Tu
Una parola basta e mi strappi dei gridi,
mi toccherai, uscirà pronto il sangue,
mi guarderai, sarò subito cieco.
Sei affanno, agguato, zuffa
appena che respiri.
Se mi arrocco in difesa
nell’inverno, negli anni,
al petto conto i colpi di un passero impazzito
che sbatte ai vetri per uscire incontro.
[Erri De Luca, da Opera sull’acqua e altre poesie, 2002]
*
Ti vedi e ti rivedi in una foto che qualcuno ti ha scattato quando non sapevi, non guardavi, facevi altro. Nemmeno riesci a capire perché la guardi con tanta meraviglia. Sei tu, quella? Ma davvero?
L’occhio dell’altro così ti vede, così ci vede, immersi in qualcosa, un’azione che ci occupa tutti interi, con in testa un pensiero che non si vede, fatto di parolesuonicoseodori? Vedi lì l’intero che sei e pensi boh, ma come si può stare così, nudi e interi, sotto il cielo, a fare quello che ci piace? Come si fa? Si fa che succede, ecco, e così non è che ci si possa fare qualcosa. E tu, sempre così presa dalla preoccupazione di quello che si può dire e quello che non si può (massipuò?) vedi solo ora quanto è facile essere scoperti senza scoprirsi, e darsi, e dirsi, alla faccia delle fratture che ci separano da quello che dovrebbe essere l’esterno, e invece è solo uno sguardo che ci sfiora e ci fa entrare e si lascia abitare e ci accoglie, e ci coglie così, nudi interi intenti, e non ci farà del male, perché diciamolo pure: di te, di noi, in fondo chissenefrega? Ma non è solo questo. E’ quello sguardo spoglio di giudizio, che sorprende e invade, è quel mostrare e basta, ‘sto movimento circolare che è scambio di sguardi – "guarda, ti vedo" – condivisione – con-di-visione, con-divisione – che ti accarezza con un gesto generoso degli occhi, mostrandoti il frammento Chimistadifronte e d(on)andoti la sensazione che non ci sia nulla da temere. Nulla da temere. Guarda, ti dice, nun te mettere appaùra, tanto quello che vedo è nient’altro che questo. E tu, che eri venuta su con la convinzione che a stare negli occhi degli altri c’era sempre qualcosa di cui aver paura, mo’ resti così, senza parole, perché in effetti, ecco, vedi che veramente non c’è niente… da temere… e forse non c’è mai stato. Mai. Sei davvero tu, quella? Sei davvero quello, tu? Sì. E sì. Ma così è come ti vedi tu. Così è come anche tu ti vedi. Senza aggettivi. Così, in quel gesto di ostensione pura che si riserva a chi fa parte della nostra stessa carne. Così, e basta. E allora… la frattura? Dov’è ‘sta benedetta frattura tra te e Chimistadifronte? E quella tra te e quella che parla in Io? Dov’è? Più che altro: c’è?
Se questo è quello che vede Chimistadifronte, no. Se così ti vede… ma quale frattura. Se così ti si vede, allora sei solo carne nuda sotto il cielo, veramente a nervi scoperti, senza chissà quale strappo tra te e Io, in niente diversa da te (ma chi?). E così succede che a guardarti in una foto ti liberi di un timore, il timore di lui e dei suoi occhi che vedono ogni cosa, ché sarebbe bello che i suoi occhi fossero un po’ quelli di tutti gli altri da te, perché di quegli altri sei stanca di avere paura, e come adesso non hai più paura dei suoi occhi vorresti non aver più paura di nessun altro paio d’occhi. Ma sai che non si può. Eppure.
Eppure la sorpresa resta. Perché lui, che il mondo lo percepisce per associazioni di colori e sensazioni, proprio lui ti libera da una paura antica, e ti fa sorridere. La cosa singolare è che lui è uno che quasi non parla, si direbbe. Senza usare la voce, ti mostra che non c’è niente da temere. E’ una gioia saperlo così lontano da ciò che hai conosciuto fino ad ora. E’ bizzarro che da un mondo così diverso possa venire un gesto che libera dalla paura, che ti mostra che là dove qualcuno ha detto frattura è vero, in effetti c’è una lacerazione, uno scarto… una soglia. Eh, forse. Una lesione, ecco. Che se pure apre una distanza tra l’intero che sei e quel pronome dentro cui non solo il tuo ma anche nessun altro intero ci passa, pure resta uno spazio, in fin dei conti, una… una… apertura. Mh. Che non solo separa, ma è anche il varco attraverso cui il fuori può versarsi nel dentro, e il dentro può penetrare il fuori, e qualcosa d’altro – una folla di immagini, un sogno, qualche segno, forse una storia? – può magari anche abitarlo, ‘sto spazio. Perché lo spazio si può abitare, la distanza no. E questo spazio che doveva essere frattura è invece il passaggio l’atto, il punto di congiunzione (la casa delle congiunzioni?) in cui tali e tanti echi si incontrano… e risuonano… e invece di spegnersi, prepotenti, fanno: mo’ mi sto qua, ché si sta larghi e c’è aria, e acqua, e terra. Non che qui qualcuno cerchi di mandarli via, s’intende.
(Allo’? E’ grave, dottore’?)