Mi sembra che mi parli della luna.
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Sì, è vero. Quando mi capita di discorrerne – più spesso con te, di recente, ma mi succede quasi tutte le volte che ne parlo con qualcuno di altr’ove – ho anch’io la stessa sensazione. Lo sento nel momento stesso in cui lo sto dicendo, quanto lontano e diverso è quello che ti racconto rispetto a quello che puoi aver vissuto, visto, conosciuto tu, nella tua vita. Tu che sei tu, ma a volte insieme a lei mi diventi l’Altro – per eccellenza più che per antonomasia – cui tentare di spiegare, rendere accessibile o quanto meno comprensibile la luna su cui sono nata. Per questo stesso motivo, quando troviamo un punto di contatto dentro una una stazione abbandonata, un pagliòne, una s’cinca, nell’averci ‘ncora posto pa’ i vostri pugnài… per questo stesso motivo, dico, quando troviamo una qualsiasi cosa, pur microscopica, che ci dice che la vita è diversa ma in qualche modo si somiglia anche tra punti tanto lontani della mappa, be’… la meraviglia è sempre grande. Non è stupore, no, ma meraviglia sì. Ed è una meraviglia che sa essere faticosa, anche, e quanta più fatica richiede tanto più generosa sa essere di godimenti, di rimando. Italiani, contadini smemorati, avevamo affettuosamente riso quella volta.
Ma è anche un problema difficile, per me. Devo dirlo e ammetterlo, perché mi costringe a dire io: se parlo di questo, se voglio parlarti di questo, non posso darmi del tu, perché devo darlo già a te e soprattutto perché sarebbe vile. Se ti parlo di lei, non posso usare un altro pronome. Devo tornare dentro io, anche se sono ingrassata dall’ultima volta che l’ho usato e adesso stringe, mamma mia quanto stringe, sega i gomiti, le spalle, le ginocchia, la pancia, e fa respirare corto. Devo solo sperare che il tessuto di cui è fatto ceda un po’, con il tempo, e intanto provare a muovermici dentro. Un po’ alla volta, forse.
Ma comunque, dicevamo: la luna.
Ti stavo parlando di una domenica pomeriggio d’estate come tante altre, in effetti, ti facevo vedere i posti in cui eravamo stati, si parlava di terremoti – quello della terra mia e tua – di abbandono, di ortiche, di cenere, di tafani, del silenzio che con il tempo si prende le cose e le persone che c’erano, e tuttavia non sono andate via. Di profumo di paglia e di menta, anche, incidentalmente. E ti chiedevo e da te com’è stato?. Per non perdere il filo del discorso, come altre volte, mi stavo persino dimenticando di andare a dormire. La meraviglia potrà anche essere faticosa, eppure continuare a fare di questi scherzi: ti raccontavo della luna, sì, e infatti a un certo punto hai detto ma sai che una stazione abbandonata anch’io? Ah!
E’ successo che in treno, giorni fa, ho fatto un sogno. Tiravo la corda di un pozzo, una corda spessa quanto il mio avambraccio e intorno alla quale non riuscivo nemmeno a chiudere le mani. Tiravo, ma non si muoveva niente, quel che c’era all’altro capo era troppo pesante. Poi, una voce dietro di me: era lui, che non vedo da tanto tempo, l’amico del minimo, dell’infimo e del particolare, come gli piaceva dire allora, che aveva amato farsi raccontare – per anni! – questa terra che non avrebbe avuto modo di conoscere altrimenti. Ha ripetuto una cosa che ha detto una volta, e poi mi ha aiutato a tirare. "Cosa stiamo tirando su, Ma’?", gli ho chiesto. "E’ il paese!", ha detto. "Eh? Ma cosa è il paese?". "Il pozzo! E tira!". "Ma’, ma sei impazzito?". "Eh! Scema, ma tu non sei di giù?". "Ma…", "e secondo te che significa? Tira!". "Ma pesa come la luna, diosanto…". "Embe’, è la luna!". "Ma che staje a ddìcere?", "eh, ma quanto parli! E tira!". E ho tirato. Così tanto che lo sforzo mi ha svegliata. Ero sudata, i muscoli tutti contratti, dalla faccia ai piedi, il Perlesvaus stretto tra le mani, schiacciato sulla pancia. Mi ero addormentata studiando, ché Lancelot si era appena calato nelle cisterne sotto il castello della Prova. Accidenti.
