(con)dens’azioni

 Che poi ti distrai un attimo ed è estate veramente, ormai, e molte cose, anzi tutte le cose maturano nel calore. C’è il grano, poi il fieno, e l’afrore della pelle sotto il sole a picco. Se ti concentri, riesci persino a diventare densa, mentre guidi – te, la tua macchina e i due che sono con te – dentro una nube di polvere marrone, dentro la ferita aperta nella carne viva di una collina di tufo giallo. Ma è una cosa che non si vede e non fa niente, visto che la tua voce non sta mai al posto giusto al momento giusto. Però riesci a dire – quasi gridare – attraverso il parabrezza al mezzo che vi precede sulla salita, senza paura: ma dove cazzo stai andando, eh? Che quasi quasi vorresti farglieli pagare tutti a lui, i boschi di castagni malati che vi circondano. Hai indugiato per un momento e ti sei sporta dal finestrino a guardare meglio, a un certo punto, mentre i tuoi compagni non capivano cosa stavi fissando, perché pensavi (speravi!) di non averli visti, tutti quei cancri aperti su tutte quelle colonne che stanno lì a reggere il cielo e la terra al loro posto. E invece no. Ci sono, eccome. Tre anni al massimo, quindi, e poi… ma come cazzo ci è arrivato quel fungo fin qui, me lo spiegate, ché non ci deve stare qua, non ancora almeno, eh, come cazzo ci è arrivato, e dove cazzo stai andando, eh, tu, lì davanti, dove cazzo vai?

– Ma se mandano a fuoco qui… siamo in pieno bosco… l’incendio sarebbe tremendo…
Essaiquantosenefottono.

Dice così, tutt’unaparola. Un pugno di ventidue lettere.

Allarghi gli occhi, e lo vedi che ha ragione, e te lo dici: ma di che ti stupisci. Siete dentro una ferita infetta, e ti stupisci che dentro questa ferita ci sia nascosto un cancro? (un altro?)
Pensa, accidenti a te, pensa. Quante volte dovrai passare ancora per questo stupore? Madonna quante sono. Già tutte malate. Forse il fuoco… sarebbe meglio.

*

 Certi giorni va così. Ti guida la tua terra a questi pensieri veri, potenti, limpidi.
Limpidi. Čìstye. Čìstye, kak sleza. Limpidi come una lacrima. E se esiste una lingua in cui le cose limpide sono così… allora pur valgono la pena, questi pensieri, queste parole, queste lacrime, che uno li pianga, li dica, li pensi o meno. Mysli kak slëzy.

Ieri a piedi scalzi, pensi, oggi invece e chi ci mette piede lì, ma nemmenosemmipagano.
Allora le parole si fanno solide come chianètte dint’ ‘a panza, e sorridi con soddisfazione quando ti accorgi che la Voce che hai di fronte non sta cercando in alcun modo di tranquillizzarti. Senza esagerare, perché non c’è nessun bisogno di esagerare per capire. Almeno, non in questo senso. Quelli che cercano di tranquillizzarti, di tranquillizzare, anzi, ti fanno andare in bestia. Allora accogli la chianètta, che fa male e va bene. Così va bene.

