Dell’odore metallico e polveroso di corde di bassi e chitarre. Di sguardi posati su una necessità di distrarsi più forte di qualsiasi cosa, persino di quelchevvèro. Di pensieri altrove, di parole e mondi che si sfiorano con lo scarto di una sola lettera. E dicono direzioni, e mostrano che puoèssere ma soprattutto anche no. Della tensione su cui corrono veloci differenze e sembianti e contorni e somiglianze. Del vento che disegna le nuvole, in trasparenza. O è il contrario?
Era mai successo, prima?
Di vento e voci, di respiro e cielo. C’è. Ci sta. Dentro. Gravità. Dell’aria la corrente, e l’indivisibilità di uno spasmo. Ci si sta: sopressòtto, dentreffuòri.
E’ mai successo, prima?
Siamo quassù, e ti racconto: mi hanno detto frattura là dove tutto era intatto, e già solo che l’hanno detto s’è aperta una crepa che ha per l’appunto rotto, spaccato, lacerato. E adesso devo rimettere insieme i pezzi, ma non so da dove cominciare.
E’ mai successo, prima?
Schiena contro schiena, le tue parole mi arrivano a fiotti attraverso la cassa di risonanza dei polmoni. Ti sento parlare da dentro, e il suono viene dal basso, dietro lo stomaco. Se metto un solo centimetro d’aria qui in mezzo, non ti sento più. Mai più. Interi, non divisibili. No, anzi, il numero è sbagliato. Intero. Siamo. Noi? Che strano, ‘sto plurale che si fa uno nell’arco della stessa frase. Noi siamo un intero. Ehilà, ma guarda.
E’ mai successo, prima?
Da dietro lo stomaco arrivano le parole aprendosi a ventaglio, da dentro, tra le spalle e il petto, fin dietro la nuca, e lì pizzicano a piccole scariche irregolari tra i capelli. In campo, hai risposto. Coltivare, hai detto, forse potresti ricominciare da qua. Eh. Ma che significa stare in campo, con le parole, ti chiedo, e anche coltivare… non ho capito, che vuoi dire? Eh… dimmi una cosa: come coltivavi la tua terra, tu? A piedi scalzi. (La prima cosa che m’è venuta in mente, la sensazione più forte che mi resta di quel tempo: che era grassa, lei, e ai piedi dava più spesso morsi che carezze. E a ogni stagione te ne grattava via uno strato.) Uh. Forte, ti sento parlare da dentro… non ti muovere da come stai!, ti distrai un attimo e ridi, e rido con te di rimando per la stupidità di aver creduto che sarebbe stato stupido dirlo, che ti sentivo anch’io parlare da dentro. E poi? E poi… e poi niente: nutrendo e pazientando, soprattutto, e tenendo le orecchie ben aperte perché la terra fa un sacco di rumori, diceva mio nonno, e con quelli ti dice sussulti e singulti, bisogni e conati, richieste e rifiuti. Imparando a darle quello che vuole, e insegnandole ad accogliere quello che ti serve far crescere. Cose così. Ah, ho capito, hai detto da dentro, allora si tratta di… andare insieme. Come per la musica, no? E certo, ognuno traduce le cose nella sua lingua, eh. Allora è questo? Imparare ad "andare insieme"? Be’, io lo chiamerei concerto, ma penso sia lo stesso. Tipo adesso, vuoi vedere?
Eh?
The wind is in from Africa, last night I couldn’t sleep…
E’ mai successo, prima?
La penna, le corde e la voce. Eco. Di carne. Che corre da una spina dorsale all’altra e si propaga fino alla punta delle dita e finisce sul foglio che restituisce un campo coltivato a piedi scalzi e due voci che si ascoltano parlare da dentro e non possono in alcun modo essere divise senza esserne lacerate, senza che fra di esse si crei una frattura che farebbe cessare sia la musica che le parole. Ma tu hai ragione. Siamo chiusi tra parole e mondi, uno canta e l’altra imbratta fogli, e pare che non io, non tu, ma noi stiamo sprofondando, no, anzi, qua è tutto così leggero, no, semmai ci stiamo sfondando (s-fondendo?) a vicenda un argine da qualche parte, dall’interno, o forse stiamo provando a sfondare il tetto su cui siamo seduti, a sfondare il tetto delle cose che non sappiamo dire al di fuori di uno di questi due modi – la penna, le corde e la voce – al di fuori di uno di questi due mondi. Lend me your ears and I’ll sing you a song, e quell’and è il punto esatto in cui le spine dorsali si toccano e due forze opposte si mettono d’accordo sostenendosi a vicenda senza bisogno di altri punti d’appoggio, e allora sarà mica questo l’intero di noi su questa terra che si coltiva così, a zappate di spazio e distanza, carezze e mazzate, piccole epifanie e scarcerazioni eccellenti? Cioè, il fatt’è quello… per me era un punto di congiunzione, che so, tipo un link… non una frattura.
Aaaah, ma qua’ frattura e frattura! Ma te l’hanno insegnato quanto fa uno diviso uno, a scuola, o no?, protesti in malo modo a un certo punto per quest’ovvietà che secondo te avrei dovuto vedere ben prima di questo momento. Pensa a quello che stai a ffa’, piuttosto. E va bene, va bene… senza risponderti appunto sul foglio che mi canti nello stomaco e nei polmoni, e ti ascolto ascoltare la mano destra finalmente guarita che si muove a piccoli strappi, ché se si ferma adesso le corde non ti suonano più, mentre io mi tendo verso la tua voce, ché se non la sento più venire da dietro lo stomaco poi finisce che mi finisce l’inchiostro nella biro. Ma come funziona, cavolo, da dove viene ‘sto segnale che s’è messo a circolare in circolo propagandosi su per diaframmi, stomaci e polmoni…?
Oh, you’re a mean ol’ daddy, but I like you…
E’ mai successo, prima?
Che poi adesso è il ventisei marzo ed è prima del giorno in cui pedaleremo in quella campagna lontana dove non avrei mai immaginato di arrivare insieme a un amico, e dove quello che sta succedendo adesso si ripeterà, sotto altra forma ma esattamente allo stesso modo. Tu ancora non hai gli occhi pieni di Trieste e io non ho ancora piene le orecchie della tua voce che non ha smesso di cantare per tutto il viaggio… eppure qui quello che sarà in qualche modo già è. Solo poche ore, anzi, e saremo in partenza, siamo già quasi pronti ma ci siamo fermati un minuto qui, sotto il cielo della Strada che promette violenta tempesta, costellato com’è dai gabbiani del disastro, sulla soglia, in questa bolla di gravità sospesa che pesa e non sprofonda, nuda e senza paura, intera e intatta, accaduta già chissà quante e quante volte a questo mondo eppure mai vista prima d’ora. E che forse per questo non potrà essere lacerata. O che, se verrà lacerata, troverà il modo di guarire la propria frattura e continuerà a viaggiare, rimarginata. Piena di punti e bende, vabbene, ma inestinta.
Era questo che intendevi? Mbe’…
Ma è mai successo prima?
Ovvio che è successo, che domande so’? Andiamo a chiudere le valigie, forza.
Andiamo?
Eh, andiamo.
Noi?
Eh, noi. Il biglietto per quante persone è, scusa?
Mh.
Oh, ma che è? Pare che non l’hai mai sentito prima, ‘sto pronome.
Oh, ma i fatti tuoi tu mai, eh?
No, I said: oh, you’re a mean ol’ daddy, but you’re out of siiiiiiiiiiiiiiiiiiiight….
(ma chi la mette in circolazione, certa gente?)