E giù in picchiata col suo aliante stupendo,
emozionando al suolo si spetascia.
[Elio e le Storie Tese, 1995]
*
Ah, l’estate. Uno l’aspetta tanto, non foss’altro perché dopo una giornata intera di sedieppiccì arriva quell’ora in cui il sole s’abbassa fino a un certo punto sopra le montagne – quel punto in cui dice tre quarti d’ora e poi ve saluto, eh – ed è il momento di filare via. E’ veramente niente più che un momento, se ti sfugge non lo riacchiappi più… ed è subito sera. E se non ci hai i fari, diciamo che di sera non è più così divertente, ecco.
Perché cambiano gli orari, in questo periodo. Mentre fino a non troppo tempo fa per uscire a pedalare era meglio aspettare le ore più calde del giorno, adesso è più bello aspettare quel momento lì, in cui i colori e i contorni della campagna si ammorbiscono, gli odori si fanno più forti, le rondini iniziano la loro spettacolare danza serale prima di tornare al nido (che poi in questo periodo è occupato dai pulcini, e a loro tocca dormire fòre ‘a porta) e a bordo strada si vede fare timidamente capolino, in unità sparse, il piccolo popolo che di solito ci si domanda se non esista solo sugli album di figurine del WWF di quando s’era bambini. Qualche ghiandaia. Le rane e i rospi, che saltano fuori dai fossi a decine. I gatti randagi, di cui prima di cominciare a girare per questi angoli di paesaggio credevo questa terra completamente priva. Ma soprattutto gli insetti. Non so quali, tra muschìlli, tafani, zampàne e zampanielli e gli altri miliardi di puntini neri con le ali che si alzano in prossimità dell’imbrunire è un casino. Tutti insieme s’aìzano, loro, in un momento in cui c’è abbastanza luce per andarsene in giro senza essere stirati agli incroci ma non abbastanza da giustificare un qualsiasi occhiale da sole. E quindi.
Un pomeriggio arriva quel momento lì e io, pronta, sono lì che lo aspetto. Esco in allegria perché dopo giorni e giorni di tempo ballerino oggi c’è stato uno dei primi veri caldi estivi, anche se all’inizio ufficiale della stagione manca ancora qualche giorno. E allora: fiera, ponte della ferrovia, sinistra, viale alberato, ponte sul fiume, semaforo, sinistra, ponte sotto la ferrovia, dritto… cimitero, sinistra, lago, curvone, salita, fossoconlerane (schivate in slalom: quattro), incrocio, sinistra. Qui inizia la campagna aperta: strada a due corsie dalle curve morbide, una casa ogni chilometro scarso. E naturalmente, gli insetti. Tutti gli insettini del mondo equamente distribuiti per l’aere, all’improvviso. E certo, cavolo, qua cominciano i campi aperti, l’ho appena detto. Pf! Pedalando vado loro incontro in velocità, poaréti, e loro vengono incontro al mio viso festanti come minuscoli proiettili. Tutti.
Poi non so bene che succede.
In fondo, lontano, la strada si abbassa per passare sotto l’autostrada… dovrei passarlo, il solito sottovia, ma non ci arrivo: d’istinto sono già da un po’ con gli occhi semichiusi cercando di proteggerli dalle microschegge di cui l’aria è satura quando nel mezzo campo visivo (già ridotto) a destra si vede comparire una macchia marrone, poi un qualche impatto sulla palpebra, poi un dolore di spillo ficcato nell’orbita. Faccio per frenare ma freno male, mi sono forse portata la mano all’occhio ma forse è quella sbagliata perché l’unica mano che resta sul manubrio è quella sul freno anteriore, freno, la bici si impunta, la ruota posteriore si alza, ma riesco a smontare dalla sella, solo che intanto c’ho la bici ormai quasi verticale dietro la schiena, in bilico sulla ruota anteriore, poggio il piede sinistro a terra e insieme al piede viene giù anche il resto, e io insieme al resto, scrash!
A terra. Caduta sul fianco sinistro, la strada sa di erba e gomma. Faccio leva sull’avambraccio e mi tiro su. Mi dò un’occhiata alla mano che ho grattato sull’asfalto, poi al braccio. S’è squartato il guanto ma non mi sono fatta niente, solo una piccola abrasione sul gomito… e io che avevo fatto la faccia storta all’ortopedico, quando mi aveva detto che avrei dovuto portarli sempre, i guanti, dopo l’operazione. Mi viene da ridere, mi dò bonariamente dell’imbecille, oltretutto mi sono arravogliàta mani e piedi proprio mmiez’ ‘a via, se fosse stato altrove le auto mi avrebbero fatto aderire al suolo come una cozza al suo scoglio… poi mi ricordo dell’occhio. Lo tocco con un dito e una stilettata di un dolore caldo e pulsante mi si diffonde sullo zigomo destro. C’era anche prima, forse, ma non me n’ero accorta, cavolo. Si sta gonfiando. S’è gonfiato. Ma che è? Uhia, che male.
I pensieri dilatano il tempo, ma non passa un minuto che sopraggiunge un’auto, un furgoncino bianco, alle mie spalle. Questo tratto è rettilineo, aaaaah, speriamochenonmihavvistooooo.
Si avvicina, rallenta, si ferma. M’ha visto. Mado’, che vergogna. Chi guida si sporge dal lato del passeggero e apre la portiera, un signore sulla cinquantina e forse più, faccia da furlàn, robusto ma magro insieme, le guance rosse e baffoni da omino della Bialetti. In totale, un omone.
– Signorina, tuto ben?
– Sì… sissì… tutto bene, grazie, ho perso l’equilibrio frenando…
– Eh, ho visto…
Ha visto. Mi sento avvampare come un puparuolo maturo, e il bozzo sotto l’occhio prende a sbattere violentemente. Mi porto di nuovo una mano all’occhio.
