Fermata non richiesta (2/?)

… subodoro un padre impiegato nelle ferrovie borboniche.
Eh, spiace ma si sbaglia.

*

E’ stata una delle prime cose che mi avevano detto – undici, quasi dodici anni fa – di questo posto: eh, ma noi ci avevamo anche la stazione. E si capiva bene perché, anche se a sedici anni non avevo visto ancora abbastanza stazioni per capire a fondo questo dettaglio che ogni vecchio, a chiedere in giro qualcosa di qui e della gente che ci abita, non mancava mai di infilare nel groviglio che gli saltava fuori dalla memoria. In genere arrivava dopo la storia di una famiglia, dopo l’elenco dei nomi e dei mestieri di tutti quelli che riuscivano a ricordare, e dopo l’e poi se ne sono andati di rito distribuito in lassi di tempo che nel ricordo misuravano a ondate lunghe decenni: prima dopo la guerra, poi di nuovo negli anni sessanta, settanta, la mazzata finale negli ottanta. Comm’e ‘na marea, disse una volta un contadino reduce da una guerra contro un cancro in cui ci aveva lasciato lo stomaco. Se ne so’ juti tutti quanti… eh, ma c’avevano la stazione, una volta, che mi credevo.
Ma le mie stazioni erano poche, troppo poche. Caserta, Cassino, Roma, Milano. Basta. Le più lontane erano i rami dispersi della famiglia. Caserta era un fatto a parte, era casa. Solo Cassino, dove il nonno mi portava ogni tanto a far la spesa al mercato di casa sua, invece che di sonno spezzato, acqua stantìa e saluti che mi parevano sempre troppo lunghi, solo Cassino sapeva di buono, di ciambelle all’anice e di voci che non sempre capivo. E comunque erano davvero troppo poche per capire cosa intendessero dire realmente ‘sti vecchi.  E’ che la ferrovia che conoscevo io, allora, non era ancora quella dei viaggi. Sono nipote di ferroviere, mica  figlia. Quell’altra ferrovia sarebbe arrivata più avanti, con la maggiore età, il diploma, eventualmente con l’università, e così era un po’ per tutti i ragazzi (ma soprattutto per le ragazze) delle mie parti. La ferrovia che conoscevo io era proprio un’altra cosa.

 Aveva i piedi a terra, ecco. E poi sui treni non ci si stava sopra, ma affianco, annant’, arèto, più spesso asott’. E quando passavano, bisognava stare anche più fermi del solito: va’ sott’ ‘o muro!, nun te mòvere!, pianta i piedi!, accort’ ‘o risucchio!, queste le parole di quando si stava in mezzo ai binari e sui cavi si sentiva il sibilo metallico della corrente del treno in arrivo.
Personale non viaggiante, ci chiamavamo. E dico noi anche se il mio nome, nell’organico del compartimento ferroviario di Napoli e Campania, non c’è mai stato. Ma è da lì che vengo, ero lì, da zero a diciannove anni. Ero lì, in un odore perenne di ferro, ruggine e ghiaia di massicciata su cui cuocevano l’erba, i rovi e le lucertole d’estate e dove andavamo a togliere le zoccole morte d’inverno. Da novembre in poi tengono cchiù famme e se fanno cchiù fésse, dicevano su al casello. Era una ferrovia tutta spostata, qua, dove sui binari si stava e non si andava, dove i treni passavano e non si prendevano, anche se il suo centro di gravità era uguale a quello di chi stava sui treni.

– Dove va questo?
A Napoli.
– E questo?
A Salerno.
– E quello là?
Foggia.
– E quello delle dodici e dieci?
Benevento.
– E quello dopo?
Napoli.
– Di nuovo?
.
– E mo’?
C’è quello pe’ Roma.