*

 Attraversi questi tempi di ipertrofia delle parole che ti pigliano allo stomaco così, cercando a tua volta di non far male a nessuno. E chissà fino a quando ci riuscirai. Fin’ora ti è andata (quasi) bene, e intanto… inventi. Prendi a prestito parole di altre Voci, fai pasticci non irrimediabili, le lasci risuonare, ancora e ancora, cancelli, riscrivi continuamente, ti muovi profondo, spesso troppo e quando non ce n’è bisogno, e mai che ti riesca di capire quando è il momento di sorvolare. Sempre così. Scrivi a fiumi e poi te ne penti, poi ci ritorni, vai indietro, chiedi scusa, procedi di nuovo, se trovi un punto dove cammini bene vai anche spedita e poi inciampi, ti volti a guardarti le spalle e puntualmente vai a sbattere. E cazzo.
E gli dici, in capa a te: no, mo’ ora tu mi spieghi perché io ho sempre questo enorme bisogno di spiegare. E anche a lei: me lo spieghi anche tu? Spiegatemi a che serve spiegare. Sarà un fatto di ali, dice lui, ridendoti in faccia, in sogno. Eh. Ma vavatténne, va’.
 E’ che tu di fratture sei piena. Come tutti, sei una cosa intera con la capacità di guarire quando il caso ti lacera, con una tua coerenza interna. Ma perché hai tanto bisogno di dire questo? Perché pare che tu non riesca a fare altro? Che utilità ha per te, che utilità ha questo per loro che ti stanno intorno, a parte assistere ai tuoi tentativi d’esplorazione maldestra e in certi punti persino pericolosa? Che ti prende, che incontri nuove Voci e non la smetti più di blaterare? E che succede, soprattutto, con questi pronomi e altre cose inutili di cui non puoi in alcun modo smettere di parlare quando prima non spiccicavi una parola che fosse una, e niente veniva fuori, ma niente proprio? Perché prima non c’era niente, e adesso è un casino esagerato che certe volte non puoi distinguere le voci che stanno parlando? E perché viaggi sempre più di gran carriera su questo scivolo di pensieri indivisibili che ti si compone sotto le chiappe man mano che scivoli, sempre più veloce, verso una densità così densa da diventare a tratti quasi insostenibile? Perché succede che sempre più spesso ti sembra che tutto c’entri con tutto?

Pronomi, polmoni, tritoni, fanoni, bastioni, bastoni, portoni, coglioni, canzoni, cognomi, stagioni, azioni, sensazioni, suoni, baffoni, misurazioni, informazioni, segnalazioni, marroni, preposizioni, associazioni, congiunzioni, direzioni, scarcerazioni, liberazioni, rigenerazioni, complicazioni, malformazioni, opzioni, relazioni, palatalizzazioni, lezioni, sessioni, riunioni, questioni, prigioni, previsioni, peperoni… potresti andare avanti all’infinito, ormai, e divertirti pure. E’ estate, e insieme a tutte le cose anche le parole pendono mature nel frutteto delle Voci. Liquide come sempre, ma più dense e saporite di prima. Cosa è successo?

L’argine si è rotto, dentro, da qualche parte. L’hai già detto. Dici sempre le stesse cose.
Semplicemente: scorrono, adesso, il ristagno è finito. Fuori dall’argine, spesso e volentieri ora esagerano, esondano. E anche tu esageri, che ti ci butti dentro, nuda e intera e senza paura, a giocare e a lasciarti lavare, e infine portare via. Hai già detto anche questo.

La cosa più bella? Avere qualcuno da ringraziare, per questo, e avere il desiderio di farlo. E allora prendi, e ti metti in cammino di volta in volta verso le Voci che hanno liberato per te le acque di questo meraviglioso fiume polposo che non si vede e che più ci giochi – ancor più meravigliosamente – e meno hai idea di cosa fartene. E meno sai cosa fartene, più libero e potente scorre.

Grazie per essere venuta.
– Eh. Ma ci mancherebbe!
Eh?

E’ vero che non si capiva, perché ci mancherebbe, ma non importa. E’ vero che dici sempre cose che non c’azzeccano, e poi dopo tenti di spiegare. E’ vero che la tua voce non sta mai al posto giusto nel momento giusto. Vai per tentativi ed errori, procedi per aggiustamenti successivi, che si incastrano uno sull’altro, e poi. Provi a spiegare. Le parole, le ali, la tovaglia, qualcosa.

E dopo? Che farai?
– Mi piglio il brevetto.
Checcosa?
– Eh.
Ma sei pazza!
– Boh.
Come boh?
– E’ solo che è quello che voglio fare.
Sì, ma
– Ma?
Manon hai paura?
– Ma jamm’, ja’, paura di che?
Eh! Odio quando fai così… uno che ti deve dire?
– E che vuoi dire, nunn’aggio capito?
Niente.
– Ecco.
Eh. Ma poi me lo fai fare un giro?

Un giro. Allora ecco che spiegare… si deve. Qualcosa, in qualche modo. Anche senza parole, qualche volta. Speri solo, nella corrente, di non urtare nessuno… o, se urti, di non ferire. In questa densità, provar giochi di resistenza, di parole di carne di affetto. Non affettare, tagliare, lacerare, ma solo toccare. Toccarsi, raggiungersi. Almeno provare, intanto. In tanto. In tanta abbondanza. Con tanto contento. Perché tanto, sempre un recipiente resti.

(e ppesante, pure)

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