Due giorni dopo ero altrove, in un altro dove, altr’ove. Giù. A sud dove, dopo la generosa pioggia di su, avevo trovato l’estate mediterranea di Dino Campana, vasta, ardente, notturna, assetata. Ma una notte mi sono ritrovata davanti allo stesso pozzo. E siete arrivate voi, che pure mi avete aiutato a tirare. Pioveva, anche. Vi ho detto allora di aver sognato che questo paese è un pozzo. Voi avete sorriso e avete detto "bella scoperta… noi di su, tu di giù…". "Ah. E come si fa, allora, scusate?". "Come abbiamo fatto fin’ora, no?". Ho fatto una faccia che non so, comunque si doveva vedere che non avevo capito perché avete poi detto, insieme: "con la corda!". E poi hai aggiunto: "bisogna attaccarla al treno, ora che parti, però". "Perché?". "Perché così la tiriamo su senza farci male, forse". "Ma sono ottocento chilometri!". "Eh, va ben, ce la facciamo. Basta che non dimentichi il quaderno a casa". Accidenti di nuovo, stavolta alle urla dei pavoni del vicino: voi e il pozzo siete rimaste lì, insieme a quel che c’era sul fondo, e io mi sono svegliata.
Da allora, quel pozzo non mi lascia. Oppure sono io che sono rimasta lì anche se mi sono svegliata, non lo so. Guardavo una mappa l’altro giorno e ancora ci pensavo: un pozzo, forse, e non uno stivale? La sensazione, in effetti, talvolta è quella di venire dal fondo, dal profondo. Dalla luna. Poi leggo da lui uno sguardo da una finestra aperta a Sud, sui certi boschi dal nome famoso che ha scoperto essere una grande foresta, e non il massiccio brullo ed arido che ci hanno fatto credere in anni e anni di telegiornali, e in questa meraviglia mi pare emerga in trasparenza qualcosa di essenziale. E allora si vede che la luna c’è. Esiste. E anzi, non è una sola, ma tante. Io stessa, prima di metterci piede, cosa sapevo di quello che c’era qui, quassù?
In quelle due sere, per esempio, che intorno a un tavolo si condividevano cose, memorie grandi e piccole, associazioni d’idee e parole a casaccio che costruivano piccoli mondi condivisi… ero lì che ascoltavo, bevevo le vostre come frammenti di un mondo mai visto mentre dietro gli occhi si mettevano accanto ai frammenti del mondo mio, fatto di ferro e storie vecchie (non antiche, soltanto vecchie) e abbandono, e prevaricazione e monnezza, e pensavo: mi muovo non fra due regioni, ma tra mondi diversi. Quando mi trovo nell’uno puntualmente l’altro mi sembra, negli occhi di chi mi sta di fronte, così lontano da provare una qualche difficoltà nel pensarli all’interno di uno stesso confine. Eppure ci stanno e che meraviglia è anche questo, ché si incontrano in così tanti punti se uno sovrappone le mappe. Insomma, questa striscia di terra lunga lunga, distesa, anzi, no, profonda sul mare… come funziona? Così il sogno: è un pozzo. Se è un pozzo io sono nata a tre quarti, non proprio sul fondo ma comunque lontana dall’orlo, e vado su e giù con questa corda di binari, faccio la spola tra le lune di sopra e quelle di sotto, forse. E da ogni capo della corda trovo occhi che ignorano cosa c’è dall’altro lato. Se è un pozzo, forse ha due uscite da cui passano bagliori, voci confuse, poco altro. Nessuno di sopra sembra voler sapere quello che c’è lì sotto, quelli di laggiù non domandano mai cosa c’è lassù. In genere, ci si accontenta di qualche cartolina catodica sbiadita, e a chi viaggia lungo la corda resta solo una meraviglia che non si spegne mai, e quella voglia di raccontare e ascoltare prima o poi sempre spezzate da uno sguardo che si volge altrove, da un ma comunque che cambia argomento. Perché succede questo? E perché si deve tirare, perché si deve viaggiarla, quella corda? Perché non sappiamo cosa succede in questo pozzo che ci ospita, dal fondo all’orlo? E il punto qual è? La corda? La luna?
Penso al mio minuscolo caso, allora. Alla biciclettina di lassù, e alle stazioni e ai paesi abbandonati dove si cammina tra cenere e mosche di laggiù. E alle voci per le quali dire di questa e quell’altra parte non è inutile, ché non è una questione di utilità ma di memoria, e la memoria è una cosa che non è mai solo mia o tua o sua – come la terra. C’è, esiste, e di qualunque memoria si tratti dice qualcosa che non parla solo di chi la sta dicendo. E non c’è bisogno di spogliarla, non c’è bisogno di privarla dei suoi toponimi per renderla condivisibile, anche se si tratta della Luna. Non è quello il punto.
Per cui ecco, sì, spesso mi sorprendo a parlare della luna e a sentirla luna, la terra di cui ti sto raccontando, nel momento stesso in cui te la dico, e in quel preciso istante spesso mi faccio una domanda: perché devo sapere tutte queste cose? Perché devo sapere i solai sfondati delle case distrutte dai terremoti, e come camminarci dentro senza creare pericolo e per andarmici a nascondere ancora, ancora e ancora? Perché tra le tracce di quelli che sono stati mi sento a volte più al sicuro che in mezzo a quelle delle persone che si vedono e si toccano? Perché devo conoscere l’odore del ferro di ferrovia e saper dire quando il treno sta per arrivare dal rumore che fa l’elettricità nel cavi dell’alta tensione, perché devo sapere l’intonaco a pezzi, le finestre murate, i cancelli arrugginiti e spalancati dai rovi, perché devo sapere come si aprono i baccelli dei semi delle ginestre? Perché, quando altrove i ragazzi della mia età erano impegnati a studiare la Storia, per esempio, io ero impegnata con quest’altra storia senza la dignità dell’iniziale capitale che se non c’era mio nonno ad aiutarmi a unire i puntini con l’altra mentre raccoglievamo i puparuliélli verdi mica mi rendevo conto, io, di quanto poteva essere importante?
