Mutando riposa (e muore) (e vive) (e ti schiafféa)

La nazione che distrugge il proprio suolo
distrugge se stessa.

[F.D. Roosevelt]

(ma ok, insomma… ci siamo capiti)

            *

Il vento ha deciso di girare, finalmente, e versare sul cielo un po’ di azzurro.
Salendo ho trovato ginestre e monnezza, papaveri e monnezza, rovi e monnezza. E un cumulo di roba grigia e resti di un fuoco proprio lì, santiddio, proprio nell’esatto punto in cui a notte fonda, tre anni fa, io e mio fratello abbiamo scavato con le mani la terra che ha accolto nel suo enorme e rispettoso silenzio il corpicino della bestiola che più avevamo amato a questo mondo. Emmapropriollì, dico io, e che cazzo. Poi in verità si vede: qui, lì, altrove… non c’è più alcuna differenza.

E’ insopportabile, ormai.

Sto cercando un posto. Un posto dove il cellulare non prenda nemmeno se voglio, dove se succede qualcosa non devo poter chiedere aiuto. Questo sto pensando, mentre salgo la stradina che porta fin là sopra. Ma che so’ ‘sti pensieri? Che mi piglia, oggi? Dovrei andare a casa a fare la valigia, e invece me ne sto ancora in giro. E con ‘ste cose in testa. Mah.

 Dovevo tornare a casa a fare la valigia, in effetti… anzi no, per la precisione stavo tornando a casa a fare la valigia, ero anche arrivata davanti al cancello. Solo che non ho frenato, non so perché, qualcosa mi ha spinto, una pacca invisibile dietro la schiena, tipo, o forse un calcio in culo, non so… e sono scivolata avanti. Fino a finire qui.

(che poi, da quanto tempo non salivo quassù… un anno, forse)

Qui sì, non c’è cellulare che tenga. Stai pure qui, se vuoi, sembra dire l’ulivo all’ombra del quale sto guardando la pianura che stamattina soffocava in un abbraccio di afa e foschia pesante, tanto qua nessuno ti trova.
Dici davvero, albero? – mi sorprendo a dire ad alta voce alzando gli occhi verso il tetto delle sue foglie, attraverso il quale filtra a piccole costellazioni quella parte di cielo dove da nemmeno mezz’ora s’è alzato il Maestrale. E già. Dice davvero. Qua nessuno mi trova, nemmeno volendo, ripeto distrattamente sotto questa specie di minuscola notte verde dalle stelle azzurre in pieno solleone…

ma nessuno proprio. A rigor di logica questo mi dovrebbe preoccupare… e invece no. Senza  collegamento con la matassa di strade che da qui mi vedo sotto i piedi, succede che d’improvviso… mi … sento al sicuro. Sì, è questa la sensazione. Sono al sicuro, se nessuno mi trova. Se nessuno mi trova, allora sono al sicuro. Si ripetono, le parole, e si ripetono, e si ripetono ancora, e ripetendosi mi fanno eco nel ventre per un tempo che mi sembra infinito… finché… l’eco… non inizia… a farsi spazio… spazio… spazio… che si allarga… allarga… allarga… e tanto è largo… che a un certo punto… diventa… un… un fresco… che… mi calma. Calma sì, e calma tutto… i nervi, il respiro, le mani.
Alzo la testa – quand’è che mi sono abbracciata le ginocchia e mi sono accartocciata così, oddio? – e mi guardo intorno. C’è solo vento, ulivi in fiore, cicale… e, dietro le spalle, una pineta che veglia sulla pianura da secoli, e secoli, e secoli… e dove il vento prende la voce potente e banale di una gigantesca carezza.
Ora ricordo che mi è sempre piaciuto venire qui. E ricordo anche perché. C’è che di solito il vento scende, quassù. E’ una mano grande e leggera, come quella di certi intagliatori, che affina, sagoma, sgrezza i pensieri. Anche quelli fatti del legno più stronzo, che si torce e si imbarca. Basta soltanto offrirgli la schiena, e tenere a mente che se lo ritiene necessario non si fa problemi a mollarti qualche colpo di sgorbia direttamente sui polmoni.

Nessuno può trovarmi, e sì. Meno male, aggiunge lui. Ma dimmi tu cosa mai può succedere in un posto così? E ha ragione. Qui c’è solo vento, erba, insetti, e alberi vecchi quanto questa terra di tufo e sole. Invece di preoccuparmi – ma ho già  dimenticato che stavo giusto cercando questo, salendo qui? –  finisce che torno a sentirmi al sicuro. Dovrei correre a casa a fare la valigia, e invece no. Voglio stare un altro po’ qui. A sentirmi al sicuro.

