima. A fine pranzo il vecchio portò il dolce a tutto il tavolo, anche a chi non lo aveva chiesto, poi andò a prendere una birra per sé e venne a sedersi con noi tutti, e le parole andarono avanti per un bel pezzo.

Ecco. Fatta la domanda, fatte le parole. Così parrebbe, almeno in certi strati della vita.

Ripongo il libro e faccio per andarmene, poi ci ripenso, torno indietro e sfilo dallo scaffale non quello, ma il libro che occupa il posto immediatamente successivo. Mentre pago mi viene in mente l’amica che, quando mi chiama di sabato pomeriggio, mi coglie spesso con le mani impegnate a fare più o meno sempre la stessa cosa. E dato che è una cosa in cui metto impegno e cura e che a dirla, dopo tanti episodi, mi viene da aspettarmi dagli altri soltanto una sola reazione, al suo innocente "che stai facendo di bello?" rispondo di solito sorvolando e rimandando gentilmente la conversazione a più tardi. E penso forse non dovrei, ecco, perché così le chiudo in faccia la porta su un angolo di vita che non conosce e che forse potrebbe servirle per capire meglio anche me. Del resto la domanda è appunto di quelle semplici, col verbo dentro, di quelle che insomma bisognerebbe sempre onorare. Allora penso che la prossima volta le rispondo la verità e glielo dico, quando mi chiama di sabato pomeriggio, che sto affettando una zìzza di vacca intera per delle bestie malandate e affamate che mangiano una sola volta alla settimana. E che lo faccio anche con un certo rispetto perché a casa di mia madre, quando lei era ragazza, quello fatto con la mammella era il sugo buono, quello della domenica.

Ecco, è qui che vanno a finire – o dove andrebbero se venissero fatte – le domande col verbo dentro? Nel nulla, dentro un tritacarne prima e dentro una fetta di dolce fatto in casa poi, o dentro un pezzo di interiora vaccine?

Chi lo sa dove, ogni volta.

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7 Commenti a “Voce del verbo : domanda”

  1. molto_docile ha detto:

    viene in mente Parsifal che è una bestia e non si decide mai a fare quella benedetta domanda…

    La domanda però non va fatta per compiacenza o per il puro gusto di sapere i fatti degli altri. La conoscenza implica responsabilità, se non si è pronti ad aiutare è inutile millantare. E forse è meglio tacere.

  2. keroppa ha detto:

    Vero. Come la ragazza che taciuto la domanda, e forse ha fatto bene. Quel che qua fa paura è il vuoto gratuito, che resta quando il desiderio di raggiungere ed essere raggiunti, o quello di capire e capirsi, viene vinto da qualcosa che somiglia proprio alla bestialità giovanile di Parsifal. Con la devastazione del regno (delle parole, in questo caso) che ne consegue.

    [mi hai dato una bella parola da ruminare. Si può dire grazie?]

  3. macca ha detto:

    Bello.

    Molto.

    Se ne parla a voce?

    Daniele

  4. keroppa ha detto:

    Conferenza cum grappa? 😉

  5. macca ha detto:

    Senz’altro.

    Resentìn libero.

    Daniele

  6. Sodoma ha detto:

    letto tutto d’un fiato… favoloso!

  7. utente anonimo ha detto:

    ragazza sei ecceziunale lo sai!?

    mi commuovo sempre a sentirti, sì perchè non ti leggo ma ti ascolto anche se non conosco il suono della tua voce…non serve…me lo porto dentro…abbraccio a presto A

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