E sopra c’erano un sacco di persone. Ma tante, proprio. Le vedevo dal salotto da casa dei nonni, mi sfilavano a pochi metri dalla faccia ché il loro finestrino era alto esattamente quanto la finestra da cui stavo affacciata… le salutavo, qualche volta, e poi cacciavo la faccia dietro la tenda se incrociavo il loro sguardo. E a volte il tizio in cabina salutava il nonno al casello con la mano o suonando un fischio. E sui treni c’era la posta, anche, che quando andavamo al deposito capitavamo talvolta nei momenti in cui la smistavano. Un sacco su questo treno, tre su quell’altro, e le raccomandate, e pacchi e fogli di elenchi fitti fitti da tutte le parti. Dal primo binario spesso si vedeva scendere dalla carrozza di testa qualcuno che arrivava di corsa alla porta del deposito postale: c’è posta per me?, diceva sbrigativo a voce alta, e quelli no, oppure , e gli posavano davanti ‘sti sacchi marroni con una striscia colorata lungo il fianco e cose scritte sopra, a volte pieni e a volte sgonfi, che sapevano di secco, stoffa e polvere. Juta, avrei imparato dopo. Che a me poi sembrava strano perché quando mia madre chiedeva al postino se c’era posta per noi le davano una, due, o quando erano tante al massimo tre buste. A questi invece sacchi interi. Me li immaginavo con un esercito di parenti lontani e infinite bollette da pagare, poveri.

Per cui ecco, quando i vecchi di qui chiudevano il discorso con eh, ma noi c’avevamo la stazione, quello che capivo era: persone, ferro, posta. Come a casa mia, qui c’era del ferro caldo come quello dove ci andavamo a sedere un po’ dopo che era passato il treno io e mio fratello, per scaldarci le chiappe e le mani quanto stavamo fuori a giocare in autunno e da sopra le colline iniziavano a scendere a sorpresa i primi venti freddi. Era una porta, da cui passavano questi odori, queste cose che erano parole, e queste parole che erano cose. ‘A ggente, ‘o ffierro, ‘e llettere, parole piene che cominciavano con una doppia. Si vede che erano cose che per portarle ci voleva un treno, o su cui i treni potessero andare.
Quello che non capivo, però, era che quella porta dava su un corridoio lunghissimo sul quale si affacciavano a loro volta altre porte, un numero di porte tale che non avrei saputo immaginarlo. Almeno non ancora. Non mi era proprio chiarissimo allora il senso del verbo andare se il soggetto era un treno, i nomi delle destinazioni che sentivo tutti i giorni, per quando familiari, non differivano poi tanto dal Kilimangiaro dello zio d’Africa.
 E quindi questi vecchi di Molise mi piacevano, e d’istinto mi veniva da pensare che sarebbero piaciuti anche al nonno se avesse avuto il tempo di venire a conoscerli. Si sono mancati per pochi mesi, lui e queste facce che non dimenticano di aver avuto una fermata del treno sotto casa. La stazione. Per chi restava a terra e il treno non lo prendeva averci la stazione doveva essere come sapere di essere nel mondo, uniti, collegati a qualcosa d’altro, essere un punto segnato sulle mappe, per quanto piccolo. Ci siamo, siamo qui, e qui ci arriva la posta e ci arrivano le persone, anche se poi alla fine se ne sono andati tutti. Aje ritt’ liévete ‘a lloc’, dicono.

– E dove stava?
Abbàscio… giù, a’a via r’a statale…

Parlavano al passato, loro, e quindi anch’io. C’era, non c’è più. Così sembrava. A volte ci pensavo, scendendo a piedi dal paese fino ai binari a fondovalle mi guardavo intorno e mi domandavo dove si potesse trovare esattamente. L’avranno demolita, conclusi alla fine, oppure è quella casa dietro gli alberi che sta accanto al passaggio a livello e chi ci lavorava ha fatto domanda, l’ha riscattata e adesso ci abita. Ma che posizione strana, però, parrebbe più una cantoniera. E a un certo punto non ci abbiamo pensato più. E poi undici anni dopo, un giorno.

(continua)

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