Mi hanno detto una volta: ti porti dietro tutt’un bagaglio di cose che non servono a niente. E io, che già di mio barcollo facile anche quando non ricevo spinte, allora ho pensato: ommadonna, che figura ‘e mmerda. E ho smesso di parlarne fuori, semplicemente, sebbene quel bagaglio per me fosse la sola cosa di cui valesse la pena parlare. Anche se bagaglio fa peso. Anche se c’era stato qualcuno a cui quel bagaglio era parso un… pozzo di meraviglie. Le ironie della vita, eh, specie quando poi capita di incrociare, ad anni di distanza, altre voci che fanno dimmi, dimmi proprio quando sembrava che finalmente se ne fosse andata via, quell’inutile abitudine a dire – soprattutto intorno a un tavolo – che mi aveva passato il nonno. Il che è un’altra bizzarra ironia della vita: fuori da quello che in famiglia chiamavamo ‘u ciardìno di lui si diceva è gentile, ma nun parla maje. Roba vecchia, insomma. Vecchia e dimenticata come gli anziani di questo tempo senza memoria. Tanto che poi dopo, riguardando alla trama di eventi e pensieri che si stavano tessendo nel tempo, m’è venuto da pensare: e come si dice, mo’, ‘sto sogno della luna nel pozzo? Si dice che se lo dici non ti credono perché è inutile. Non credono che hai sognato ma si sognano che te lo sei inventato.
[oh, per lo meno vuol dire che sogniamo tutti insieme, il che alla fine se ci pensi non è poi tanto male…]
E dunque va da sé che uno cresce e si arrovella sulla necessità o meno di dire le cose, e che senso c’ha, che io ti dico questa cosa, questa pianta, questa persona, queste parole e il mondo che c’è dentro? Ultimamente tentavo, tornavo sui miei passi, facevo pasticci, in genere la corda strideva facendo male ai denti. Alcuni di questi pasticci sono usciti fuori argine, sono esondati fuori dalla rete e là fuori sono diventati nodi, voci – noci da far spertusàre al pàppicio, volendo – legami. Hanno creato differenze, nel contatto con altre voci hanno modificato il mondo fuori di qui, il mio e quello di chi avevo di fronte generando a loro volta cose, tempo, parole ed eventi nuovi che prima non c’erano, che io lo desiderassi o meno. Anzi, soprattutto quando toccare, spostare, modificare qualcosa era l’ultima delle mie intenzioni. Ma succede, talvolta anche solo a causa della nostra semplice presenza a questo mondo. Nel bene e nel male. L’ho già detto, lo so. E poi siete arrivati voi, e le parole sono esplose. Scoppiate. Bam.
Per cui ecco, ti parlo della luna, Altro che non sei altro, è vero, e per questo è così faticoso a volte per me parlarne. E’ pesante da tirar su, ma poi che bello quando a furia di tirare si vede che stiamo entrambi cercando di tirare fuori la luna, e ognuno la sua. E sono tutte lune che esistono, sono dietro l’angolo, subito sotto l’orlo del pozzo, a volte sono abbandonate, e sono nostre. Non mie o tue solo perché ci siamo nate, ma di tutti, di chiunque voglia venirci a ficcarsela negli occhi, a metterci i piedi sopra. A volte stanno in alto e a volte in fondo a un pozzo. Del resto che ne sapevo delle frasche e del terrano coi ovi, io?
Ma lontane, poi… quanto lontane possono mai essere? In alcuni casi molto, in altri non distano tra loro più di un paiòn. E allora sì che tirare la corda fino a farsi scoppiare le tempie vale la pena, e anzi… non pare più una pena, ma una fatica di quelle durante le quali viene da cantare e in cui si va avanti per frammenti di un discorso che parla d’altro, sempre dell’Altro. A te, di te, e non di me. Sarebb’a dire: chi se ne fotte, troviamoci un tavolo e sì che te la racconto, ‘sta storia.
E chissà se siete riuscite a tirarla su, poi.
Tag: eus voci, i soci, idioma o idiozia, in somnus
Visto che ho l’autorizzazione nel taschino, dico: “čistaja, kak sleza” e aggiungo che pur ben sapendo cosa si nascondeva sotto il link, ho letteralmente pianto più di una “čistaja sleza”.
Preciso meglio: il link ha fatto esondare quello che il testo aveva già fatto emergere.
Nein, keine Fernsehkartulina. Domande, domande, domande…