– Ma cossa che xe successo? Te se ga fata mal?
– Ma no, no, ho frenato all’improvviso perché mi deve essere finito un insetto in un occhio…
L’omone sorride… poi no, ride proprio. Un poco. Ma ride.
– … ma non mi sono fatta niente, veramente.
– Eh, niente. Togli un po’ la man de là.
– …
– Te ga preso un tafan o una vespa, me sa. Te fa mal?
– Sì, un po’… cioè no, va be’… niente, davvero…
– Eh, niente. Guarda che te sanguini.
– Eh?
Maledetto il cinema, c’aveva ragione quello lì. Invece di cercare di sentire se avverto qualche altro dolore, mi tasto la testa pure se non l’ho battuta da nessuna parte. Troppi film, troppi film.
No, fa il vocione coi baffoni. E indica in basso, verso i piedi. Non troppo sotto il ginocchio destro tre rivoli di sangue sgorgano copiosi da altrettante piccole ferite. I denti del pedale.
– Aaah, vedi, la bici te ga morso.
– Oh. Non me n’ero mica accorta…
Non sento dolore ma solo un bel calore, dal morso fino alla caviglia.
– Vien, dai, entra un momento in cortile così te lavi ‘n’àtimo quei buchi… vedi quanto sangue, non son tanto larghi ma son profondi.
– No, ma…
– Eh, ma. I pedali xe de fero. Entra, è qua.
– No, ma…
– Forza!
E che gli devo di’? In effetti sono cascata proprio davanti al cancello d’ingresso di casa sua, un cascinale di campagna con le imposte di legno, di quelli vecchi’antichi che qui si usa ristrutturare invece di abbattere, col grande lavatoio di pietra tipico di queste parti dal lato della strada. L’imbrunire mi coglie con un occhio dolorante, senza scarpa e calzino a un piede, seduta sul bordo di questo lavatoio con mezza gamba sotto il suo generoso getto d’acqua gelida. In compagnia di un omone coi baffoni che ha in mano un asciugamano giallo, pulito, di quelli sbiaditi e resi ruvidi da una carriera in famiglia di mille lavaggi. Chissà quanti anni ha, ‘sto pezzo di stoffa. Scambiando due chiacchiere, scopro che il vivaio dopo il sottopasso dell’autostrada è suo. Era lui che ci aveva salutati, qualche mese fa, quando siamo passati di qua.
– Te vedo passar spesso de qua.
– Eh… sì… quando posso fare un giro in bici ci vengo… niente macchine…
– Te fa ben. Se vai in bici dentro Pordenon e cadi te spiàcicano.
– Eh!
– Ma guarda, le scarpe pien de rosso. Sembra che t’ha morso una bestia, veramente.
Ride, lui, forse all’immagine di un qualche cane con un paio di pedali per fauci.
Rido, io, per queste scarpe per che ormai non sono nuove più a nulla.
– Certo, però che fortuna col tafàn...
– E vabbuo’, succede…
– Be’, insomma, in un occhio… mica tanto…
– …
– …
– …
– No, va be’, a chi va in bici forse capita, dai…
– Eeeh…
– Ma no te preoccupar, lava con l’acqua calda, stasera, che doman già no te sente più niente...
– Ah. Va bene…
– Comunque a quest’ora…
– Eh, lo so, col caldo. Oh, fatto.
– To’, ‘sciugate.
– Eh, ma grazie… veramente…
– Ma figurate, eri proprio al centro della strada. M’hai fatto ridere.
E lo dice come se l’asciugamano fosse per ricambiare.
– ‘desso va’, dai, che fa sera.
– E sì… arrivederci, allora.
– Ciao, sai.
– E grazie ancora!
– Ciao!
Mentre pedalo verso casa che è quasi buio il morso della bici fa più male mentre quello del tafan meno. Fendo nuvole di zanzare ad occhi ancora semichiusi – il destro piange, ha i suoi motivi – e dalle rive del lago, dove c’è la festa in piassa, arriva l’odore e quasi anche il sapore delle grigliate di carne che si stanno cucinando. Che fame, fa lo stomaco.
Poi ci ripenso: mh, un asciugamano pulito e acqua per lavare una ferita in cambio di una risata.
Segno col pennarello verde sulla mappa che ho nella bisaccia questo ricovero dove se ti presenti con il mòzzico di una bici su una gamba e un occhio gonfio nessuno si scompone, e per ricevere soccorso basta essere onestamente ridicoli, come mamma c’ha fatti. E se è giusto mmiez’ ‘a via… meglio ancora.
E io che mi preoccupavo…
La tratti bene, la sua biciclettina, anche se morde o forse anche perché morde. Non vede come le consente di esplorare mondi che con altri mezzi non vedrebbe? Certo, se ci si mette il tafano mmiezz’ a via e se il tafano va ddinto all’uocchio (se è sbagliato mi molli pure ‘nu zicchinètto), ci vede da un occhio solo. Ma alle volte ne basta uno.
Sempre buono il caffè qui, comunque. Si riguardi e passi una buona domenica.
Che poi a vederci da un occhio solo a volte si vede anche meglio, o se non altro da un punto di vista diverso. Ma io ci vogghio bbene tre volte di più, alla biciclettina, per questo (che poi non era neanche colpa sua), lei c’ha ragggione assai.
Comunque stia, stia… gradisce ancora ‘nu cicciniéll’?
Grazie, volentieri, sempre senza zucchero, così come esce dalla cuccuma.
😀
…scusa per la risatina ma… 😉
Piuttosto, povere anche le tue scarpette. Saranno mica sempre loro?
Eh eh, sempre loro, sempre loro.
Felice del tuo sorriso. 🙂