 E’ che forse volevo partire con un altro odore, addosso. Un altro che non fosse quello della monnezza. Fuori da questi confini è difficile spiegarlo, anche quando si tratta di una voce amica che ti sta prendendo in giro con tutta la bonarietà del mondo. Allora capita forse così che uno sta tornando a casa e poi all’improvviso si lascia sospingere, e dice: voglio salire. Voglio vedere, sentire da sopra. Da là sopra, vedere come sembra quaggiù, dove ci muoviamo come batteri dentro la sua ferita infetta (di chi?). E’ che si è alzato il Maestrale poco fa, sì, e adesso nel cielo ha disegnato una linea che lo divide a metà tra azzurro e il bianco sporco di questa mattina.. si vede che sta passando la scopa, una buona volta. E’ di buon auspicio partire col Maestrale, ricordo che mi dissero una volta in un porto molto più a sud di qui. E intanto il cielo si pulisce, e il vento scopre le ferite sulla carne viva di mia Madre. Una grossa libellula verde mi sfreccia sopra una spalla. Ora non scende più, il vento. Ha girato. Quindi sale. E sale da lì. Proprio da lì. E allora dimmi.

Qual è il prezzo di una ferita, di questa ferita?
Che cosa posso fare per te?
Cosa ho fatto fino ad ora?
A un certo punto ho avuto paura, è vero. Ero talmente, talmente stanca. Ora l’odore della tua cancrena arriva anche qui, a zaffate, a schiaffi a mmana smèrza, nel vento.

E cosa mi aspettavo, del resto? Se faccio qualcosa di sbagliato mi prendi a schiaffi. Sei mia madre. E per giunta sei del sud. C’hai la mano pesante, tu, e i tuoi metodi educativi sono sempre stati discutibili, è vero. Ma tant’è.

 Dovrei forse chiudere la finestra per non sentirlo, questo odore alcolico di ferro e carogna che si pianta nella trachea? Sprangare le imposte dei sensi, della coscienza, della rabbia? Ecco, forse così si fa per restare sereni in questo infinito scempio. Ma se lo faccio – senza che ci giriamo intorno – ci saranno altri schiaffi. Se chiudo la finestra e perdo questo senso di rifiuto, il senso del rifiuto, il senso della parola stessa – rifiuto – sento che mi perdo tutto, tutto e definitivamente. Se chiudo la finestra non cambia niente. Se io rifiuto non cambia niente e anzi, mi faccio segno di questo rifiuto. Se rifiuto, io stessa sono un rifiuto: sono il mio rifiuto, e un rifiuto – rifiutato – di questa terra che mi è madre.
Allora è vero quel che dice il Grande Vecchio che vive sull’Altopiano, che dopo il freddo dell’inverno succede sempre, sempre qualcosa che proprio quando stai per tirare i remi in barca viene a scuotere l’acqua e a darti il segnale che è ora di svegliarsi di nuovo: un affetto, un dolore, una paura che ti dice che c’è ancora da fare, che non è ancora finita. E’ difficile crederlo, a volte, in questo caos immobile che non accenna in alcun modo a diminuire, fuori come dentro. E tuttavia.

 E allora tanto vale portarsela dietro, la tua putrescenza. Ché tanto se è tua è anche mia. Tra le mie ferite e le tue non c’è nessuna, nessuna differenza, e allora sì, così si può decidere: continuo con il tuo odore addosso a camminare nuda, di geografia in geografia, a nervi e cicatrici scoperte. Come te, che pure ancora ti mostri sfinita ma senza vergogna del tuo corpo martoriato.

Se non puoi difenderti tu, non lo farò nemmeno io. Quel che ne verrà, verrà. Comunque sia.
Persino nel dolore vedo oggi che si creano – tu li crei, poiché anche se stai morendo la tua fertilità senza freno, tenace, continua a dare frutti – tra i tuoi figli certi misteriosi legami che a loro volta generano altro, altri eventi, altre forze che pure muoveranno qualcosa d’altro, altrove, in forme inaspettate, e ancor più imprevedibili. E questo sì, posso affrontarlo, nonostante la fiducia andata a male, nonostante le distanze, nonostante…

(ahia!)
(eh?)
(e ho capito, ho capito… )
(la valigia, sì…)
(ahia!)
(evvabbemanonc’èmmicabisognodifar…eahia!)

… tutto.

(uffa, però.)

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2 Commenti a “Mutando riposa (e muore) (e vive) (e ti schiafféa)”

  1. keroppa ha detto:

    Giusto: *SIGH*.

    Pure tu, però, eh… mamma mia, e che jurnata

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