(Mh, casa.)
Parliamone un momento. Io e te, gatto.
Mèo.
Dimmi un po’, che roba è casa? No, è che passano gli anni e io qui dentro mi sento ancora così. E mi sembra così… ovvio. Naturale. Come se non potesse essere altrimenti. Ma se devo dire cos’è, non lo so dire…
(lei mi annusa la punta dell’indice, poi ci strofina un orecchio. Mi ricorda. Ma davvero si ricorda ancora di me?)
Mèo, fa.
(Intorno i rumori familiari, di sempre. Il frigorifero, il sibilo dell’ascensore nella tromba delle scale, il mormorio basso della tv che due stanze più in là che accompagna la sua giornata verso il sonno. Non è la casa in cui sono cresciuta, ma è ugualmente casa. Non è casa mia, ma è casa.
Guardo il soffito, ripenso alla giornata di oggi. E’ stata una buona giornata. Piena di: un passettino, un altro, verso il giorno in cui; una Voce venuta da chissà dove, con gli occhi chiari e consumati forse per essere stati troppo a lungo spalancati su un baratro; e infine un riabbraccio, lungo, profondo, che ha però ha perso subito il ri-. E ora. Guardo le solite perdite sul soffitto, e… d’un tratto. E’ una specie di… boh. Non lo so. Qualsiasi cosa sia è freddo, punge, pizzica, dalla punta dei piedi sale sulle ginocchia, poi monta alla pancia, e da lì, più lentamente, verso il cuore, e la gola, sotto il mento, serpeggia dietro gli occhi fino a farmi rizzare i capelli, e friggere la pelle. E’ di fuori e di dentro, e…)
Mèo.
(Apro gli occhi. Ma che… dormivo, forse? Mi s’è seduta accanto all’orecchio sinistro, è così vicina che sento sulla tempia il calore delle sue costole. Guarda dritto, fisso, verso il muro oltre i piedi del letto. Il freddo è svanito.)
Eh? Che c’è, micia?
Mèo.
Mh, mmmmmh. Ma che stavamo dicendo?
Mèo.
Sì, giusto.
(Ma forse il punto è lo spazzolino. E sì, mi sa che è lo spazzolino. Ecco, ecco, è proprio questo, anzi. Precisamente questo. Quello spazzolino viola parcheggiato e ben protetto in quel cassetto, nel bagno. Casa. E i piedi a terra, nudi, che appena entri ce li metti subito facendo volare via le scarpe dopo una giornata passata a tessere come un ragno su e giù per il centro storico la tela delle cosedafare. E sopra il soppalco che sembra una tana, il tuo divano-letto a una piazza scarsa, con le tue lenzuola e la tua coperta, sempre la stessa, sempre la stessa di sempre, che quando te la tiri fin sopra le orecchie il tempo torna a parlarti in una lingua che conosci. Piano. Piano, piano, te ne prego. Parla piano.
E le parole che scorrono, a ondate che rombano irrequiete e fanno spuma in superficie e schizzano e si schiantano sulle sponde e risvegliano e ripuliscono dal non detto il greto del nostro fiume come una piena stagionale, questo fiume fatto di due sponde ma che poi è uno. Perché così è: di stagione, in stagione, in stagione, in stagione. E la piccola gatta che viene a svolazzarti intorno leggera come la fata di cui porta il nome, la micia che non fa miao ma mèo, che ispeziona tutti i tuoi effetti personali e poi viene ad annusarti fin sul naso per vedere se gli odori corrispondono, e se sei proprio la sua zia di tanto tempo fa. Ma sì che sono io, gatto, non ti ricordi? Non ti ricordi di quando di notte sognavo che qualcosa di grosso e pesante – un muro, una casa, una porta blindata – mi era caduto addosso, e invece eri solo tu che mi stavi comodamente dormendo stravaccata sui polmoni?
(Sono io, le dico. Lei inclina un po’ il capino, ma continua a guardare sullo sconfinato spazio bianco oltre il velo della parete. Poi gira il musetto bianchennero di qua, e fa vibrare le belle vibrisse bianche (sorrido alla ridondanza, e lei fa uno sguardo sufficiente assai. Eh, c’ha ragione… ma cosa posso aspettarmi da una cosa che si chiama così…?).
Mèo, me-me. Mèo.
(E si allunga, e si accomoda in tutta tranquillità sulla spalliera del piccolo divano a fiori. Ricorda, allora.
Lei è uno di quei gatti che non si fanno accarezzare, un po’ ipertesi, un po’ che appena ti muovi più bruscamente di un pesce dentro un acquario lei fa la coda a spazzola e si teletrasporta sotto il letto al piano di sopra. Ma se ha detto mèo, allora ricorda. All’epoca due anni ci erano voluti, del resto, perché smettesse di essere terrorizzata dalla mia presenza in questa casa. Un altro anno per lasciarsi sfiorare e concedere – sciala, popolo! – le prime fusa. Rotto il ghiaccio, poi, va be’, un rapporto tutto in discesa: diventare un dispenser di grattini sotto il muso, il tappetino personale o il fornitore di divertimenti notturni era ormai cosa fatta. Una notte fummo svegliate da uno strano clac-clac nella stanza, sul pavimento: era lei che faceva volteggiare a un metro da terra i miei occhiali con perizia da giocoliere professionista.)
Micia.
Mèo.
(Nel nero delle sue belle pupille incorniciate di verde che mi fissano – ma come fai a guardare così fisso, tu? Cosa vedi? – ad un certo punto qualcosa mi trascina via, verso il basso, in una pozza di liquido calore.)
Che giornata, micia.
Mèo.
(Il nero sale. E io sprofondo.)
Che giornata, sì… e poi c’è ancora domani…
Rrrrrrrrrrrr.
Eh, rrrrrrrrrrrrrrrr….
Rrrrrrrrrrrrrrrrr.
Gatto, io mi sa che adesso dormo. Ma tu non te ne andare, per favore. Se vedi arrivare di nuovo quel sogno… tu che li vedi, caccialo via. Ti prego.
Mi poggia i suoi tiepidi cuscinetti rosa e neri sul naso. E poi, dolcemente, sento sulla pelle il lieve pizzico delle unghie, solo la punta, appena appena. Tira via la zampina e torna a vigilare, guardando lontano lontano, davanti, verso l’orizzonte sul muro bianco oltre i piedi del letto dove ribolle, senza contorni, l’immenso mondo dietro di me. Dove io non riesco a guardare, ma lei sì.
Mèo.