Non conosco nessuna nazione che assista così passivamente alla morte dei luoghi.
Paolo Rumiz
Ritrovarsi da soli. Come sempre, come ogni santissima volta che si tratta di questo.
E sbattere la porta – perché non ci si abitua mai, di’ la verità – e andare lo stesso, accidenti, correre, correre, così, a testa bassa attraversare la città come un mulo arrabbiato, arrabbiato, sbuffando e sudando perché fa anche caldo, e….
… ehi!, ti sveglia una voce con un sorriso enorme, che spinge un passeggino blu. Ue’, accort’! Alza quella testa, uagliunce’, sennò vai a sbattere!
E alzarla, sì, la testa. E restarci. Così. Con gli occhi in alto. Di sasso.
Fra un paio d’ore si tornerà da soli, lo sai bene, sull’altro versante del reale, all’altro capo di questi ventotto chilometri di strada ferrata. Ma intanto, per niente più che un momento, sentir riemergere dal buio della rabbia che lo aveva soffocato quel… piccolo… se. Sempre quello, fragile e inutile. E riuscire, per quelle due lettere, a sorridere. Insieme a tutti, tutti quanti.