– Guarda che ti sto dando il cocco ammunnat’ e bbuono, eh!
– Eh! Perché! Quanto tempo ci hai messo per metterla insieme?
– Un anno e mezzo, tipo!
– Cioè… le hai provate tutte?
– E sì! Non lo sapevo mica, dove portano!
– E dove portano?
– Molte finiscono in mezzo ai campi coltivati là, là e là, e altre finiscono nei cortili di qualche casa!
– Ahahahah! Quindi ogni tanto ti trovavi nel cortile di qualcuno!
– Sì!
– Ahahahahahah! Niente cani?
– Qualche volta!
Ride. Ride forte, lui, leggero, magro magro, con quella sua risata a singhiozzi, chiara come i suoi grandi occhi azzurri. Parliamo a punti esclamativi, così, per scavalcare l’aria che scorre veloce fra le nostre orecchie. Mi segue svolazzando lieve lieve sulla strada mentre io, alla mia prima uscita di quest’anno, arranco tra il carico che ho addosso e quello nelle bisacce… ma le mani non danno dolore e questo è sufficiente per andare tranquilla, anche se con il fiato un po’ spezzato.
La strada si srotola quindi generosa davanti a lui che la percorre per la prima volta: chiede, e gli indico le cose che incontriamo e che ho scoperto un giro alla volta, segnando a piccoli tratti sulla mappa questo percorso che mi doveva durare giusto un’ora. Un’ora, due volte al giorno.
E allora: il canale dove a primavera iniziano a farsi sentire le rane. I salici che ondeggiano, pendono, frusciano ai lati dei canali. Le stalle, tre, che si incontrano poco prima dell’incrocio con la provinciale che porta a Prata. Il dente di leone in fiore, che poi puntuale esplode in un mare lattiginoso di soffioni. E’ il ventinove marzo, oggi, il primo giorno di vero tepore di questo mese meteorologicamente indeciso come da copione, quindi le rane ci saranno tra poco, così i soffioni. Ma intanto gli mostro, indico, predìco le meraviglie del prossimo mese nemmeno fossero cose mie, che ho programmato, che ho segnato sul calendario, che farò.
Ed ecco i pioppi all’ingresso di quella casa, gli aceri davanti a quell’altra e la pensilina della fermata bus della linea extraurbana su cui pende un albero di amarene, dove a maggio-giugno vedi sempre qualcuno che aspetta smangiucchiandone con tutta la calma di questo mondo. E le due vie che passano sotto l’autostrada, e il vivaio con il vivaista che tra una fila di palme e una di cycas alza la testa, ci sorride e ci saluta.
E lui risponde, e sorride di rimando per un gesto cortese che gli pare prezioso, perché tiene sempre gli occhi spalancati e vede tutto, tutto, e comprende, comprende così tanto che in qualsiasi momento lo guardi, anche da lontano, ti sembra sempre di sorprenderlo nell’atto di stare capendo qualcosa: un segno, un suono, un odore, cose così piccole o così grandi da far venire a volte le vertigini. E pure adesso, è lì che pedala tranquillo e magro e si guarda intorno, e già so che quando ripartirà porterà via con sé un pezzettino di tutto quello che stiamo attraversando, e niente sarà lasciato indietro.
E così via: il campanile di Palse, il cagnolino marrone che abita nella casa all’imbocco del vialetto che porta al sagrato della chiesa, e che rincorre i passanti per tutta la lunghezza del suo giardino da dietro la cancellata, e quel tratto subito dopo il primo ponte dove ci sono le anatre libere ai lati della strada, e il topo di campagna schiacciato che sta lì ad aderire all’asfalto da almeno una decina di giorni, e… così via, così via.
E mi prende quella strana meraviglia ogni volta senza precedenti che mi invade quando mi sorprendo a fare qualcosa che non avrei mai immaginato. Tipo: chi l’avrebbe mai detto che un giorno mi sarei trovata qui, con lui, in giro in bici per le strade di queste terre, su questa geografia così altra da quella che abbiamo potuto chiamare nostra? Eppure guarda, siamo qui e ci sono momenti in cui mi sembra di stare portandoti a passeggio in giro per la mia stessa carne. E guarda quanto siamo andati lontano, e quando in profondità siamo scesi nella mappa. Tu te lo saresti immaginato anche solo un paio d’anni fa, per esempio quella volta?
– Mh… ok, allora cerco di frenare piano…
– …?
– Embe’ se è carne…
– …?
– … così non ci facciamo male.
(e che è ‘sta prima persona plurale, mo’?)
(aspe’, ‘stardo che non sei altro, questa non è mica la prima volta…)
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