Only those who accept
will find that acceptance in return.
We have been trimmed down like hedges
and told just to sit, and wilt, and spit at each other from a distance
with constant resistance… from you.
Gonna need a home: you’d expect the same now, wouldn’t you… wouldn’t you?
[Dredg, Bug Eyes, 2006]
Perché insieme ai segni si svegliano anche i sogni, poi, eh.
E allora sogno, torno a sognare, continuo a fare sogni. Sogno acque e fuochi, sogno voci cui attacco un volto che forse è, forse non è, forse vedrò, forse non vedrò mai. Parole e dia-loghi sconfinano nel sonno, nella veglia, si intrufolano in quella foresta di luci e bagliori che cresce ai margini della mente, di notte. E’ pieno di confusione, qui. Carte di radionavigazione, tazzine da caffè con il fondo marrone e asciutto, il biglietto di un concerto di tanto tempo fa, fracasso di lavori in corso dall’altra parte della strada che durano da un anno e più (aspetta, ma quello è a sud, sì, va be’, ma che fa?). Ora è il soffio della fiamma ossidrica, ora il potente tintinnio di una mazza da cinque chili sui tondini del cemento armato, ora bordate di flex che sagomano piastrelle facendo scintille. E non accenna a diminuire, questa confusione immobile, dentro e fuori si distinguono a fatica come a volte succede tra cinguettii e suonerie, rifiuti ed esseri umani, io e tu, qua e là. Ma così mi sta bene, come te lo devo dire? Anche quando il sogno è che la barca prende fuoco, e poi si alza il vento, e all’improvviso c’è freddo nelle orecchie e il silenzio si fa liquido perché sei (sono?) affondata. Va bene. Così va bene, capisci? Perché non devi smettere – mai – di sentire. Sentire. Sentire. Sentire. Freddo, caldo, gioia, paura, rabbia, quel che è.
[…dare al fegato un motivo per contorcersi e non perdere la sua elasticità.]
(uh, che bella canzone, quella…)
Solo così il viaggio può continuare, di voce in voce. Una Voce. Un’altra. E un’altra. E un’altra ancora. Come libri. No, come uscite dell’autostrada. No, più lento ancora: come case disseminate su una pianura silenziosa che arriva fino all’orizzonte. A tenerle insieme, solo strette stradine bianche lunghe chilometri e chilometri. Ogni volta che ne incontri (incontro?) una, ti domando (a chi?) dove porterà, come finirà, se finirà. Più che come case, anzi, spesso si presentano come porte, o come strade da percorrere. Quei chilometri che tengono insieme le case sulla mappa, ecco. Molte sono state brevissime. Presso alcune hai lasciato una parte di te e ad esse fai ritorno appena puoi. Il più delle volte erano vicoli ciechi, o tornavano al punto da cui erano partite. Ce ne sono state di pericolose, pure… a senso unico. Sulle dita di una mano conti quelle che stai ancora percorrendo, quelle lunghe – che più sono lunghe e più ti piacciono – lunghissime, che arrivano all’altro capo del mondo e ritorno. Eppure, comunque sia, qualsiasi distanza del viaggio esse coprano, qualcosa resta. Sempre. Non sai come, ma succede. Si seminano da sole – si possono seminare, le strade? – e poi, quando non ci sono più e la stagione è mutata, germogliano, crescono e poi fioriscono. E te ne vai in giro così, ridicola, con questo corpo smagliato come una carta geografica cespugliosa e legnosa che ti è cresciuta addosso che nemmeno il vischio sulle querce, e che non è possibile districare né separare da te senza farti del male in qualche modo. La tua voce, la loro… ma che differenza fa? Se la tua voce si nutre di voci e se loro da te trovano un posto dove stare… ma che importa, alla fine, la differenza?
Che ci sia, la differenza, ecco, quello è fondamentale. Ma quanto importa – davvero – quel che è vero e ciò che dall’incontro fra me e quelchevvéro è nato in questo momento e prima non c’era? Cosa vuol dire esattamente saper inventare?
[La differenza tra due informazioni ne genera una terza, diversa e distinta dalle prime due, la cui forma e manifestazione finale dipende dall’interfaccia attraverso la quale avviene la combinazione.]
(Eh? Chi ha parlato?)
Oggi mi pare infine che tutta la questione non fosse poi così importante, in fondo. Io, tu, egli, noi, voi, essi… ma che differenza fa? A che servono i pronomi? Non ricordo chi diceva che i pronomi dicono le distanze. Va bene, ok. Ma poi? Dicono quel che è vero e quello che non lo è? Raccontano qualcosa, oltre a indicare il punto, la distanza dalla quale ti sto parlando o ascoltando?
Per me (te?)… no.
E allora?
No, dico: e allora?